“L’EMERGENZA CHE NON VEDIAMO”
MASSIMO MUCCHETTI dal Corriere della Sera del 13 settembre 2011
L’Economist dedica la copertina alla ricerca del lavoro che non c’è in tutto l’Occidente. Nei 34 Paesi dell’Ocse, i più avanzati del mondo, i disoccupati sono 44 milioni, più o meno gli abitanti della Spagna. Ma per calcolare quanti posti mancano davvero andrebbero considerati anche i lavoratori part-time che vogliono il tempo pieno (un posto ogni due tempi parziali), i dipendenti sottoposti a sospensioni lunghe dall’attività (un posto ogni 1.800 ore di integrazione salariale) e infine gli scoraggiati (coloro i quali non hanno più cercato lavoro negli ultimi tempi). I posti che mancano nell’area Ocse diventerebbero così 100 milioni.
Il diavolo che minaccia l’Occidente è dunque peggiore di quello dipinto dal settimanale britannico. E tuttavia, al di là dei numeri, colpisce l’enfasi dell’antica testata liberale sulla questione del lavoro mentre i governi europei e la Bce combattono il deficit dei bilanci pubblici senza troppo curarsi degli effetti collaterali che deprimono l’economia, e dunque l’occupazione. Certo, da tempo la Banca d’Italia invoca politiche per la crescita basate su riforme a costo zero come quella, peraltro inderogabile, della giustizia civile e quella, tutta da approfondire, del mercato del lavoro. Ma oggi tra la durezza della crisi e il riformismo in stile anni Novanta emerge la stessa distanza che separa i fatti dalle parole: vanno male anche i maestri di quella stagione. E allora torniamo a chiederci se ci possa essere una ripresa duratura senza invertire la ridistribuzione sempre più ineguale della ricchezza, quando sappiamo che il disastro è cominciato dall’insolvenza dei poveri fatti indebitare per farli consumare senza aumentare loro le paghe. E poi crediamo davvero che l’Italia possa basarsi soltanto sull’estero quando le imprese esportatrici, peraltro ottime, importano sempre più componenti? E l’Eurozona potrà mai riprendersi se i suoi 450 milioni di cittadini non torneranno a spendere?
Forse non è un caso se George Magnus, l’economista principe di Ubs che aveva capito la crisi dei mutui «subprime» prima della Casa Bianca, ora scrive su Bloomberg: «Date a Marx una chance di salvare l’economia mondiale». La sua è una provocazione. Ma resta il fatto che il balzo della produttività è avvenuto attraverso il taglio dei costi, il trasferimento delle produzioni nei Paesi emergenti, gli arbitraggi fiscali e regolatori tra legislazioni e non solo attraverso il progresso tecnologico. Un processo che ha congelato i salari reali e aumentato la disoccupazione a tutto vantaggio dei profitti. Un’impresa riceverà applausi, se batte questa strada. Un Paese pure, se avrà l’accortezza di non costringere poi i clienti alla recessione, come invece sta facendo la Germania in Europa. Ma se lo fanno tutti? Se lo fanno tutti, ironizza Magnus, si entra nel paradosso marxiano della sovrapproduzione: il sistema ha fatto investimenti per sfornare una quantità di merci superiore alla sua capacità di consumo. E qualcuno deve pagare il conto.
Se non vogliono resuscitare il rivoluzionario di Treviri o, più probabilmente, esporre a tumulti nordafricani democrazie che ai giovani derubati della speranza sembreranno inutili, i governi dovrebbero porre in cima all’agenda il lavoro, non il deficit dei conti pubblici. E il lavoro si crea attivando la domanda interna. Anche a costo di un po’ di inflazione. Sul Financial Times, sir Samuel Brittan critica i flirt marxisteggianti. Ma non censura i rischi della stagnazione salariale né gli auspici d’inflazione. Del resto, la Bank of England e la Federal Reserve continuano a stampare moneta, sia pur virtuale. E pur avendo conti peggiori dell’Eurozona, i debiti pubblici di Regno Unito e Usa galleggiano. La Bce non lo fa perché non ha alle spalle un governo che glielo chieda. E l’euro trema.
In queste condizioni, l’Italia non può lasciar correre il deficit né disimpegnarsi sulla riduzione del debito. Ma rischia anche la recessione se non riesce a riorientare il risparmio privato dai deludenti impieghi finanziari verso gli investimenti nell’economia reale attraverso la leva della politica industriale (che non vuol dire un’altra Finsider ma, per esempio, no ai contributi esagerati per le fonti rinnovabili e sì al risparmio energetico). E la domanda interna non parte se, in attesa di poter alzare i salari, non si usa con coraggio la leva fiscale. È possibile, a parità di gettito, trasferire almeno in parte l’Irap alle retribuzioni e al tempo stesso aumentare l’Irpef? Far pagare la sanità a tutti i cittadini secondo aliquote progressive anziché alle imprese e ai dipendenti sarebbe anche un atto di giustizia. E se si vuole fare un po’ di inflazione, a sollievo del debito pubblico, l’Italia dovrebbe convincere l’Eurozona ad aumentare l’Iva, così da spostare un po’ di peso anche sulle importazioni, avendo cura di salvaguardare i redditi bassi con ritocchi dell’Irpef. Insomma, possiamo rialzarci. Ma ci vorrebbe un governo. Capace di politica interna e di politica estera.
Give Karl Marx a Chance to Save the World Economy: George Magnus
Policy makers struggling to understand the barrage of financial panics, protests and other ills afflicting the world would do well to study the works of a long-dead economist: Karl Marx. The sooner they recognize we’re facing a once-in-a-lifetime crisis of capitalism, the better equipped they will be to manage a way out of it.
The spirit of Marx, who is buried in a cemetery close to where I live in north London, has risen from the grave amid the financial crisis and subsequent economic slump. The wily philosopher’s analysis of capitalism had a lot of flaws, but today’s global economy bears some uncanny resemblances to the conditions he foresaw.
Consider, for example, Marx’s prediction of how the inherent conflict between capital and labor would manifest itself. As he wrote in “Das Kapital,” companies’ pursuit of profits and productivity would naturally lead them to need fewer and fewer workers, creating an “industrial reserve army” of the poor and unemployed: “Accumulation of wealth at one pole is, therefore, at the same time accumulation of misery.”
The process he describes is visible throughout the developed world, particularly in the U.S. Companies’ efforts to cut costs and avoid hiring have boosted U.S. corporate profits as a share of total economic output to the highest level in more than six decades, while the unemployment rate stands at 9.1 percent and real wages are stagnant.
U.S. income inequality, meanwhile, is by some measures close to its highest level since the 1920s. Before 2008, the income disparity was obscured by factors such as easy credit, which allowed poor households to enjoy a more affluent lifestyle. Now the problem is coming home to roost.
Over-Production Paradox
Marx also pointed out the paradox of over-production and under-consumption: The more people are relegated to poverty, the less they will be able to consume all the goods and services companies produce. When one company cuts costs to boost earnings, it’s smart, but when they all do, they undermine the income formation and effective demand on which they rely for revenues and profits.
This problem, too, is evident in today’s developed world. We have a substantial capacity to produce, but in the middle- and lower-income cohorts, we find widespread financial insecurity and low consumption rates. The result is visible in the U.S., where new housing construction and automobile sales remain about 75% and 30% below their 2006 peaks, respectively.
As Marx put it in Kapital: “The ultimate reason for all real crises always remains the poverty and restricted consumption of the masses.”
Addressing the Crisis
So how do we address this crisis? To put Marx’s spirit back in the box, policy makers have to place jobs at the top of the economic agenda, and consider other unorthodox measures. The crisis isn’t temporary, and it certainly won’t be cured by the ideological passion for government austerity.
Here are five major planks of a strategy whose time, sadly, has not yet come.
First, we have to sustain aggregate demand and income growth, or else we could fall into a debt trap along with serious social consequences. Governments that don’t face an imminent debt crisis — including the U.S., Germany and the U.K. — must make employment creation the litmus test of policy. In the U.S., the employment-to-population ratio is now as low as in the 1980s. Measures of underemployment almost everywhere are at record highs. Cutting employer payroll taxes and creating fiscal incentives to encourage companies to hire people and invest would do for a start.
Lighten the Burden
Second, to lighten the household debt burden, new steps should allow eligible households to restructure mortgage debt, or swap some debt forgiveness for future payments to lenders out of any home price appreciation.
Third, to improve the functionality of the credit system, well-capitalized and well-structured banks should be allowed some temporary capital adequacy relief to try to get new credit flowing to small companies, especially. Governments and central banks could engage in direct spending on or indirect financing of national investment or infrastructure programs.
Fourth, to ease the sovereign debt burden in the euro zone, European creditors have to extend the lower interest rates and longer payment terms recently proposed for Greece. If jointly guaranteed euro bonds are a bridge too far, Germany has to champion an urgent recapitalization of banks to help absorb inevitable losses through a vastly enlarged European Financial Stability Facility — a sine qua non to solve the bond market crisis at least.
Build Defenses
Fifth, to build defenses against the risk of falling into deflation and stagnation, central banks should look beyond bond- buying programs, and instead target a growth rate of nominal economic output. This would allow a temporary period of moderately higher inflation that could push inflation-adjusted interest rates well below zero and facilitate a lowering of debt burdens.
We can’t know how these proposals might work out, or what their unintended consequences might be. But the policy status quo isn’t acceptable, either. It could turn the U.S. into a more unstable version of Japan, and fracture the euro zone with unknowable political consequences. By 2013, the crisis of Western capitalism could easily spill over to China, but that’s another subject.
(George Magnus is senior economic adviser at UBS and author of “Uprising: Will Emerging Markets Shape or Shake the World Economy?” The opinions expressed are his own.)
da Bloomberg
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