Volano gli stracci tra Europa e Usa: «Dietro Moody’s c’è Warren Buffett e altre società finanziarie, che controllano anche Standard & Poor’s e Fitch» Il rating sul debito pubblico italiano scende in «serie B», da A3 a B
Brutto taglio se è di Moody’sFrancesco Piccioni
Il «percorso di guerra» tracciato dalle agenzie di rating non piace al governo, alle imprese, ai partiti, all’Europa e neanche al Giappone. Moody’s non ha fatto in tempo a tagliare di ben due notch (gradini) il voto sul debito pubblico italiano che è subito partita una raffica di contestazioni di merito e di metodo contro l’agenzia statunitense. Indicata, in alcuni casi, e senza toni sfumati, come un «agente conto terzi» che ha interesse politico – prima ancora che economico – ad attaccare l’Europa.
Le ragioni del downgrading da A3 a Baa2 sono state indicate nella «vulnerabilità dell’Italia al «rischio contagio» da Spagna e Grecia, nell’alto debito pubblico che costringe il paese a cercare tramite aste 415 miliardi l’anno (e a restituirne di più), nella mancanza di una «rete di protezione» europea.
Il governo è i partiti hanno ovviamente reagito sottolineando gli« sforzi» fatti tagliando la spesa pubblica, realizzando «riforme strutturali» come quella pensionistica o del mercato del lavoro. L’Unione europea ha fatto intervenire il portavoce di Olli Rehn, il commissario all’economia, per criticare quanto meno «il timing» di questo taglio, per l’appunto nel bel mezzo di «sforzi senza precedenti». Persino il portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert, è venuto in soccorso per apprezzare «il coraggio e la determinazione nel perseguire la politica di riforme» di Monti & co. Fino al Giappone, che ha minimizzato al massimo la portata e la credibilità del taglio.
Ma è stato da mondo delle imprese e delle banche che è arrivata una nota congiunta durissima quanto inusuale, che mette in dubbio sia gli argomenti di Moody’s che, soprattutto, la «neutralità». Oltre ai popolarissimi «sforzi» che siamo costretti a fare, si fa notare che «non ci sono state bolle speculative», «il debito aggregato (pubblico più privato, ndr) è basso», il deficit statale sotto controllo al punto da dare un avanzo primario crescente, ecc. Insomma, un «paese solido», «la seconda manifattura d’Europa», che può far fronte a tutti gli impegni presenti e futuri.
Le agenzie di rating, invece, vengono descritte con toni quasi «no globale»: il problema è «la natura commerciale delle società di rating, la composizione della loro governance»; che le ha fatte oggetto di indagini giudiziarie i molti paesi, tra cui l’Italia, e «suscitano forti perplessità circa la loro reale indipendenza». Insomma: come «arbitri» dell’affidabilità degli Stati sono decisamente «venduti», sottomessi agli interessi del paese dei capitali che le controllano. Gli Stati uniti.
Il quotidiano di Confindustria sfodera una lunga analisi su «chi c’è dietro», qualificandole brutalmente come «armi» della «guerra del futuro», che sarà fatta con «droni, telecamere infrarosse e virus telematici». Ma anche di «rating» che da un giorno all’altro rende «i bond di uno stato carta straccia». Giusta – e tardiva – anche la scoperta dell’assenza di concorrenza nel settore: Standard & Poor’s, Fitch e Moody’s controllano il 90% del mercato su cui fanno soldi. Inevitabile anche l’elenco della peggiori cantonate prese nell’ultimo decennio, quelle «triple A» date a pioggia (a società statunitensi) e mantenute fino al momento del fallimento. È stato il caso di Enron (2001), Lehmann Brothers (2008), di tutti i «derivati» che incorporavano i mutui subprime. E persino della Grecia, nel 2009, il cui downgrading è arrivato solo dopo che i giornali avevano cominciato a consigliare i propri lettori di spostare altrove gli investimenti in asset ellenici di qualunque tipo.
Naturalmente si ricorda che il primo azionista di Moody’s è Warren Buffett, «miliardario umanitario» folgorato in tarda età dalla filantropia e da Barack Obama. Quasi a dire che l’America ci sta bombardando a colpi di rating. E che il secondo azionista, Capital World Investors, partecipa anche al capitale di S&P e fa affari in quasi tutti i settori «monitorati» dalle agenzie di rating che controlla direttamente. Un caso di «conflitto di interesse» che rende il Cavaliere quasi un dilettante di quartiere.
La reazione «nazionalista» e «continentale» è comprensibile, persino ben argomentata contro «una confraternita elitaria di appena tremila persone» che fanno profitti stratosferici (50% del fatturato, cribbio!). Ma – in modo decisamente involontario – svela una realtà che, al contrario, ci viene nascosta con attenzione tutte le volte che si deve parlare di «sacrifici», tagli, «sforzi». Questa realtà è il capitalismo finanziario contemporaneo, che non è affatto un «sistema naturale», ma un campo di conflitto terribile tenuto sottotraccia. In questo ambiente non c’è nessuna «scelta di politica economica obbligata», affidabile soltanto alla «tecnica». Ogni decisione comporta che qualcuno paga – noi che lavoriamo, quasi sempre) – e qualcun altro guadagna. E quelli che guadagnano sono in guerra tra loro, utilizzando noi – e i «risparmi» che è possibile fare sulla nostra pelle – come munizioni utilizzabili per avanzare in territorio nemico o «respingere attacchi peculativi». Monti non è un «buon medico», ma un generale in difficoltà in una «guerra» che non è la nostra.
da “il manifesto”
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