La crescita dei salari è ben lontana dai livelli precedenti alla crisi manifestatasi nel 2007 ed è praticamente crollata nei paesi industrializzati del capitalismo in occidente, mentre nelle economie emergenti continua ad aumentare. A darne notizie è l’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro) nel suo Rapporto Globale sui salari 2012/13 . Secondo l’analisi dell’Ilo, i salari globali mensili (i salari adeguati all’inflazione, anche conosciuti come salari reali medi, ndr ) sono cresciuti dell’1,2% nel 2011, rispetto al 3% del 2007 e al 2,1% del 2010. Ma queste cifre sarebbero assai più basse se la Cina fosse esclusa dai calcoli.
Il rapporto sottolinea le enormi differenze tra paesi e regioni, con salari che crescono più rapidamente in quelle aree dove la crescita economica è più forte. Mentre la crescita salariale ha sofferto di una doppia flessione nelle economie industrializzate in Europa e Stati Uniti — dove è prevista allo zero per cento nel 2012 — essa è rimasta positiva per tutto il corso della crisi in America Latina e Caraibi, in Africa e anche di più in Asia.
I cambiamenti più significativi si sono registrati nell’Europa dell’Est e in Asia centrale, dove si è passati da tassi a due cifre prima della crisi ad un brusco rallentamento nel 2009. In Medio Oriente, benché i dati siano ancora incompleti, i salari sembrano aver avuto un crollo a partire dal 2008.
Le differenze tra regioni – prosegue il rapporto dell’Ilo – sono particolarmente marcate se si guarda alla crescita salariale dal 2000 al 2011. Globalmente, i salari sono cresciuti meno di un quarto. In Asia, sono quasi raddoppiati. In Europa dell’est e Asia centrale, sono quasi triplicati nonostante il forte declino degli anni ’90. E, infine, nel mondo industrializzato sono aumentati solo del 5% circa.
Ma, sempre secondo l’Ilo, ci sono anche differenze considerevoli dei livelli salariali tra i vari paesi.
Un lavoratore del settore manifatturiero nelle Filippine prende circa 1,40 dollari americani per ogni ora lavorata, rispetto ai quasi 5,50 in Brasile, 13 in Grecia, 23,30 negli Stati Uniti e quasi 35 in Danimarca.
Il rapporto mette anche in evidenza recenti studi che dimostrano come, negli ultimi decenni nella maggior parte dei paesi dove sono disponibili i dati, i salari siano aumentati ad un ritmo inferiore rispetto alla produttività — e cioè il valore dei beni e dei servizi prodotti per persona impiegata.
Questa tendenza ha portato ad un cambiamento nella distribuzione del reddito, il che vuol dire che i lavoratori hanno usufruito meno dei frutti del loro lavoro mentre chi detiene il capitale ha ottenuto maggiori benefici. Nelle economie sviluppate, dal 1999, la produttività del lavoro è aumentata due volte di più dei salari. Negli Stati Uniti, dal 1980 in poi, la produttività oraria del lavoro nelle imprese non agricole è aumentata di circa l’85%, mentre le remunerazioni sono aumentate solo di circa il 35%. In Germania, nel corso degli ultimi vent’anni, la produttività del lavoro è cresciuta di circa un quarto mentre i salari sono rimasti stabili.
Anche in Cina, un paese dove i salari sono quasi triplicati in dieci anni, la quota destinata al lavoro è diminuita mentre il PIL è cresciuto molto più rapidamente della massa salariale totale.
Il Rapporto chiede quindi ai responsabili politici di fare attenzione a non promuovere una «corsa al ribasso» della quota destinata al lavoro sperando così di guadagnare in competitività per uscire dalla recessione.
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