È difficile restare calmi quando si sentono sparare idiozie a getto continuo, fino a che – come il maestro di tutti i mostri, Goebbels, insegnava – non diventano senso comune, “verità” consaputa, l’ennesimo “protocollo di Sion”.
Prendiamo la storia dei “fannulloni”, uno stigma che pesa sugli italiani in quanto tali, anche se poi ogni categoria cerca di scaricare l’accusa sul vicino. In fondo alla graduatoria ci sono i dipendenti pubblici e, nonostante che da oltre venti anni diminuiscano di numero e stipendio, aumentando le ore di lavoro, l’etichetta è rimasta appicciata loro addosso per mancanza di alternative “populiste”.
Anni a gingillarsi con questi luoghi comuni, poi, tra le splendide sale della villa di Cernobbio, arriva uno studio di Confcommercio – certo non un’istituzione marxista… – e rovescia tutto. Lo fa per i propri obiettivi, naturalmente, ma non per questo i dati sono meno veri. Vediamoli.
Gli italiani lavorano di più ma producono di meno. Sia nel caso dei lavoratori dipendenti che in quello di professionisti e autonomi, nel 2011 hanno lavorato in media 1.774 ore ciascuno. Magari a qualcuno potranno sembrare ancora poche, ma sono pur sempre il 20% in più di quelle lavorate dai francesi e addirittura il 26% in più dei tedeschi.
Poi cominciano i distinguo “commercialeschi”, secondo cui il merito di tanta operatività andrebbe ascritto ai lavoratori autonomi (tra cui i commercianti, par di capire), che si ritengono del 50% più impegnati dei “semplici” dipendenti: 2.338 ore contro 1.604. Lo stesso fenomeno si verifica però anche negli altri paesi presi in considerazione dalla ricerca. E del resto sembra abbastanza logico che se uno è “cottimista di se stesso” sia anche in qualche modo costretto a “spremersi” oltre ogni altra considerazione.
Nonostante questo, resta il mistero glorioso della minore produttività a parità di orario di lavoro.
La media del pollo riferisce di 36 euro prodotti per ogni ora lavorata. I tedeschi producono invece il 25% in più e i francesi quasi il 40% in più. Anche gli incrementi nel tempo della produttività oraria (tra il 2007 e il 2011) segnano un gap profondo tra lavoro italiano e partner europei: 20% in Germania, di più in Francia, Spagna +11%, mentre in Italia solo il 4%.
Nessuno però su chiede da cosa dipenda. Mentre a noi sembra evidente che ci sia un problema serio di “bassa composizione organica” (rapporto tra capitale fisso e persone al lavoro), ovvero di insufficienza di investimenti. Non esiste infatti nessun’altra ragione logica o economica del perché, a aprità di fatica e impegno, un italiano – specie se “sfruttatore di se stesso” per guadagnare di più – debba esser meno produttivo di altri europei.
Ma la questione degli investimenti chiama in causa sia gli imprenditori dal “braccino corto”, che non amano affatto il “rischio di impresa” (fatte le dovute eccezioni, come sempre), sia la politica industriale dello Stato, congelata da oltre 20 anni di “lasciamo spazio ai privati”, da privatizzazioni disastrose e infine da tagli draconiani alla spesa pubblica. Sulle cause, dunque, cala sempre il silenzio dei colpevoli.
Il risultato di questa struttura produttiva che richiede sforzi enormi ai pochi che lavorano, ma che crea ricchezza in percentuale minore della “concorrenza continentale” è un Pil in calo (anche le previsioni per l’anno in corso dànno un altro -1,7%, per un totale di 100 miliardi l’anno in meno rispetto al 2007), investimenti -3%, reddito disponibile -2%, consumi al tracollo (-2,4%, e nessuno più di Confcommercio può essere terrorizzato dal dato) e una media di 615 nuovi poveri al giorno.
«L’export è importante – spiega Sangalli, presidente dell’associazione dei commercianti – ma senza una più robusta domanda interna per investimenti e consumi l’uscita dal tunnel della crisi resta un miraggio». Lo dice uno che vede aumentare i poveri fino alla cifra di 4 milioni (il doppio del 2006); tutta gente che difficilmente entrerà sorridendo in un esercizio commerciale con i soldi in mano. Più facile che ne esca senza pagare e con qualcosa inguattato sotto l’ascella…
La sua ricetta è disperata, anche perché prevedibile: “un governo subito, che faccia quel che ci serve”. Ma se l’analisi è difettosa, anche le soluzioni non saranno efficaci…
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Paolo
Ma perché dovremmo fare una distinzione tra imprenditori “buoni”, che sono di manica larga, amano il rischio d’impresa e fanno investimenti, ed imprenditori “cattivi”, “dal braccino corto, che non amano il rischio d’impresa” e non fanno investimenti, come si sostiene nell’articolo? Un capitalista non è guidato dal solo movente del profitto? Se si, l’unica cosa che lo fa desistere dal fare investimenti produttivi è che non vede prospettive adeguate di guadagno in qualche settore merceologico e per questo orienta il suo capitale nella speculazione finanziaria o al massimo lo tesaurizza (ma allora non è più un imprenditore capitalista). Non si può ricorrere a moventi psicologici (tirchieria o meno) per spiegare l’origine di bassi o nulli investimenti, altrimenti si fa un passo indietro rispetto all’analisi marxiana. Sbaglio? Saluti.