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L’attacco alla Siria preoccupa “i mercatI”

Due giorni burrascosi sui mercati finanziari, iniziati con le dichiarazioni del ministro degli esteri statunitense – John Kerry, battuto da Bush junior nelle elezioni del 2004 – che dà per imminente l’attacco alla Siria.

Calo brusco dei valori azionari in tutto il mondo, come accade ogni volta che si alzano in volo aerei da bombardamento con obiettivo un paese mediorientale. Le ricadute sul prezzo del petrolio sono in questi casi sostanzialmente imprevedibili nelle dimensioni, ma assolutamente certe nella direzione: il prezzo aumenterà. Per qualche giorno, o settimana o addirittura pe mesi. Ma aumenterà. E questo è un problema serio per l’agognata “crescita” economica, specie ora che il costo dell’energia conta molto di più di quello del lavoro umano.

Un caso a sé è rappresentato dall’Italia, che segue l’identica dinamica dei mercati globali, ma con una forte accentuazione (sia in negativo, come in questo caso, che in positivo quando le cose “vanno bene”).

L’aggravante è rappresentata dall'”incertezza politica”, ovvero la continuità o meno del governo in carica. Ma qui le interpretazioni degli osservatori “imprenditoriali” e quelle nostre divergono radicalmente.

Pubblichiamo qui di seguito un articolo della solitamente ottima Isabella Bufacchi, fine analista de IlSole24Ore, che “incolpa” la classe politica italiana della diffidenza particolare che i titoli finanziari italici suscitano nei “mercati”. L’interpretazione è molto semplificata, e quindi sbagliata: “i mercati non capiscono la politica di casa nostra”.

C’è una parte di vero. In effetti, negli altri paesi europei, la lettura delle mosse dei singoli partiti politici – portatori di interessi sociali organizzati – è molto più chiara e prevedibile. Ma se non si identifica la ragione “strutturale” di questa differenza, che traspare evidente quando dalla struttura produttiva si scende al livello della rappresentanza partitica, non si comprende il dna dell'”anomalia italiana”.

Solo qui esiste un “blocco sociale” – borghese, piccolo e medio borghese, legale ed illegale insieme, accomunato dall’evasione ed elusione fiscale, dal non riconoscimento dello “Stato” come piattaforma comune della classe dominante stessa – che non ha eguali altrove. Solo qui, vogliamo dire, esiste un “capitalismo senza capitali propri”, un modo imprenditoriale che non rischia mai di suo, ma anzi spesso “depreda” la propria stessa azienda per favorire la tesaurizzazione “familiare” dei proprietari. Bastano gli esempi dei Riva dell’Ilva e dei Ligresti di Premafin per avere un’immagine chiata di quanto andiamo dicendo.

Altrove non c’è un “capitalismo migliore”, ma semplicemente un “capitalismo più evoluto”, dove la “gestione familiare” è relegata al massimo alla piccola ristorazione o alla bottega artigiana. Non certo ai piani alti ella finanza o dell’industria nazionali.

E’ questa l'”inaffidabilità italiana” che sconcerta “i mercati”, il Mule che non si sa come affrontare. E che serve da pretesto per continuare a tenere il piede sul tubo dell’ossigeno di un paese già a pezzi.

La domanda che sorge è dunque: quali interesssi internazionali o globali hanno tenuto in vita per venti anni un sistema politico-governativo-imprenditoriale apertamente mirante alla demolizione della struttura produttiva, finanziaria e costituzionale di questo paese? Perché si è tollerato – in ambito europeo – che un jokerman dagli oscuri trascorsi imprenditoriali potesse avere libero accesso ai consessi internazionali?

C’era ovviamente molto da guadagnare, come da ogni asta fallimentare.

Ora la “diffidenza” residua funziona in modo quasi opposto: “se non fate chiarezza nella strutttura di comando che dovrà eseguire le nostre indicazioni non potremo fidarci davvero di voi”. Il Detenuto, insomma, ha ancora un ruolo, in fondo minimale: fare lo spauracchio per eliminare da ogni “maggioranza di governo” gli interessi non perfettamente allineati con le indicazioni della Troika.

Che la classe politica nazionale non sia in grado di emenrdarsi da sola, insomma, l’hanno capito anche sulla Luna. Non il contrario.

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L’oscurità politica batte ogni trader

Isabella Bufacchi

La politica mette a disagio i mercati finanziari. Sempre e comunque. È una variabile fondamentale ma incompresa. E la politica italiana, che influisce su 1.727 miliardi di titoli di Stato in circolazione, è capace di mandare in tilt i trader non solo oltralpe, su scala internazionale, ma anche in casa.

Così i BTp hanno vissuto ieri una giornata molto “domestica”, con Londra chiusa per il Summer bank holiday, e molto tesa per lo scontro Pd-Pdl alla vigilia delle aste di fine mese. Il linguaggio della politica, ora populista ora ammiccante tra slogan, promesse e minacce, è meno comprensibile di quello criptico dei banchieri centrali. Gli accordi sottobanco della politica sono più sfuggenti dell’insider trading. L’imprevedibilità del quadro politico è disarmante per i traders che studiano la copiosa produzione di sondaggi e opinion polls con lo stesso rigore con il quale confrontano le statistiche economiche, dall’indice PMI manifatturiero al clima di fiducia delle imprese, dall’andamento dell’occupazione all’inflazione.
Quando poi la politica entra in crisi profonda, come nel caso dell’impasse politico che tiene banco in Italia dal 2011, per i mercati questo tipo di incognita si amplifica enormemente: Governi appesi a un filo, campagne elettorali che non finiscono mai, elezioni ripetute e dagli esiti incerti. Di rimedi per mettere fine alle crisi economiche, anche le più acute, ve ne sono in abbondanza. Ma non esiste quantitative easing che possa arginare gli effetti di una crisi della politica: le banche centrali sono solo in grado di comprare tempo quando i politici sono in affanno.
Così i BTp ieri, con scambi già rarefatti per la chiusura del mese di agosto e una predominanza di “mani” italiane, hanno accusato negativamente le ripercussioni di un fine settimana segnato dallo scontro aspro tra Pd e Pdl. Anche perchè il calendario è fitto di aste: oggi i CTz e i BTp€i, domani i BoT e giovedì i BTp a cinque e dieci anni.
Il Tesoro si trova a buon punto con il programma di raccolta 2013 e gli addetti ai lavori prevedono che i quantitativi in asta verranno limati da qui a fine anno, rispetto alla media degli anni scorsi e dei primi otto mesi del 2013. Nell’agosto del 2012 il Tesoro collocò un nuovo BTp decennale per 4 miliardi pagando un tasso molto alto, il 5,82%, in attesa dei dettagli delle OMTs (programma Bce di acquisto di titoli di Stato per i Paesi che chiedono aiuto esterno all’Esm): ieri il Tesoro ha annunciato l’emissione dei BTp decennali con una forchetta tra 1,75 e 2,5 miliardi.
Le aste di questo fine agosto, stando ai livelli del mercato secondario ieri, dovrebbero registrare rendimenti in linea con i tassi di assegnazione delle emissioni di luglio o lievemente al rialzo. Sul secondario il sei mesi rendeva ieri lo 0,876% (contro lo 0,799% dell’asta precedente) il due anni l’1,87% ( contro l’1,85% di fine luglio), i BTp a cinque e dieci anni rispettivamente il 3,25% e il 4,38 per cento. Nulla di cui giovarsi, però, per i conti pubblici e per la spesa per interessi sul debito: durante agosto i rendimenti dei BTp erano calati leggermente sulle conferme della fine della recessione e sull’ipotesi di un Berlusconi alle corde, un Pdl e un Pd spaccati che allontanavano il rischio-elezioni; i toni nuovamente accesi dello scontro tra Pdl e Pd (con il partito di Silvio Berlusconi che si dichiara pronto a far cadere il Gov erno Letta) hanno riacceso i timori di un ritorno allo stallo della politica.
Il disagio dei mercati finanziari non potrà che crescere in prospettiva se i BTp traders, italiani ed esteri, saranno costretti a valutare le ripercussioni di una oscura riforma o non riforma della legge elettorale, i tempi e le procedure sulla decadenza da senatore di Berlusconi, le opzioni aperte al Quirinale, le lotte intestine nel Pd sulla scelta del leader del partito e del candidato premier…

da IlSole24Ore

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