I poteri forti, le banche e le multinazionali europee stanno alzando il tiro della loro artiglieria. Oggi è il giornale della Confindustria – il Sole 24 Ore – ad aprire il fuoco ad alzo zero verso “la polemica populista” contro la moneta unica.
In prima e seconda pagina, Davide Colombo, si dilunga per spiegare “Perchè sarebbe un disastro uscire dall’euro”. A suo avviso, la tesi sui vantaggi di una fuoriuscita dall’Eurozona sarebbero solo “Colpi bassi, sostenuti anche da economisti isolati, fautori della tesi della “liberazione” dell’economia dalle catene di una moneta giudicata troppo forte per i paesi della periferia mediterranea e, quindi, per l’Italia”. Contro questa tesi, secondo Colombo, ci sarebbe l’autorevolezza della “maggioranza assoluta degli economisti e dei banchieri centrali”. Una dislocazione di forze, che già a naso farebbe dire che se costoro affermano che occorre rimanere nell’area euro… forse la soluzione migliore è l’esatto contrario.
Ma l’analisi non si affida solo al fiuto, ha bisogno di dati oggettivi e verificabili. E il primo di questi è sicuramente il dato di fatto che dodici anni di moneta unica hanno provocato più effetti negativi che positivi sul piano dello sviluppo economico e sociale del nostro e degli altri paesi euromediterranei. Non è servita a ridurre il debito pubblico, anzi è aumentato sistematicamente e vigorosamente, ma è sicuramente servito a ridurre il potere d’acquisto di salari e pensioni e ad acutizzare la deindustrializzazione nei paesi Pigs.
Secondo Colombo, i sostenitori dell’uscita dall’euro ripropongono “il vecchio arnese della svalutazione del tasso di cambio come magico strumento per rilanciare l’export e la crescita del Pil”. In realtà quelli che abbiamo visto e sentito noi non sembrano riporre particolare enfasi alla svalutazione della moneta come toccasana. Contestano sicuramente – e giustamente – il fatto che la valutazione dell’euro sia stata fatta a misura del deutsche mark e non con una media ponderate delle monete dei vari stati che hanno aderito dell’Eurozona. E anche questo è un dato difficilmente contestabile. Infine, anche i sostenitori che fuori dall’euro non ci sia l’abisso, sono consapevoli che l’uso della svalutazione competitiva non abbia oggi – con economie, forniture e scambi fortemente internazionalizzati – la stessa capacità taumaturgica del passato.
A sostegno della propria tesi, il commentatore del Sole 24 Ore, porta i dati del Centro Studi Confindustria (sic!), ma forse ignora il “sentiment” prevalente proprio tra i piccoli e medi imprenditori tra i quali sta crescendo la consapevolezza che l’euro si sia rivelato un boomerang piuttosto che un’opportunità. E detto da quelli che “fanno impresa” appare difficile liquidarlo come suggestione e non come un dato di fatto. La strumentale agitazione della Lega contro l’euro si fonda proprio su questo humus sociale.
Ma è il quarto punto del documento del Centro Studi Confindustria riportato da Davide Colombo che merita una decostruzione più dettagliata. Vediamolo:
“Quarto: se tutti svalutano nessuno ci guadagna. Il caso citato è quello dell’Argentina del 2002 che ebbe successo abbandonando la parità fissa con il dollaro perchè i paesi vicini che importavano i suoi beni (Brasile e Messico) lasciarono immutati i tassi di cambio. Nel caso dei paesi deboli dell’eurozona la svalutazione sarebbe contemporanea e a guadagnarci di più sarebbero quelli con le maggiori quote di export destinate all’area euro, quindi l’Italia vedrebbe diluiti di molto gli eventuali vantaggi”.
C’è un ultimo argomento proposto dagli analisti del Centro studi di Confindustria: “per esportare di più (dopo aver svalutato) occorre poter contare su un’ampia base industriale capace di produrre beni commerciabili internazionalmente. E purtroppo quella base (che l’Italia ha) è stata fortemente indebolita dalla doppia recessione che ci ha colpito negli ultimi sei anni”.
Nelle argomentazioni del Centro Studi Confindustria qui riportato sulla base dell’articolo di Davide Colombo, ci sono due chicche: la prima è che la base industriale dell’Italia è stata indebolita dalla doppia recessione degli ultimi sei anni. E’ chiaro che su questo aspetto, qualche domandina alla Confindustria e agli imprenditori che hanno delocalizzato nelle zone a bassi salari andrebbe posta. Se l’euro ha facilitato gli scambi abbassando i costi delle transazioni sui cambi tra le monete e la circolazione delle merci, come mai l’unico fattore sul quale hanno agito è stato sistematicamente quello dell’abbassamento dei salari e del costo del lavoro attraverso la compressione delle retribuzioni e le delocalizzazioni?
Ma anche il riferimento alla svalutazione dell’Argentina contiene un boomerang per le tesi di Colombo e dei sostenitori dell’euro. Infatti sganciandosi dal dollaro e ripudiando il debito estero, l’Argentina – oggi di nuovo alle prese con una crisi – ha potuto però contare su dieci anni di ripresa economica anche e nonostante che gli altri paesi di sbocco avessero lasciato immutato il cambio con il peso argentino. Se anche il Brasile e il Messico avessero seguito l’Argentina, i benefici sarebbero stati addirittura reciproci. Non solo. Il fatto che un gruppo di paesi dell’America Latina (quelli dell’Alba) abbiano dato vita ad un’area di integrazione economica sganciata dal dollaro e che usa una moneta comune – una unità di cambio: il Sucre – per i loro scambi reciproci, sta portando a tassi di crescita – anzi di sviluppo – che li ha portati fuori dalla recessione in cui li avevano trascinati sia la dollarizzazione che i diktat del Fmi.
Paradossalmente è proprio la simultaneità e l’estensione dello sganciamento dalla moneta unica che può garantire un assorbimento e una reciprocità di vantaggio per i paesi che, in questo caso, si sottrarrebbero all’euro e al regime dei cambi fissi.
Ma la sostanza è un’altra e sfugge completamente alle argomentazioni di Davide Colombo, del giornale e del centro studi del padronato italiano:è l’ordine delle priorità. Se invece degli interessi delle banche e delle multinazionali si rovescia il tavolo e passano in primo piano quelli dei lavoratori, dei disoccupati, delle classi popolari e delle piccole imprese, il risultato cambia radicalmente.
Se i padroni e le banche continuano ad alimentare un sistema fondato sul capitalismo mercantilista e che si fonda solo sulle esportazioni e l’attrazione degli investimenti stranieri deprimendo sistematicamente il mercato e la domanda interna, i risultati non possono che essere quelli devastanti che stiamo verificando nei paesi Pigs dell’Europa.
Uscire dall’euro non è un atto taumaturgico ma solo un aspetto di una rottura radicale e complessiva con il sistema economico dominante – quello capitalista e quello del capitalismo mercantilista in particolare. L’uscita dall’euro è solo un aspetto necessario di un passaggio storico che prevede il non pagamento del debito pubblico alle banche, ai fondi di investimento e alle società finanziarie che ne possiedono ormai l’84%; la nazionalizzazione delle banche e delle industrie strategiche per lo sviluppo del sistema economico e industriale del paese; la costituzione di una nuova moneta comune – anche attraverso una unità di cambio come fu l’Ecu o come è oggi il Sucre – che sia il risultato di una media ponderata tra le possibilità economiche tra i paesi euromediterranei, inclusi quelli della sponda sud. E’ ovvio che questo non può essere una alternativa “nazionale” o nazionalista. Oggi per stare, sopravvivere, svilupparsi dentro una economia globale occorre integrare più paesi e dotarli di forme di cooperazione economica con un segno antagonista a quello capitalista. Dentro l’egemonia capitalista non c’è futuro ma al massimo sopravvivenza in condizioni sempre peggiori. La sfida dell’integrazione progressista non è un orizzonte riservato solo alle borghesie. Alcuni paesi lo hanno realizzato con successo ed anche questo è un dato di fatto. L’isteria e l’artiglieria pesante che i sostenitori dell’euro stanno mettendo in campo, conferma che la loro mancanza di immaginazione si sta trasformando in terrore verso le alternative alla loro egemonia.
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