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Bce. L’impasse degli “strumenti ordinari”

La politica monetaria non è mai stata sufficiente a superare una crisi di sistema. Però può rifletterla con grande esattezza, aiutando a comprendere le “strozzature” (nel linguaggio liberista) o le “contraddizioni” (nel nostro) che c ostringono tutto il sistema ecnomico a muoversi rispettando leggi scientifiche che gli economisti hanno scelto di ignorare.

Leggendo la stampa specializzata (a partire dall’ottimo Sole24Ore di Confindustria) si possono confrontare quasi a specchio le “preoccupazioni” degli analisti e i “suggerimenti” di quanti pensano che trovare la via d’uscita dalla crisi sia solo un problema di “fantasia innnovatrice”. Il risultato – che ne traiamo noi – è che non c’è una via d’uscita. O comunque non attraverso la politica monetaria.

Luigi Zingales, sul Sole di oggi, riesce a unificare nello stesso pezzo sia le “preoccupazioni” che i “suggerimenti”. Salvo arrivare a un punto dolente che è anche una manifestazione di impotenza: tutto dipende dalla capacità del governatore della Banca d’Italia di “far rispettare” gli interessi italiani in sede di Banca Centrale Europea quando – domani – si riunirà per valutare la situazione.

Il problema che agita i sonni dei “monetaristi” (quelli che appunto credono che tutte le soluzioni derivino da un’appropriata politica monetaria che “liberi” le forze “selvagge ma positive” del capitalismo) si chiama ora deflazione. In Europa è ormai evidente e fortissima, nonostante l’understatement mantenuto dal presidente della Bce Mario Draghi. Ma le mosse possibili da parte della massima autorità monetaria dell’Eurozona sono pochissime; e tutte con pesanti controindicazioni.

In sintesi, soltanto due: rendere negativi i tassi di interesse sulle cifre depositate dalle banche private presso la stessa Bce, oppure acquistare titoli e aumentare così la liquidità circolante.

La prima scelta è in realtà un specie di “tassa” sui capitali bancari immobilizzati e non utilizzati per prestiti. Colpirebbe in modo uguale banche in condizioni molto diverse che – di fronte alla scelta tra subire la tassa o fare prestiti considerati “rischiosi” – potrebbero tranquillamente tenersi i soldi in cassa. In pratica, insomma, non cambierebbero comportamento e, quindi, resterebbe aperto il problema della “trasmissione” della politica monetaria espansiva a un’economia reale in contrazione (al di là delle chiachiere, la “ripresa” di cui si legge sui giornali è un semplice stop alla caduta continua del Pil).

La seconda – cui ormai si è arreso anche Jens Weidmann, il “falco” rigorista presidente della Bundesbank – dipende dal tipo di titoli che la Bce sarebbe autorizzata ad acquistare. Quelli pubblici no, secondo Bundesbank, perché sarebbe un “aiuto agli stati”. Restano soltanto quelli “privati”, i cosiddetti corporate bond, che ovviamente dovrebbero essere di buona qualità. E qui casca l’asino italiano: le “nostre imprese” non amano molto questo tipo di strumento (qualcosa hanno emesso, negli anni, soltanto Eni, Enel, Fiat e poche altre di livello simile), anche perché abituate ad avere liquidità tramite le banche. Quindi l’”aiuto ai privati” che la Bce potrebbe dare acquistando i loro titoli di fatto non aiuterebbe affatto la capacità operativa delle imprese italiche.

Fin qui Zingales, costretto perciò ad appellarsi alla capacità di Visco di “battere i pugni sul tavolo” per ottenere che la Bce acquisti invece titoli di stato (ulteriore abbassamemto dello spread e quindi del peso degli interessi sulla spesa pubblica italiana).

Ma proprio qui si annida il problema “monetario”. Se tutta l’Europa è in deflazione, i paesi che debbono tagliare il debito pubblico per rispettare il fiscal compact non hanno margine per recuperare il gap con i paesi più solidi (Germania e pochissimi altri), perché la “crescita del Pil” resta abbondantemente al di sotto di quel 3% che basterebbe appena a restare al livello attuale. Il gatto si morde la coda: il “rigore” richiesto per ridurre il debito pubblico svaluta lavoro e produzione al punto da retroagire sui tassi di attività del sistema. Se non c’è prospettiva di guadagno, le imprese non investono; se i prezzi sono attesi in calo, i consumatori non acquistano; se il lavoro manca, la gente emigra; tutto ciò riduce drasticamente il Pil e quindi ogni riduzione del debito pubblico, per quanto grande sia, non cambia affatto – o addirittura peggiora – il rapporto debito/Pil che si vorrebbe ridurre.

Né esiste una “soluzione keynesiana”. Non solo per motivi ideologici (il pensiero dominante è neoliberista, ergo l’unico “keynesismo” ammesso è a favore delle grandi banche, come si è visto tra il 200 e il 2010). Lo “Stato” che dovrebbe elaborarla ancora non c’è; e la competitività tra gli Stati continentali è pesantemente squilibrata a favore di chi sta meglio (la Germania, sostanzialmente), anche se in prospettiva non benissimo.

Tutte le strade per una “soluzione indolore”, insomma, risultano bloccate. È così che si alimenta la “tendenza alla guerra”. La quale, è bene ricordare, non discende dalle ideologie “guerrafondaie” ma dall’impossibilità di risolvere con mezzi ordinari – come la politica monetaria – problemi straordinari (come la crisi sistemica).

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