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Fmi. “L’Italia indietro per innovazione, non per il costo del lavoro”

Se c’è arrivato perfino il Fondo monetario internazionale, vuol dire proprio che quella stronzata non sta più in piedi da nessun punto di vista. Il costo del lavoro “conta sempre meno”, il problema di questo paese e della sua economia sono l’assenza di investimenti, soprattutto in innovazione di prodotto e di processo.

Più chiaro di così è difficile dirlo. La “colpa” del’arretratezza italiaca è insomma degli imprenditori, che investono poco o nulla, scappano dai “rischi” della produzione e preferiscono gli affari finanziari e immobiliari. I lavoratori, invece, costano già  così poco che non li si può spremere di più (crollerebbe il mercato interno).

Non che il Fmi sia diventato “socialista” o “keynesiano”. Continua a raccomandare, infatti, “riforme strutturali”. Ma comincia ad emergere il dubbio – negli organismi sovranazionali –  che sotto questo termine vago siano possibili ritocchi “strutturali” meno ossessivamente protesi contro il lavoro. Stanno insomma a metà del guado: non possono andare avanti come prima, ma non sanno ancora da che parte andare.

E cosa sta facendo il governo del Pd? Un jobs act per precarizzare al massimo il lavoro dipendente, un taglio agli ammortizzatori sociali, una serie di misure per eliminare ogni tutela, ecc. L’esatto contrario di quello che – capitalisticamente parlando – sarebbe logico fare.

Se non ci credete, vi alleghiamo qui la notizia, così come riportata dall’agenzia ultra-istituzionale Ansa.

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Il costo del lavoro è “sempre meno importante” per la competitività globale delle imprese italiane. E’ quanto sostiene un paper del Fondo monetario internazionale, secondo cui per dare competitività alle aziende servono sempre più gli sforzi e le riforme strutturali per “innovare ed espandere” le dimensioni d’impresa.

Lo studio, dell’economista Fmi Andrew Tiffin, punta a “delineare alcune implicazioni per l’agenda di riforme strutturali” delle autorità italiane”. Il ‘paper’ parte da una valutazione di base: c’è un “gap di competitività” dell’Italia contro i principali competitor europei che hanno introdotto misure strutturali. Ma “il settore commerciale italiano continua a collocarsi fra i leader mondiali, a differenza di altri Paesi europei”.

A fronte del peso importante delle industrie tradizionali sull’export italiano – tessile, mobili, cibo – e della scarsa presenza di industrie nel comparto scientifico, come il farmaceutico o l’elettronica d’avanguardia, l’Italia ha “una quota importante che deriva dai fornitori specializzati”, imprese più piccole che progettano, sviluppano e producono strumenti fatti su misura per particolari processi o esigenze produttive. Sono queste che hanno assicurato la tenuta dell’export grazie a “inventiva e agilità”, spesso organizzate intorno a una rete flessibile di pmi o distretti industriali. La quota dell’export globale dell’Italia, “aggiustata” in base ai modelli più recenti del Fmi, “anche se deludente, non è critica come potrebbe apparire a prima vista”.

Tuttavia “anche sui settori più innovativi e flessibili pesano gli impedimenti strutturali che hanno depresso la produttività italiana in senso più ampio”. Secondo il paper Fmi, le imprese, spesso Pmi, che producono beni strumentali avanzati “potrebbero non essere più la fonte di forza che erano in passato”, per rigidità, burocrazia ma anche per le loro ridotte dimensioni di fronte alla “natura mutevole della produzione globale, dove le imprese di maggiori dimensioni hanno più successo nell’imporre un brand globale, nel finanziarsi e nell’integrare un ciclo degli approvvigionamenti globale.

Servono riforme strutturali “per rimuovere le barriere alla crescita delle imprese e incoraggiare investimenti diretti dall’estero” che favorirebbero anche un maggiore sviluppo delle imprese all’avanguardia nel comparto scientifico.

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