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Troppo poco e troppo tardi. La Bce si converte al “quantitative easing”

La notizia c’è, anche se era attesa. La Bce ha deciso che il pericolo della deflazione esiste e quindi va combattutto. L’unico modo che si conosca sono le “iniezioni di liquidità”, perché i manuali di macroeconomia riconoscono soltanto il “pericolo dell’inflazione” e quindi non cntengono suggerimenti su come curare la malattia opposta.

Che malattia è? Quella per cui i prezzi di prodotti e beni diminuisce e quinfi tutto gli “attori economici” – banche, imprese e consumatori – si fermano. Le prime non prestano, le seconde non investono e i terzi nn comprano. Tutti per lo stesso motivo: se i prezzi sono in discesa ad ognuno conviene aspettare che scendano ancora, per non buttare soldi dalla finestra. Ma quel che è conveniente per i singoli diventa un disastro per il sistema nel suo complesso, perché l’economia ferma è “contronatura” per il modo di produzione capitalistico.

La Bce, ultima tra le grandi banche centrali del pianeta, è dunque arrivata al punto: bisogna far aumetare l’inflazione almeno un po’ (dallo 0,5% attuale fino al 2%), altrimenti addio sogni di ripresa. Come tutte le altre banche centrali, ha

– abbassato il tasso di interesse base, dall’ 0,25 allo 0,15%;

– garantito linee di credito per 40 miliardi alle banche, ma solo se a loro volta riprenderanno a erogare prestiti a imprese e famiglie, rimettendo quindi in moto l’economia reale;

– promesso che la Bce comincerà ad acquistare prodotti derivati Abs (asser backed securities), bloccati nelle casseforti bancarie perché tanto fetenti da non essere più vendibili sul mercato finanziario.

In più, e per la prima volta, ha portato a livello negativo (-0,10%) i tassi a breve sui fondi che banche depositano presso la Bce. Una misura indirizzata a “scoraggiare” la pratica, che si traduce in un “congelamento” di liquidità sotratta al mercato, cresciuta negli anni di crisi per la necessità delle banche di “tenere al sicuro” i propri fondi. Paradossale, vero? Ma non così strano, nel mondo capovolto della finanza globale.

Bene. Servirà tutto questo a “rilanciare l’economia” e “agganciare la ripresa”? Pissarides, premio Nobel 2010 per l’economia, ritiene di no, che si tratti di un’azione compiuta troppo debolmente e troppo tardi. E non ha per nulla torto. È chiaro infatti che l’azione sul tasso di interesse è praticamente inutile (lo 0,10% di differenza non è tale da cambiare le intenzioni di investimento di un’impresa o una banca); soprattutto, è anche l’ultima volta che si potrà utilizzarla, a meno di non voler vedere per la prima volta nella storia una banca centrale che “regala” soldi invece di prestarli.

I prestiti condizionati e la promessa di acquisto degli Abs sono certamente più “concreti”, ma agiscono come sempre solo dal lato dell’”offerta” di denaro; senza alcuna garanzia che questa prima o poi incontri la “domanda”. E gli economisti conoscono da sempre questa contraddizione, che hanno chiamato “la trappola della liquidità”, evocando l’immagine di un cavallo assetato davanti a pozza, ma comunque impossibilitato a bere.

È insomma il limite dela politica monetaria, che non può sostituirsi a quella economica se questa è assente o, chiamata con altro nome, quesa è improntata all’austerità dei vincoli di bilancio statale. I keynesiani risolvono il problema raccomandando agli stati di “spendere” comunque, senza badare al deficit, perché soltanto così i soldi finiscono davvero all’economia reale – famiglie e imprese – provocando un aumento della produzione e dei consumi (più gente al lavoro, salari più alti). Il contrario di quel che ha predicato e imposto fin qui l’Unione Europea. E non sembra affato che sia finita.

In sintesi: la Bce non può fare quello che l’Unione Europea non vuole fare. Al massimo può “facilitare” la circolazione del denaro, aumentandone la disponibilità (quantitative easing). Ma tutto ciò rischia di tradursi in un pestare l’acqua nel mortaio: non diventa farina.

In ogni caso, questa scelta della Bce certifica che per la crisi – dell’eurozona, almeno – si è ben lontani dall’intravedere una conclusione. Nonostante si stia per entrare ormai nell’ottavo anno consecutivo. Lo ha indirettamente ammesso lo stesso Draghi, ieri, dicendo a mezza bocca “e non ci fermeremo qui”. L’arma finale, non ancora imbracciata, è l’acquisto sul mercato secondario dei titoli di stato dei paesi in maggiore difficoltà. Ma per farlo bisognerà passare sul cadavere di Jens Weidmann e della Bundesbank.

Non è detto che ciò non avvenga (stanno per cambiare, dal 2015, le regole di voto all’interno della Bce; e Bundesbank conterà meno). Ma non è neppure detto che ciò basti.

 

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