Due articoli, su due giornali specializzati in economia, che affrontano aspetti diversi dell’identica crisi europea e che smontano pezzo pezzo tutta la retorica (e le “prescrizioni”) adottata dall’Unione Europea per farvi fronte.
Da un lato la megazione del luogo comune per la Germania sarebbe “più competitiva” a causa della sua maggiore “produttività”, un mix di elevato sviluppo tecnologico e bassi salari. È era soltanto la seconda cosa, grazie soprattutto alla “riforma Hartz” che ha condannato milioni di giovani a una vita precaria e miserella; ma ora – preoccupati per la propria stagnazione – i governanti tedeschi stanno preparando delle “controriforme”: salario minimo a 8,5 euro, riduzione dell’età pensionabile e calmieramento degli affitti. L’esatto contrario di quanto va predicando per il resto del continente. L’analisi e le notizie venGono da Daniel Gros, che è stato uno dei teorici di punta della “deflazione salariale”, costretto ora ad assistere allo smantellamento delle proprie creature. Senza neanche lamentarsene, visto il disastro che hanno prodotto (non sul “piano sociale”, di cui non gliene può fregare di meno, ma su quello della “competitività”, appunto).
Dall’altro, la constatazione che l’Europa in deflazione è oggi “la zavorra globale”, la superpotenza economica che con le proprie scelte suicide sta mettendo in difficoltà anche Stati Uniti e paesi emergenti. Senza peraltro risolvere alcuno dei problemi – vedi il debito pubblico dei Piigs – per cui era stata pensata “l’austerità”. La rivelazione, in questo caso, rivela quel che già sapevamo: ovvero che senza aumentare il Pil (che significa più investimenti, anche in deficit, se necessario), non c’è alcuna possibilità di ridurre il debito pubblico. Perché ogni taglio di spesa produce una più che proporzionale compressione del Pil, secondo una spirale dell’assurdo per cui tagliando la spesa (in cifra assoluta) si aumenta il debito (in percentuale).
C’è molto di più, ovviamente. A partire dall’ammissione per cui un “buon funzionamento” capitalistico del mercato del lavoro è quello in cui “L’elevato tasso di disoccupazione tra il 2000 e il 2008 ha costretto i lavoratori ad accettare salari più bassi e orari di lavoro più lunghi”. Peccato che tutto ciò funzioni anche al contrario, contraendo la domanda interna, facendo sopravvivere “produzioni desuete” solo grazie ai salari bassi, decuratnado le possibilità di maggiore produttività. Un modello mercantilista orientato alle esportazioni che però produce un rafforzamento abnorme della moneta unica, nonostante i tassi a zero (anzi, addirittura negativi per i depositi presso la Bce). Perché se hai una “bilancia dei pagamenti in attivo crescente” non c’è modo di convincere i capitali speculativi a cercarsi un’altra moneta in cui denominarsi.
Manca, naturalmente qualsiasi ragionamento più generale sulla natura della crisi, ma non si può pretendere che degli adepti quasi religiosi delle virtù del liberismo arrivino a concepire la “caduta tendenziale del saggio del profitto”. Ma nonostante questo se ne possono trarre informazioni e “relazioni concettuali” molto utili nella conduzione del conflitto politico-sociale. Certo, non servono a nulla se uno identifica la totalità del conflitto soltanto con le corse in piazza…
Sul piano politico, infine, la lezione da trarre è assolutamente semplice: è fuori bersaglio ogni mobilitazione che si concentri sull'”austerità” senza mirare al soggetto politico delle scelte continentali: ovvero l’Unione Europea (un’infratruttura politica costruita a colpi di trattati intergovernativi sottratti a qualsiasi vaglio “democratico”). Già ora, ma soprattutto nei prossimi mesi, tutti sono e saranno “contro l’austerità”. Lo è oggi Confindustria, Renzi, Napolitano e naturalemnte tutto il centrodestra. Manca all’appello solo la Merkel, che continua a predicarla per ora agli altri paesi mentre all’interno sta “controriformando”. Si aggiungerà presto anche lei e persino Schaeuble e Weidmann. La forza della crisi sposta le convinzioni ideologiche più radicate. Succederà anche nell'”ultrasinistra”? Ci stiamo lavorando. Oggi, in piazza, proviamo anche a farlo capire…
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Lezione tedesca sul costo lavoro
Daniel Gros
Negli ultimi dieci anni l’economia europea ha visto svariati rovesciamenti di fronte: la Germania, ad esempio, da malato d’Europa ne è diventato il modello. Ma lo è veramente? Le riforme di Schröder, e ancor più le “controriforme” di oggi, non vanno verso l’aumento della produttività, come invece sembrano fare le riforme intraprese – anche se imposte – da alcuni paesi della periferia.
Il modello tedesco:
le riforme e le controriforme
Nel 2003, la Germania aveva un deficit di bilancio pari a quasi il 4% del pil, una percentuale non elevata per gli standard odierni, ma che allora superava la media Ue. Oggi i conti pubblici tedeschi sono in pareggio, mentre la maggior parte degli altri paesi dell’eurozona registra disavanzi superiori a quello tedesco di dieci anni fa. La Germania ha risanato i propri conti principalmente tagliando le spese: la spesa pubblica – che nel 2003 era pari a quasi il 46% del Pil, e quindi superiore alla media dell’eurozona – è stata ridotta di cinque punti percentuali del pil nei successivi cinque anni. Nel 2008, quindi, mentre il mondo scivolava nella “grande recessione”, la Germania aveva un’incidenza della spesa sul Pil fra le più basse d’Europa.
Il governo tuttavia non poté fare molto per migliorare la bassa produttività tedesca, il grande problema della Germania dell’epoca. Anche se oggi ci può apparire strano, nei primi anni dopo l’adozione dell’euro la Germania era considerata un paese poco competitivo per effetto dell’elevato livello dei suoi costi salariali. E molti temevano che con la moneta unica il Paese avrebbe perso, insieme alla possibilità di manovrare i cambi, anche quella di risolvere il problema. Invece, come sappiamo, la Germania è tornata a essere competitiva al punto che oggi le si rimprovera di esserlo anche troppo, grazie a un mix tra moderazione salariale e riforme strutturali tese ad aumentare la produttività. Un’analisi più approfondita dei dati, tuttavia, evidenzia come questo risultato sia ascrivibile più alla prima misura (la moderazione salariale) che alla seconda. La moderazione salariale è stata dunque il fattore determinante: ma non è una misura che può essere imposta dal governo ed è stata piuttosto il risultato del buon funzionamento del mercato del lavoro tedesco. L’elevato tasso di disoccupazione tra il 2000 e il 2008 ha costretto i lavoratori ad accettare salari più bassi e orari di lavoro più lunghi, mentre nei paesi alla periferia dell’area i salari crescevano al ritmo del 2-3% annuo. È questo quindi il fattore che fino al 2008 ha spinto al ribasso il costo del lavoro per unità di prodotto tedesco rispetto a quelli del resto dell’eurozona.
Per quanto riguarda la produttività, è vero che diverse importanti riforme del mercato del lavoro sono state effettivamente varate dieci anni fa, ma il loro impatto sulla produttività sembra essere stato trascurabile. Tutti i dati disponibili indicano una crescita del tasso di produttività molto bassa per l’economia tedesca negli ultimi dieci anni. Ciò non sorprende se si considera che le riforme non hanno minimamente interessato il settore dei servizi, generalmente considerato troppo regolamentato e protetto. I tassi di produttività sono cresciuti di più nel settore manifatturiero, in ragione della sua esposizione all’intensa concorrenza internazionale. Eppure, anche in Germania il settore dei servizi è pari al doppio di quello manifatturiero.
Vediamo ora quali sono le tre proposte economiche su cui si incardina il programma del nuovo governo tedesco, la Grosse Koalition: salario minimo, riduzione dell’età pensionabile e controllo degli affitti. Tutti e tre gli elementi di controriforma tedeschi hanno un impatto economico molto significativo.
Salario minimo. È prevista un’ampia copertura (si prevede di escludere solo i giovani e i disoccupati di lunga durata) e livelli elevati (si parla di 8,5 euro all’ora). La ricerca empirica sugli effetti dei salari minimi (basata principalmente sull’esperienza degli Stati Uniti) indica che tale misura non ha in genere un effetto importante sull’occupazione.
Riduzione dell’età pensionabile. Un’importante riforma del governo socialdemocratico di Schröder aveva collegato l’età pensionabile a variabili demografiche oggettive, producendo un aumento graduale della normale età di pensionamento fino a 67 anni (con generose eccezioni per le occupazioni fisicamente più impegnative). Oggi è in atto una parziale retromarcia che consente ad alcuni lavoratori, entrati nel mercato del lavoro in età molto giovane, di ritirarsi con una pensione piena a 63 anni.
Calmieramento degli affitti. Il basso livello dei tassi di interesse ha avuto come risultato una ripresa della crescita dei prezzi delle case, dopo decenni di stagnazione. L’andamento dei prezzi immobiliari ha un impatto sui canoni di locazione, che sono quindi aumentati. In Germania, a differenza di quanto avviene nella maggior parte degli altri paesi Ue, la stragrande maggioranza delle famiglie vive in affitto: quindi, anche se l’aumento degli affitti è stato modesto e concentrato nelle zone più ricercate, il suo effetto è stato di creare una domanda di calmieramento che avrà ovviamente un effetto distorsivo sul mercato nel lungo periodo. Nel breve periodo, i controlli sugli affitti potranno incentivare il settore edilizio, dato che essi non si applicano alle abitazioni di nuova costruzione. Nel lungo periodo, produrranno un aumento della percentuale di proprietari di case, in linea con quanto accade nell’Europa meridionale, dove decenni di politiche di calmieramento degli affitti (fino agli anni Novanta) hanno prodotto tassi molto elevati di case abitate dai proprietari.
Uscire dalla crisi più competitivi.
La conclusione generale è che alcuni elementi del “modello tedesco” potrebbero essere proficuamente adottati dalle travagliate economie periferiche dell’area dell’euro. Un duraturo risanamento dei conti pubblici impone il contenimento della spesa, e le riforme del mercato del lavoro possono, nel tempo, consentire l’ingresso di nuovi occupati nel mondo del lavoro. Tuttavia, la sfida più importante per paesi come l’Italia o la Spagna resta la competitività. La periferia dell’Europa può tornare a crescere solo se riesce a esportare di più. L’elevato livello dei tassi di disoccupazione sta già imponendo un calo dei salari, ma questa è la via di uscita dalla crisi più dolorosa e genera un’aspra opposizione. Meglio sarebbe riuscire a ridurre il costo del lavoro aumentando la produttività: e da questo punto di vista, purtroppo, la Germania non costituisce un modello.
L’autore è direttore del Centre for European Policy Studies, a Bruxelles
da IlSole24Ore
da MilanoFinanza, “Europa zavorra globale”, di
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