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L’Unione Europea perde la bussola e i fondatori

Tempo di bilanci, o quantomeno di riassunti ragionati. Il passaggio di anno consente di tracciare righe e ricordare quel che si è sottovalutato nel flusso degli avvenimenti in apparenza tutti della stessa importanza. Se poi questo crinale coincide con la scomparsa contemporanea dei due uomini che hanno dato all’Unione Europea la forma attuale, allora la necessità di disegnare un quadro diventa irresistibile.

Il riassunto fatto da Guido Salerno Aletta su TeleBorsa è assolutamente magistrale, quasi una lezione divulgativa sulla profondissima differenza tra le intenzioni (o le dichiarazioni di intenti) e la realtà effettiva, fuori da ogni abbellimento propagandistico.

E’ una lezione che dovrebbero studiare tutti coloro che, sentendosi “di sinistra”, hanno a lungo confuso il dominio sovranazionale del capitale finanziario con una anticipazione quasi benigna dell'”internazionalismo proletario”. Un po’ come confondere la “globalizzazione” con l’era dell’imperialismo “buono”.

Quelli che, insomma, hanno abboccato senza riflettere alla propaganda che divideva il campo delle opinioni politiche in “europeisti” versus “sovranisti”, quasi che la sovranità – il potere di decidere cosa fare in un determinato territorio – fosse scomparsa con il nuovo millennio o, appunto, la globalizzazione.

E dire che Marx ha speso una vita a spiegare che dietro le parole più suadenti si nasconde sempre uno scontro fra interessi e dunque fra classi sociali… E che, perciò, non ci si ha mai a che fare con “sistemi astratti” riassunti in concetti fashion (il sovranismo, l’europeismo, la democrazia, ecc), ma sempre con qualcuno che sfrutta regole e rapporti di forza per massimizzare il proprio potere misurandolo in profitti.

La costruzione dell’Unione Europea ha avuto bisogno di una overdose di propaganda “buonista” perché ha mosso i passi decisivi nel momento in cui (anni ’80) il movimento operaio in Europa aveva ancora una sua forza rilevante, benché già declinante.

Ha avuto insomma bisogno di essere presentata come un “compromesso storico” tra conservatorismo liberal-cristiano e socialdemocrazia, a partire da un “modello sociale europeo” strappato a forza di lotte epocali e ad un prezzo sanguinoso.

Bisognava il più possibile nascondere il fatto brutale che la UE veniva disegnata come un mercato e stabilendo le regole neoliberiste (Reagan e Thatcher avevano già stravinto la lotta ideologica), che imponevano libertà totale per le imprese, basso o nullo potere negoziale per i lavoratori (il “consociativismo” regalava alle burocrazie sindacali una parvenza di ruolo politico in cambio della subordinazione salariale e normativa), divieto assoluto di intervento nell’economia per gli Stati.

Anche un deficiente avrebbe capito – senza il velo della propaganda – che quella costruzione era un colpo definitivo alle aspirazioni del mondo del lavoro, parallelo fra l’altro alla caduta dell’immaginario socialista sempre più flebilmente incarnato dall’ultima Unione Sovietica.

L’ipotesi affermata era quella di un mercato che avrebbe ridotto le disparità tra economie nazionali e classi sociali. La realtà effettiva, specie oggi, dimostra che quella costruzione ha favorito l’aumento esponenziale delle disparità tra paesi e classi sociali.

I forti e ricchi sono diventati più ricchi, i più deboli sono oggi  debolissimi e totalmente dipendenti. E questa realtà non c’è propaganda che riesca più a nasconderla.

Peggio ancora. La “crescita” economica di tutto il Vecchio Continente è di fatto bloccata da decenni proprio “grazie” a regole inventate per favorire i creditori (il capitale finanziario) e senza alcun r apporto con il funzionamento reale della stessa economia capitalistica.

Ma la qualità infima dell’attuale classe politica continentale – selezionata in base ai criteri dominanti nella UE – rende praticamente impossibile sia mantenere salda questa costruzione, sia “correggerla” in modi efficaci.

Condannata perciò a camminare sul posto, oscillando tra sospensione delle regole nei momenti di crisi acuta e loro incrudimento quando il peggio sembra passato.

Tempesta perfetta, con la guerra alle porte…

Buona lettura.

*****

Da Delors a Schäuble, Utopia europea e Distopia

Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa

Quando ci lasciano gli uomini che sono stati protagonisti delle rispettive epoche, da una parte Jacques Delors che fu Presidente della Commissione europea per ben tre mandati, dal 1985 al 1995.

Delors fu un vero visionario, che non solo sognò, ma seppe realizzare sotto la propria guida un’Europa politica e non solo economica, passando dal Mercato Comune al Mercato Unico; unificando i precedenti Trattati, Ceca, Cee ed Euratom in un Atto unico europeo; procedendo all’abbattimento delle frontiere ed alla libera circolazione delle persone con gli accordi di Schengen; e soprattutto dando vita al Trattato di Maastricht, che istituì l’Unione europea con regole che andavano molto al di là del divieto di concorrenza sleale tra le economie dei Paesi aderenti, imponendo il divieto di dazi e tariffe ovvero di distorsivi aiuti di Stato alle imprese nazionali.

Il passaggio fondamentale fu la definizione delle regole dell’Europa monetaria, che poggia su tre pilastri:

  • la creazione del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC) che ha al suo vertice la Bce, con il divieto di finanziare gli Stati in ogni forma, anche mediante anticipazioni di tesoreria
  • la fissazione di regole di convergenza tra i bilanci pubblici, con il divieto di superare il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil e quello del 60% nel rapporto debito/Pil
  • la previsione della istituzione della Moneta unica europea, l’euro, che fu decisa nell’anno 2000 ed entrò in circolazione l’anno successivo.


Questa Architettura avrebbe dovuto assicurare ai cittadini europei condizioni di uguaglianza, di libertà politica ed economica, in un contesto di regole inderogabili che avrebbero assicurato la convergenza tra situazioni di partenza assai diverse attraverso gli strumenti perequativi del bilancio europeo. Avendo assunto che l’IVA ed i dazi alle frontiere esterne, gli unici ammissibili, fossero Risorse Proprie dell’Unione, era possibile procedere ad aggiustamenti nelle risorse fiscali nazionali, visto che gli Stati più prosperi sarebbero divenuti “contributori netti” al bilancio europeo mentre altri sarebbero stati “beneficiari netti” di trasferimenti mirati alla crescita, soprattutto attraverso il Fondo Sociale Europeo ed il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale.

Pur senza culminare nella ambizione di trasformare l’Unione europea in uno Stato federale, si riteneva di aver creato i presupposti concreti per la creazione di un’area di cooperazione molto coesa ed efficiente.

Se questo era il Sogno, concretizzato in una disciplina normativa estremamente precisa ed articolata, la Realtà fu assai diversa, in un processo economico e finanziario estremamente complesso e tumultuoso che si snoda in tre fasi: la prima va dal 1992 al 2001; la seconda dal 2001, anno in cui iniziò a circolare l’euro, al 2010 anno segnato dalle profonde tensioni nella periferia dell’Eurozona, innescata dalle crisi di Irlanda e Grecia, seguite da quelle del Portogallo e dell’Italia.

Una catastrofe economica, finanziaria e sociale si era abbattuta sull’Unione europea, a valle della Grande Crisi Finanziaria Americana del 2008: gli squilibri strutturali, commerciali e finanziari si erano moltiplicati. I saldi commerciali tra gli Stati europei non tendevano al pareggio ma a divaricarsi, con alcuni Paesi che vendevano sempre di più ad altri che si dovevano indebitare per farlo, e con le banche dei “Paesi venditori”, principalmente la Germania, che incassava lauti interessi indebitando le economie dei “Paesi compratori”. La delocalizzazione produttiva verso i Paesi dell’Est aveva particolarmente indebolito i Paesi come l’Italia, a favore dei nuovi entranti che venivano finanziati dall’Unione europea per industrializzarsi: come contributore netto, l’Italia finanziava la distruzione del suo apparato produttivo.

Mentre erano state messe pesanti “catene” agli Stati, per evitare che si indebitassero, i capitali erano stati lasciati liberi senza controllo: colmavano con prestiti di ogni genere gli squilibri commerciali e finanziari, accrescendo senza sosta l’ammontare dei debiti e degli interessi da pagare. Fino allo scoppio della crisi: il sistema era insostenibile, tra arricchimenti finanziari enormi da una parte ed impoverimenti finanziari insostenibili dall’altra.

Il Sogno di Jacques Delors si era trasformato in un Incubo.

Alla crisi profondissima del biennio 2010-2011, si pose rimedio con una stretta feroce: invece di imporre il riequilibrio nei rapporti commerciali e finanziari tra gli Stati, una regola che avrebbe chiuso la strada all’arricchimento continuo di cui aveva beneficiato la Germania attraverso l’euro che non consentiva più svalutazioni di aggiustamento, fu il Ministro delle Finanze dell’epoca, Wolfang Schäuble, a contribuire in modo determinante alla definizione delle nuove regole di rigore assoluto da imporre agli Stati, con il pareggio strutturale dei bilanci imposto modificando le Costituzioni degli Stati e verificato dalla Commissione europea attraverso il Fiscal Compact, un Trattato parallelo a quello europeo, che imponeva la riduzione di un ventesimo l’anno dell’eccedenza di debito rispetto all’obiettivo del 60%.

Nelle riunioni dell’Ecofin, Schäuble fu inflessibile con i debitori, in primo luogo con la Grecia: la Germania, che aveva già perduto molti capitali investendo in titoli americani travolti dalla crisi del 2008, non si sarebbe certo fatta beffare dai creditori europei. Avrebbero dovuto pagare tutto, fino all’ultimo euro, i loro debiti: gli strumenti di sostegno, dall’EFSM con la Troika composta dalla Commissione Europea, dalla Bce e dal Fmi, fino al MES, erano condizionati alla adozione di profonde riforme ma soprattutto alla cessione di ogni tipo di asset in mano agli Stati, dai porti alle ferrovie, alle autostrade.

L’austerità sfrenata fu imposta all’intero Continente, determinando l’abbattimento dei ritmi di crescita e profonde ristrutturazioni fiscali e sociali: con le misure di austerità imposte in Italia dal governo Monti nel 2012, non solo cademmo in una recessione ancora più profonda da quella determinata dalla crisi americana del 2008, ma fu distrutta strutturalmente la domanda interna ed imposta la deflazione salariale per favorire le esportazioni. Un riequilibrio pagato a prezzo durissimo.

Per oltre un decennio, l’intera Europa si è impoverita sull’altare del rigore fiscale, dotata com’è di una moneta unica, l’euro, che non consente aggiustamenti valutari mentre i mercati continuano a lucrare sugli squilibri commerciali e finanziari fino al collasso.

Questa è la distopia cui ci ha condotto la visione del rigore ad ogni costo incarnata da Schäuble.

La politica accomodante della Bce, con i Qe, ha cercato di evitare la deflazione dei prezzi, che avrebbe avvitato i debiti nell’insolvenza collettiva. La manica fiscale extra-larga durante il biennio pandemico 2020-2021 ha creato una ulteriore bolla di debiti pubblici: un altro delirio, da cui sarà ancora più difficile uscire.

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita, appena varato, prevede una lunga fase transitoria, fino al 2028, prima di azzannare definitivamente il tema della riduzione dei debiti pubblici: ci sono le elezioni europee nel 2024, quelle francesi nel 2027 e quelle italiane nel 2028.

Nel frattempo in Europa si trattiene il fiato, sperando in bene: una nuova crisi, finanziaria, energetica o geopolitica per via della guerra in corso in Ucraina ed il conflitto in Palestina, sarebbe esiziale.

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1 Commento


  • Giovanni

    Come la zattera della “Medusa” di Gericault, i popoli europei annaspano nella soffocante stretta ecomica e sociale dettata dalla Bce e dal Fmi, di cui la bandita Lagarde e ‘ figlia ideologica.
    Purtroppo, almeno in Italia, non esiste neanche una parvenza decente di sinistra.

    A parvenza

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