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Gran Bretagna. Protezionismo “patriottico” sui videogiochi

Alla faccia del liberismo thatcheriano duro e puro… Il governo conservatore inglese ha deciso di stanziare una prima tranche di “defiscalizzazioni” per quei videogame che saranno prodotti in Gran Bretagna. Una cifra per ora non enorme (158 milioni di euro), ma che dà il segnale: non possiamo perdere la competizione con gli asiatici o gli americani in questo settore, che viene dunque compreso tra quelli “strategici”. Su cui, di conseguenza, praticare il protezionismo in antitesi all’ideologia del libero merato non è “peccato”.

Può sembrare sorprendente che i videogame siano considerati “strategici”, ma la seconda condizione posta per usufruire della defiscalizzazione è “l’ambientazione” del gioco sia in Inghilterra o quantomeno all’interno dell’Europa.

Una limitazione “culturale” – per meglio dire, “ideologica” – che invece ha un senso: attraverso i videogame si forma buona parte dell’immaginario di bambini e adolescenti. “Imprintare” questi giovani cervelli con saghe e ambienti coerenti col “luogo di residenza e comptizione economica” significa predisporre una baeriera mentale contro l’influenza di “culture aliene”. Ovviamente terrestri, ma provenienti dai competitors, quindi potenzialmente debilitanti il “patriottismo” dei giovani inglesi.

La “strategicità, dunque, sta nella necessità di mantenere un forte controllo ideologico sulle nuove generazioni. Probabilmente la mossa del governo inglese tiene conto di diversi fattori. Quelli economici, certamente, con softweare house asiatiche e statunitensi molto aggressive, in grado dunque di azzerare la produzione inglese per pura forza economica (lo sviluppo di un videogame di livello medio-alto può comportare orami investimenti da decine di milioni di euro, il che mette fuori gioco “i piccoli” di qualsiasi paese).

Ma deve aver pesato anche l’ottima qualità tecnica di molta “comunicazione integralista islamica” – specie nel settore video, con la propaganda dell’Isis che esercita una potente fascinazione sui giovani “non inglesi” delle periferie britanniche. E quindi provano a passare al contrattacco. O almeno ad alzare il livello delle difese “culturali”.

La logica riprende analoghe iniziative in difesa della cinematografia in paesi come Italia, Francia e Spagna (contributi al finanziamento di opere prodotte all’interno del paese). Ma questi altri esempi non contengono alcuna limitazione “ambientale” di tipo nazionalistico. La differenza dunque c’è, ed anche grande.

In questo campo, infine, il governo inglese non vuol concedere nessuno spazio a istituti di valutazione privati. A stabilire chi, tra i richiedenti, avrà diritto agli sgravi fiscali (fino a u massimo di un milione di sterline) sarà il British Film Institute (Bfi), sostenuto da fondi pubblici. Se l’obiettivo è il “patriottismo”, infatti, non è il caso di lasciare la gestione in mano a un “privato” che potrebbe benissimo vendere, prima o poi, “al nemico”.

 

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