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Visco: “troppa cattiva flessibilità, si va verso la disoccupazione di massa”

Immersi nel flusso di metadone mediatico incaricato di nascondere la situazione reale, bisogna per forza apprezzare quei pochi, solitari, momenti di chiarezza che filtrano da luoghi e persone anche inattesi.

E’ il caso del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che ha colto un’occasione “frivola” come la presentazione di un libro all’interno della Luiss per dire che l’Italia sta messa molto, ma molto, male. E ci sembra di poter dire che ha scelto di dirlo in un’occasione simile perché certo di parlare a chi di dovere (le imprese, cui la Luiss appartiene) e senza sollevare lo stesso allarme che avrebbe accompagnato un appuntamento istituzionale.

La tesi di Visco è semplice: la disoccupazione non potrà che aumentare, perché le imprese hanno evitato di investire in tecnologie innovative, avvantaggiate com’erano da governi che hanno puntato tutto – come le stesse imprese peraltro chiedevano – sulla “flessibilità del lavoro”. Anzi su quel particolare «modo in cui abbiamo reso flessibile il mondo del lavoro: per una piccola impresa che non aveva possibilità di fare investimenti è convenuto assumere con contratti part-time e precari giovani pagati poco per fare le stesse cose che facevano gli anziani».

Il risultato è che abbiamo aziende con linee produttive arretrate e che fanno, in media, prodotti non innovativi, quindi non competitivi, se non con le produzioni di bassa fascia di alcuni paesi emergenti che però possono vantare ancora un costo del lavoro più basso nonostante il differenziale si sia molto ridotto per il contemporaneo innalzzamento dei salari laggiù e la compressione/riduzione qui.

Il futuro si annuncia dunque plumbeo sia sul fronte della crescita del prodotto interno lordo che su quello dell’occupazione. Anzi, secondo Visco si rischia seriamente una “disoccupaione di massa” di lunghissima durata («L’innovazione crea nuovi lavori,- ma senza creare le condizioni per fare quei lavori, rischiamo una disoccupazione di massa in un tempo di transizione che non sarà così breve»).

Senza affatto entrare nel merito delle cause strutturali della crisi globale, il Governatore ha colpito soprattutto il pilastro che ha sorretto l’azione dei governi dell’ultimo quarto di secolo, dagli accordi di Maastricht ad oggi, Renzi ovviamente compreso, perché privilegiando quel tipo di flessibilità (lavoro a basso salario, senza diritti, con poche o nulle competenze) hanno di fatto “disincentivato gli investimenti”. La classe imprenditoriale nazionale è diventata – o meglio è rimasta – una mediocre congrega di “furbetti del quartierino”, capace di costruirsi una relazione privilegiata con i partiti al governo finalizzata ad ottenere aiuti a pioggia e “riforme” in grado di fornire all’azienda “il colpo in canna” puntato alla testa dei dipendenti. Ma assolutamente incapace, tranne le solite rare eccezioni, di innovare; quindi di costruire il proprio stesso futuro. Figuriamoci quello del paese nel suo complesso.

Peggio ancora. «È un dato di fatto – ha spiegato Visco – che la popolazione italiana è altamente in ritardo nel cogliere i vantaggi delle nuove tecnologie». Tutto il sistema dell’istruzione, insomma, è inadeguato a tenere il passo dell’evoluzone. Questo deficit ha sicuramente la causa originaria nella “pigrizia” dell’imprenditore medio italico, ma ha trovato suicide complicità sia a livello della cultura politica (di ogni tipo, anche quella della cosiddetta “sinistra”) che a livello dei movimenti studenteschi degli ultimi 30 anni, che si battevano per ottenere una “facilitazione” nel percorso di formazione, ossia un abbassamento dell’asticella selettiva come conseguenza di un annacquamento delle competenze.

La denuncia del Governatore arriva comunque tardi. Risollevare il nesso investimenti-formazione-innovazione richiederebbe un intervento massiccio in termini di mezzi finanziari, intelligenze e progetti che solo un soggetto pubblico potrebbe mettere in campo. Ma non può, impedito com’è dai trattati europei e dalle “prescrizioni” imposte dall’Unioen Europea.

Ma arriva tardi anche per un’altra ragione:  l’innovazione crea, sì, nuovi lavori, ma per un numero di persone molto minore di quelle impegnate nelle produzioni meno sviluppate tecnologicamente. In ogni caso, insomma, si produce una riduzione dell’offerta di lavoro in proporzione all’aumento del capitale messo in produzione. La “disoccupazione di massa”, non a caso, investe oggi anche i paesi dove più è avanzato lo sviluppo teconologico-produttivo. Basta guardare gli Stati Uniti, dove solo una scienza statistica molto “creativa” risce a nascondere una disoccupazione che sfiora ormai il 40% reale riducendola – per via di stipulazioni a metà strada trfa la falsificazione e la costruzione di una “realtà parallela” – a meno del 6%.

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