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Cresce la “fiducia”, ma solo quella che abbocca alle favole

Renzi voleva chiamare “legge di fiducia” anche quella di stabilità (che fino a qualche anno fa si chiamava “finanziaria”, poi è arrivata l’Unione Europea). Figuriamoci dunque come avrà reagito ai dati pubblicati dall’Istat, stamattina, che danno conto appunto di un modesto incremento dell’”indice di fiducia”. Un indice in doppia versione, uno per le famiglie, l’altro per le imprese, che danno in effetti risultati parecchio diversi.

Innanzitutto i numeri: secondo l’Istituto nazionale di statistica, l’indice di fiducia ai consumatori è salito in un mese da 113 a 116,9, mentre quello delle aziende italiane sale da 106,1 di settembre a 107,5 di ottobre. Salta subito all’occhio la differenza: i “consumatori” (le famiglie, in altro linguaggio) sono molto più fiduciose delle aziende. Come mai?

Probabilmente perché a questo livello l’ossessivo “messaggio” sparato da Palazzo Chigi e complici vari ottiene qualche risultato in più. Insomma, qualcuno finisce per crederci. Molto più cautelose, invece, le imprese, che fanno i conti con fatturato e ordinativi, e quindi non si lasciano incantare dalle chiacchiere.

Il metodo usato per la rilevazione della “fiducia dei consumatori”, senza alcuna critica per l’Istat, è quello adottato a livello europeo e consiste – spiega la Nota metodologica dell’istituto – in “interviste telefoniche svolte con la tecnica Computer assisted telephone interviewing (Cati)”. Circa 2.000 persone sono state chiamate attraverso una selezione della “popolazione residente italiana adulta al 1° ottobre 2012, stratificato per ripartizione geografica e ampiezza dei comuni di residenza. La lista utilizzata è costituita dall’elenco degli abbonati telefonici; l’unità di rilevazione è l’abbonato (selezionato casualmente nell’ambito dello strato), l’unità statistica è costituita dal consumatore, inteso come persona maggiorenne, appartenente al nucleo familiare individuato dal numero telefonico, che contribuisce alla formazione del reddito (anche in termini non monetari) della famiglia di appartenenza”.

Chiaro? Probabilmente il campione andrebbe ormai aggiornato (il numero degli abbonati a rete fissa è in drastico calo rispetto agli utilizzatori di cellulari), anche perché a rispondere sono probailmente in maggioranza pensionati, badanti o ragazzi disoccupati. È dunque fortemente probabile che le percentuali dell’indice sarebbero molto diverse se si trattasse di figure familiari diverse, più direttamente impegnate sul mercato del lavoro (o della disoccupazione).

La riprova dell’”effetto distorsivo” della comunicazione politica è quasi immediato. Per i “consumatori”, infatti, l’incremento più marcato riguarda il fattore che meno controllano in prima persona (quella sul futuro dell’economia: a 153,0 da 143,9). Mentre là dove sono obbigati a sperimentare la situazione di persona sono decisamente più cauti: la fiducia nella situazione personale resta praticamente ferma (a 103,9 da 103,6), così quella sulla situazione corrente (a 109,3 da 108,0) mentre sono un po’ più ottimisti se si lascia il triste presente per addentrarsi nelle speranze sul futuro (a 127,1 da 122,3).

In ogni caso, non abbiamo un criterio alternativo in azione, dunque vediamo se la disaggregazione dei dati fornisce qualche elemento di comprensione in più, magari relativi alle risposte delle imprese (campione assai più omogeneo).

Alcuni settori produttivi mostrano una fiducia positiva (aziende dei servizi di mercato: 113,1 da 112,2, manifattura: 105,9 da 104,4, commercio al dettaglio: 116,6 da 109,2. Qualcosa a livello di consumi, dunque, si muove effettivamente, mentre manifattura e servizi hanno uno spostamento verso l’alto quasi impercettibile. Nelle costruzioni, invece, c’è un’altra robusta marcia indietro: da 123,3 a 119,8.

Evidenti anche le perduranti debolezze, che inficiano di molto il potere taumaturgico della “comunicazione governativa” (un tempo si sarebbe detto “propaganda”, ma tant’è…). In primo luogo le imprese restano molto abbottonate per quanto riguarda un possibile aumento dell’occupazione (prevalgono ancora i “pessimisti”, quelli che non hanno alcuna intenzione di assumere altra forza lavoro). In secondo luogo perché l’indotto del settore costruzioni è decisamente vastissimo, secondo forse soltanto a quello dell’auto.

Come si vede, non occorre esser “gufi” per capire cosa non va in questa martellante operazione d “fiducia”.

 

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