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La crisi, l’Istat, l’occupazione e l’ideologia

Ogni crisi conosce oscillazioni, punti di frenata o addirittura di rimbalzo. E’ accaduto anche il quella del 1929, e fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Ma è difficile frenare l’ideologia sparata a palle incatenate dai media di regime quando si parla di economia. La “ripresa alla fine del tunnel” è in fondo un articolo di fede, non il risultato di analisi razionali dei dati.

Dunque, in molti, nelle redazioni, si sono fermati alla lettura delle poche righe dell’abstract, in testa alla “nota mensile” Istat sull’andamento dell’economia italiana per decretare che “La fase di contrazione dell’economia italiana è attesa arrestarsi nei prossimi mesi, in presenza di segnali positivi per la domanda interna”.

La recessione sta per finire, la crescita è quasi qui, le ricette della Troika funzionano, il governo Renzi sta facendo il giusto! Titoli tra il disperato e il millenaristico, salvo fermarsi sulla riga successiva del “riassunto”, che spiega come “Le condizioni del mercato del lavoro rimangono tuttavia difficili con livelli di occupazione stagnanti e tasso di disoccupazione in crescita”. Ma chissenefrega dei disoccupati, in fondo, viva la fine della crisi!

Conviene andare nei dettagli – là dove il diavolo costruisce le sue tane – per capirci qualcosa di più. In fondo l?istat è un istituto serio, tenuto in piedi da ricercatori preparati, a dispetto dei presidenti nominati dai vari governi per tentare di mitigarne i rilievi critici o le previsioni “pessimistiche” (cioè: realistiche).

Schermata da 2014-12-31 093121Basta inziare con il testo vero e proprio per apprendere che “Con l’eccezione degli Stati Uniti, tra i paesi avanzati prevalgono segnali di rallentamento (Figura 1), che si riflettono nella continua caduta del prezzo delle materie prime in dollari”. Linea piatta, poco al di sopra della zero, per l’intera zona euro. Quindi, se proprio disturba sentir parlare di recessione, al massimo si potrebbe discutere di “stagnazione”. Saremo pure “gufi”, ma non ci sembra una grande prospettiva. E in fondo, come detto, dopo tre anni di caduta continua, un momento di stop ci sta tutto. Non contraddice la tendenza, ne rallenta l’andamento…

LA produzione industriale dell’ultimo mese disponibile a consuntivo, del resto, “risulta stagnante” (+0,1%); quache segnale positivo arriva dalla caduta verticale del prezzo del petrolio e dalla vsalutazione dell’euro rispetto al dollaro. Due fattori “esogeni”, o addirittura politici, che migliorano le prospettive a breve per le esportazioni. Punto.

I fattori di incertezza – sia lode all’Istat per la scientificità – precalgono di gran lunga. Il beneficio per le esportazioni, infatti, appare fortemente mitigato dalla contemporanea caduta delle entrate dei paesi esportatori di petrolio, che quindi sono costretti – tra le prime cose – a ridurre le importazioni dai paesi manifatturieri. Quel che guadagni da una parte, insomma, rischi di perderlo dall’altra. C’è addirittura una quantificazione accurata: Un esercizio di simulazione effettuato per questa nota 1 indica che la caduta del prezzo del petrolio produrrebbe un limitato effetto espansivo. Per l’area dell’euro esso sarebbe stimato pari a 0,1 e 0,3 decimi di punto, rispettivamente, nel 2015 e 2016. Nel 2015, l’impatto sarebbe nullo in Italia e Germania e pari a 1 decimo di punto in Francia e Spagna”. Quasi nulla, alla fin fine.

Per l’Italia in particolare, anche il terzo trimestre si è chiuso in negativo; il -0,1% sarebbe insignificante se non arrivasse alla fine di altri undici trimestri col segno meno. Vanno male costruzioni, commercio, i “servizi di mercato”.

Ma er il futuro a breve c’è – soltanto – “Un miglioramento del clima di fiducia” in un paio di comparti,perlatro mitigata da un calo in altri. Si può capire che, per esempio, il manifatturiero vede bene la compresenza contemporanea di calo dei prezzi energetici, svalutazione della moneta e jobs act, ma “Nel complesso, l’indice IESI (Istat Economic Sentiment Indicator) è risultato invariato”.

Volendo fare una previsione sul quarto trimestre (che si chiude oggi), l’Istat azzarda “stazionarietà”. Ovvero crescita zero dopo una lunga caduta. Evviva?

L’occupazione, si diceva, continua a calare; ma chi lavora è inchiodato al posto molto di più: “crescita delle ore lavorate
0,0 sia in termini di monte ore complessivo (+0,4 rispetto a T2) sia delle ore lavorate per dipendente (+0,3%)”. Né le cose sembrano andar meglio guardando alle dinamiche degli inoccupati: “da un lato nuovi attori si muovono alla ricerca di un posto di lavoro, dall’altra le persone già sul mercato sperimentano difficoltà crescenti nel trovare una occupazione”. Meno occupati, più sfruttati; più paura di perdere il posto, più persone che cercano un lavoro, a qualsiasi costo.

Cose normali in tempi di crisi, che c’è di “positivo”?

Il rapporto completo dell’Istat:

 

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