Grande confusione, come sempre, sulle percentuali di disoccupati e sul ritmo asfittico della “crescita” economica del paese. Colpa, come sempre, dell'ansia da prestazione del governo – bisognoso di enfatizzare ogni pur piccola o fasulla “buona notizia” oppure di minimizzare quelle cattive – ma colpa anche dell'ignoranza diffusa in materia statistica. Specie tra i giornalisti, tra i quali quel che ne capiscono sono anche tra i primi mentitori.
Cos'è successo? L'Istat ha pubblicato i dati su occupazione e disoccupazione relativi al mese di ottobre, rendendo così noto che gli occupati sono diminuiti dello 0,2% (-39.000 unità), soprattutto tra i lavoratori “autonomi” (partite Iva, ecc). Di conseguenza, il tasso di occupazione scende al 56,3%, in calo dello 0,1. Il che porta il saldo dei nuovi occupati nel corso dell'ultimo anno ad appena 75.000 unità, un misero + 0,3%. Notizia negativa, dunque, senza alcun dubbio. Anche perché quasi tutta la “nuova occupazione” registrata nel 2015 è addebitabile ai meccanismi premiali del jobs act e dalla decontribuzione totale triennale per le nuove assunzioni con il “contratto indeterminato a tutele crescenti”. Un dispositivo pro-aziende che ha eliminato l'art. 18 e precarizzato tutto il lavoro dipendente, al punto che molte posizioni in nero o a part time fasullo sono state traformate in “posizioni stabili” (tanto ti licenzio lo stesso quando mi va…).
Al tempo stesso, però, l'Istat descrive un calo dei disoccupati (-13.000), soprattutto tra donne e over 34 anni, talché il tasso di disoccupazione resta sostanzialmente invariato, pari all'11,5%. Su base annuale, dunque, si può addirittura parlare di un sostanziale calo della disoccupazione, dal 12,3% all'11,5, appunto.
Ma com'è possibile che diminuiscano contemporaneamente gli occupati e i disoccupati? Semplice. Le statistiche internazionali – non è colpa dell'Istat – prevedono una terza categoria: gli “inattivi”. Ovvero coloro che hanno perso completamente fiducia nella possibilità di trovare un'occupazione legale e quindi non sono più iscritti agli uffici di collocamento o centri per l'impiego.
Dopo la crescita di settembre (+0,5%), dice l'Istat, la stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni aumenta ancora nell'ultimo mese dello 0,2% (+32 mila persone inattive). Il tasso di inattività, di conseguenza, è pari al 36,2%, in aumento di 0,1 punti percentuali. Su base annua l'inattività aumenta dell'1,4% (+196 mila persone inattive) e il tasso di inattività di 0,6 punti percentuali.
Insomma, quasi 200.000 persone che nell'ultimo anno sono uscite definitivamente dal mercato del lavoro e dalle statistiche, ma che naturalmente in qualche modo devono vivere. I modi possono essere diversi, a centinaia (dal lavoro nero alla vendita del patrimonio residuo, fino all'economia criminale), ma descrivono un disagio sociale pesante e crescente.
L'esistenza di questa categoria statistica, però, viene sfruttata dal governo e dai media padronali per continuare a dire “tutto va bene, stiamo migliorando”. Anche se è vero il contrario.
La conferma della pesante distorsione “comunicativa” viene dall'andamento dell'economia reale, con il tasso di crescita del terzo trimestre in calo rispetto alle attese (appena lo 0,2%), tanto da rendere praticamente certo il fallimento dell'obiettivo fissato dal governo (+0,9% nel 2015), verso un più modesto – e in prospettiva preoccupante – +0,8.
Il siparietto di battute tra Renzi e Padoan è rivelatore. È vero, la crescita è giù finita. Ma non lo ammettiamo, per ora, perché salterebbe sia la “flessibilità” concessa dall'Unione Europea (e quindi la tenuta della "manovra" agli occhi della Troika), sia la possibilità di “vendere ottimismo” a un paese immerso sempre più profondamente nella crisi sociale.
Un dato per dirlo? Aumenta la percentuale di occupati over 50, “grazie” alla riforma Fornero e all'allungamento dell'età lavorativa. Mentre riprende a salire il tasso di disoccupazione giovanile (39,8%). La dimostrazione statistica, senza possibilità di errore, che le “riforme strutturali” realizzate negli ultimi anni hanno massacrato il lavoro dipendente, cmpresso salari e pensioni, ridotto i consumi, aumentato i profitti relativi per le imprese… ma non servono a “rilanciare l'economia”.
Prima o poi, ce ne accorgeremo tutti.
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