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Che succede se il prestatore del mondo diventa debitore?

Ci sono notizie che dovrebbero innervosire, o almeno incuriosire, qualsiasi analista economico capace di visione “macro”. Ma al momento non ne abbiamo avuto ancora notizia…

Il re saudita – Salman bin Abdulaziz Al Saud – ha presentato nei giorni scorsi il primo bilancio della storia del regno con misure di austerità. Tra queste i soliti tagli alla spesa pubblica, l’aumento delle tariffe amministrate (il prezzo della benzina sale del 50%, arrivando a ben 24 centesimi di dollaro al litro), un po’ di privatizzazioni e nessun taglio alla spesa militare. Anzi.

Fin qui tutto normale, anche se un po’ sorprendente, perché vedere gli sceicchi fare “sacrifici” non è esattamente uno spettacolo di tutti i giorni. Anzi, non si era mai visto.

La causa è anch’essa nota, anzi è quasi un colpo autoinferto: il basso prezzo del petrolio, principale – se non unica – risorsa commerciale del paese. I sauditi, da un paio d’anni, hanno risposto allo shale oil statunitense, che ha momentaneamente restituito agli Usa l’autonomia energetica, con un incremento della produzione. La mossa è logica solo dentro una logica di guerra dei prezzi: il costo di produzione del greggio saudita è infinitamente più basso di quello attraverso il fracking (tra i 50 e gli 80 dollari al barile), quindi – era il calcolo saudita – un calo drastico del prezzo del greggio fino agli attuali 36-37 dollari avrebbe rapidamente messo fuori mercato il nuovo concorrente, oltre ad altri produttori “nemici” della cordata Usa-Arabia (Venezuela, Iran e Russia su tutti).

Per reggere la botta, del resto i sauditi potevano contare su immense riserve valutarie (640 miliardi di dollari) che i concorrenti non avevano. E 100 di questi miliardi sono già svaniti nel primo anno di entrate petrolifere ridotte. Anche perché tra le spese in disperato aumento ci sono quelle militari, visto che i Saud sono impegnati direttamente nella guerra contro gli sciiti Houti in Yemen e indirettamente, ma neanche troppo, nel sostegno finanziario all’Isis (tramite “donazioni private”, come altri emirati del Golfo), oltre che negli investimenti necessari a tenere in piedi regimi “amici” come l’Egitto dei generali.

Fin qui siamo in una situazione classica, ancorché insolita per l’Arabia Saudita: hai fatto il passo più lungo della gamba, ti sei impegnato su troppi fronti, quindi dovresti ridimensionare le ambizioni. Magari anche restringendo la produzione quotidiana di greggio in modo da far risalire il prezzo.

Solo che non possono. La frenesia estrattiva cui proprio i sauditi hanno dato il via è al massimo storico. Solo un’azione coordinata dei principali produttori – Opec più Russia, come minimo – potrebbe avere questo effetto. L’eventuale azione restrittiva unilaterale dell’Arabia sarebbe vanificata senza problemi dai concorrenti, tra cui si è ormai riaffacciato l’Iran che sta per vedere la fine delle sanzioni occidentali, riacquistando così clienti importanti.

Come possono fare dunque? Semplice: emettendo bond, titoli di stato. Insomma, indebitandosi.

È questa la notizia che dovrebbe mettere sull’avviso chi osserva le tendenze. Sauditi ed emirati del Golfo sono infatti da sempre acquirenti di titoli di stato altrui, soprattutto statunitensi. In altri termini, sono storicamente prestatori. Cambiare ruolo nell’economia globale non è cosa di tutti i giorni, tanto meno senza effetti, se il player ha le dimensioni finanziarie di Ryad.

Questo rovesciamento delle parti mette tendenzialmente fine a una divisione di ruoli storica decisa almeno 70 anni fa dall’imperialismo occidentale: i produttori del Golfo dovevano restare percettori netti di rendita, senza sviluppo industriale autonomo, quindi “consumatori” di merci di lusso e armamenti militari prodotti altrove, oltre che cassaforte pronta ad acquistare titoli di debito altrui. Ricordiamo che chi aveva provato a costruire un modello di sviluppo relativamente autodeterminato – come l’Iran di Mossadeq, all’inizio degli anni ’50, o i paesi conquistati al panarabismo Baath (Siria e Iraq, all’inizio anche l’Egitto di Nasser) – hanno pagato in momenti diversi prezzi terribili per questa pretesa di autonomia.

La mossa saudita sembra avere molte meno ambizioni e figlia della più stringente necessità (solo la guerra in Yemen brucia 6 miliardi al mese…). Ma spariglia egualmente le carte le risiko globale che ha come teatri principali la speculazione finanziaria e le molte guerre che si combattono in e a partire dal Medio Oriente.

Un altro uragano ha preso forma. La “tempesta perfetta” resta lo scenario più probabile.

 

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