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Il petrolio vola, l’economia rischia un nuovo crollo

Non c'è pace per chi guadagna sempre meno… Una delle poche buone notizie per i lavoratori a reddito fisso, negli ultimi tre o quattro anni, era stato il crollo del prezzo del petrolio. Precipitato da 115 a 30-40 dollari al barile grazie alla diminuzione della domanda (in tempi di crisi economica c'è meno domanda di energia, in tutti i comparti) e alle scelte dell'Arabia Saudita, che aveva preso a estrarre il più possibile con due obiettivi: a) stroncare lo shale oil statunitense (estratto con la tecnica del fracking, costosissima sul piano economico e ambientale) e b) mettere in crisi l'Iran proprio nel momento in cui ricuciva in parte i rapporti, anche commerciali, con l'Occidente.

Il risultato di questa congiunzione astrale è stato il congelamento dell'inflazione, diventata in alcuni casi addirittura negativa (ossia deflazione), con conseguenze serie in tutto il pianeta. Perché se la dinamica dei prezzi è immobile, gli investimenti e gli acquisti vengono ritardati, facendo dunque avvitare la crisi in un circolo vizioso.

Tra le conseguenze monetaria, com'è noto, c'è la politica delle banche centrali, sia negli Usa che in Europa, che hanno azzerato i tassi di interesse e immesso quantitativi abnormi di liquidità nel sistema nel tentativo di mantenere il tasso di inflazione al di sopra dello zero. Tutto inutile, fin qui, ma c'è comunque una marea di denaro che fluttua per il mondo alla ricerca di una “valorizzazione” sempre più difficile.

L'accordo tra i produttori di petrolio, sia membri dell'Opec che non (a partire dalla Russia) rischia ora di modificare drasticamente il quadro. Sulle ripercussioni geopolitiche rinviamo all'analisi, come sempre dettagliata, di Alberto Negri, de Il Sole 24 Ore, che riportiamo in chiusura.

Sul piano strettamente economico, però, le conseguenze di quell'accordo sono già in atto. Il prezzo del greggio infatti è salito del 13% in pochi giorni, anche se la riduzione di produzione annunciata è pari soltanto all'1% del totale giornaliero globale. “Merito” delle particolarità del mercato petrolifero, che si gioca su margini di produzione piuttosto esigui (quasi tutti i paesi produttori pompano quasi al limite delle proprie capacità, ad eccezione dell'Arabia Saudita e, forse, di Russia e Kuwait).

Ma l'aumento del prezzo dei prodotti energetici – tutti e contemporaneamente – ha immediati riflessi sull'inflazione. Il che da un lato preoccupa chi vive lavorando con salari mediamente sempre più bassi, dall'altra costringe le banche centrali a interrompere il lunghissimo periodo di politica monetaria “accomodante”. Già la Federal Reserve sta per aumentare i tassi di interesse, nella prossima riunione di dicembre; e la Bce, dal canto suo, dovrà frenare sul prolungamento e soprattutto sull'aumento della portata del quantitative easing.

Il prodotto di quest'altra congiunzione astrale è chiara: aumento dell'inflazione “cattiva”, ossia quella importata con il prezzo dell'energia. Inflazione che funziona al contrario di quella “buona”, derivante cioé dall'aumento dei salari, del reddito disponibile nei consumatori, della produzione “normale”.

Il problema è che nell'ottica delle autorità sovranazionali, soprattutto quelle dell'Unione Europea, questa distinzione tra tipi diinflazione non viene neanche fatta. Dunque, al risollevarsi del problema prezzi è prevedibile una ulteriore stretta robusta, a partire dalle politiche monetarie per arrivare a quelle di bilancio. Una nuova stagione di austerità, insomma, come se l'inflazione risorgente fosse dovuta a ragioni “buone”.

E' chiaro che un uragano fa formandosi rapidamente ai margini delle economie più fragili dell'Unione Europea, quelle dei Piigs mediterranei, che non sono riuscite a diminuire il debito pubblico neanche con anni di quantitive easing (che ha quasi azzerato il peso degli interessi da pagare su quel debito), e neppure a promuovere una pallida crescita dell'economia reale (con il +0,8% ci si può pavoneggiare solo tra gli incompetenti…).

Il cambio di rotta – a questo punto molto probabile con l'inizio del nuovo anno, se i paesi produttori manterranno effettivamente l'impegno a ridurre l'estrazione di greggio – metterà la parola fine a tutti i giochetti con i bonus. E anche a quel che resta della credulità sociale….

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Sulla tregua l’incognita iraniana

Alberto Negri

Mai forse come negli ultimi due anni le riunioni dell’Opec sono state segnate furiosamente dalla competizione geopolitica tra i componenti del Cartello petrolifero, i loro concorrenti esterni, la Russia e gli Stati Uniti, e soprattutto dall’antica rivalità tra Iran e Arabia Saudita. Ora è stato raggiunto un laborioso accordo sui tagli produttivi che appare una sorta di tregua tra i duellanti che dovrà reggere la prova dei mercati e anche quella dei campi di battaglia.

La guerra al ribasso del petrolio è stata il riflesso di quella che si svolge da anni tra Riad e Teheran, tra sciiti e sunniti per la leadership del mondo musulmano, e dell’altro una delle conseguenze della lotta sui mercati ingaggiata dallo shale oil americano e dalla Russia, che sull’export di materie prime fonda le sue ambizioni di superpotenza dall’Est al Medio Oriente.

Il punto di svolta fu la riunione Opec del 27 novembre 2014, quando il petrolio era già precipitato da 115 a 70 dollari al barile. Invocando la necessità di battere la concorrenza del petrolio di scisto americano, il ministro saudita Ali al-Naimi avviava allora la guerra dei prezzi: invece di chiudere i rubinetti della produzione secondo lui conveniva inondare i mercati perché una volta neutralizzato il greggio Usa, più costoso da estrarre, le quotazioni sarebbero risalite.

Questa manovra avrebbe avuto un effetto collaterale decisivo agli occhi della monarchia saudita: l’asfissia economica del nemico iraniano, sostenitore del regime siriano di Assad, degli Hezbollah libanesi, dei ribelli Houthi in Yemen e del governo sciita di Baghdad impegnato nella guerra al Califfato. L’arma del petrolio veniva usata dai Saud contro un concorrente storico contro il quale era stata lanciata da Saddam la guerra degli anni Ottanta sostenuta dai soldi delle monarchie del Golfo.
Ma i sauditi negli ultimi due anni hanno perso la scommessa. Il crollo dei prezzi non si è tradotto in un aumento della domanda e neppure sono stati mandati fuori mercato i produttori americani. Il fatto però più clamoroso è che l’ingresso in campo nel settembre 2015 della Russia in Siria ha permesso ad Assad di restare in sella e si è costituito un asse tra Mosca-Teheran-Damasco e Baghdad con cui ha dovuto fare i conti anche la Turchia di Erdogan, la potenza regionale su cui conta l’Arabia Saudita per costituire un fronte anti-sciita. Mentre Riad è rimasta impantanata in Yemen, un Vietnam arabo di cui si parla troppo poco, la Russia e l’Iran con Assad sono sempre più vicini alla conquista di Aleppo; allo stesso tempo in Iraq, con il sostegno degli Usa e iraniano, il governo sciita, avversato da Riad, ha lanciato l’offensiva contro Mosul, roccaforte dell’Isis.

Gli eventi sono così contrari ai Saud che pure gli Stati Uniti, grande protettore della monarchia wahabita, stanno cercando di venire a patti su Aleppo prima che alla Casa Bianca entri Donald Trump, il quale ha minacciato di rompere l’accordo del 2015 sul nucleare con Teheran, una mossa che secondo il capo uscente della Cia, Brennan, sarebbe “disastrosa” e porterebbe a una proliferazione atomica regionale. È da notare che le sanzioni finanziarie e sul greggio, annullate dall’intesa con il Cinque più Uno, erano costate a Teheran dal 2011 100 miliardi di dollari di export. Ma neppure queste perdite enormi poi accompagnate dal calo del petrolio voluto da Riad avevano affossato la repubblica islamica.

L’accordo con l’Iran, osteggiato dai sauditi e dagli israeliani, ora gli Usa lo devono difendere: il segretario di Stato John Kerry è impegnato in una trattativa con il collega russo Serghej Lavrov – domani entrambi saranno presenti al Med-Ispi di Roma – per evitare una disfatta dei ribelli di Aleppo Est appoggiati dagli Stati Uniti, tra cui il nucleo duro è rappresentato dal fronte al Nusra affiliato di al-Qaida, casa madre dell’11 settembre 2001. È l’ennesimo imbroglio mediorientale in cui si sono ficcati gli americani e i loro alleati.

Insieme ai sussulti del Cartello cambiano le alleanze regionali. L’Iraq si è messo d’accordo con i curdi di Massud Barzani per dividere i barili estratti dai pozzi contesi di Kirkuk ma è anche diventato un grande fornitore dell’Egitto da quando i Saud hanno deciso di sospendere le forniture al generale al-Sisi che ora appoggia Assad, al punto da inviare consiglieri militari a Damasco. L’intesa irachena con il Cairo è stata ottenuta con la mediazione degli iraniani e dei russi.

Concentrati nella rivalità con l’Iran, nelle battaglie dello Yemen e contro Assad, i sauditi hanno dovuto cambiare la politica del 2014, spingere sui tagli di produzione e fare qualche concessione a Teheran per risollevare quotazioni ed entrate petrolifere destinate a coprire le spese della difesa: perché come sempre in Medio Oriente – diceva Lord Curzon – ogni goccia di petrolio equivale a una goccia di sangue.

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