Dice l’Istat che i prezzi hanno ripreso a camminare. E di questo c’eravamo accorti anche da soli. Ma i salari, gli stipendi e le pensioni sono fermi. Anche questa, per noi, non è una novità da scoprire.
Quel che aggiunge l’Istat – e persino la Bce – è che questo aumento dei prezzi non è quello “buono”, fisiologico, sistemicamente benefico che deriva da una dinamica di crescita complessiva (più produzione, meno disoccupazione, salari più alti, maggiori consumi e dunque prezzi in moderata salita). Al contrario è quello negativo e depressivo dell’inflazione importata; ossia derivante da aumenti di prezzi internazionali decisi indipendentemente – seppure in piccola parte – dalle dinamiche di mercato. Su tutti, il prezzo del petrolio dopo l’accordo tra paesi Opec e Russia per una riduzione della produzione giornaliera (accordo peraltro piuttosto disatteso, a quanto pare, visto che l’offerta resta in queste settimane molto alta, deprimendo di nuovo il prezzo).
La novità sta nel fatto che i media padronali si sono accorti del fatto che dinamica dei prezzi e dinamica salariale stanno andando in modo molto disallineato. In pratica, secondo i dati ufficiali, se l’inflazione è tornata sopra l’1% (vicina all’1,5), i salari contrattuali sono fermi a un impercettibile +0,5%. Perché gli analisti confidustriali si preoccupano? Banale dirlo… La produzione italiana, fatta salva la quota di prodotti esportati, finisce quasi per intero sul mercato interno. Se qui i consumi restano fermi – se i salari non tengono dietro ai prezzi, cala il potere di acquisto e dunque i consumi – anche “la ripresa” ha i giorni contati.
Naturalmente questa “scoperta” è profondamente asimmetrica e disonesta. Un esempio? Mario Sensini, analista de Il Corriere della Sera, nel presentarla fa riferimento solo ai salari contrattuali e quindi riesce a dire una cosa altrimenti indicibile: “dopo gli anni più difficili della crisi in cui il potere d’acquisto dei lavoratori è cresciuto…”. Qui c’è una doppia capriola per nascondere molte evidenze empiriche decisive. I primo luogo, i salari contrattuali nominali (espressi in euro) sono rimasti del tutto fermi (tranne che per pochissime categorie con pochissimi dipendenti); dunque “l’aumento del potere d’acquisto” sarebbe tutto da ascrivere alla deflazione (se i prezzi calano con la stessa somma si comprano più cose). Ma anche questo è un dato fasullo, perché riferito all’intero paniere dei prezzi. Se si bada infatti al famoso “carrello della spesa”, ossia ai prodotti comprati tutti i giorni (i consumi alimentari e gli altri di prima necessità), si vede che l’aumento dei prezzi ha abbassato il potere d’acquisto dei salari.
Il secondo elemento cancellato da Sensini è la “qualità” dell’occupazione creata in questi anni – prevalentemente precaria – che si trascina dietro salari che non hanno alcun rapporto con i minimi contrattuale. Anche 500-600 euro al mese, come abbiamo visto in Almaviva e altre aziende in cui si è potuto mettere il naso solo al momento della chiusura di interi stabilimenti. Dunque assumere come effettivi e generalizzati i livelli salariali teorici scritti nei contratti nazionali significa descrivere un quadro assolutamente falso della distribuzione dei redditi da lavoro dipendente in relazione ai prezzi.
La riprova sta in un’altro passaggio dello stesso articolo di Sensini: “la dinamica [salariale] è piatta e resterà tale almeno finché non scatteranno gli aumenti contrattuali dei metalmeccanici firmato a novembre”. Il ragionamento è anche qui puramente astratto, anche dal punto di vista statistico. La categoria dei metalmeccanici è ancora molto grande, nonostante la marea di licenziamenti, fallimenti, chiusure, esternalizzazioni. Oltre un milione e mezzo di dipendenti (molti in cassa integrazione, però) la cui retribuzione – se aumentata effettivamente – potrebbe far innalzare la linea dei livelli salariali. Peccato che l’ultimo contratto firmato a novembre – davvero “innovativo”, in senso tragico – non prevede alcun aumento contrattuale sul salario base, ma soltanto un recupero dell’inflazione davvero ridotto ai minimi termini: è infatti posticipato all’anno successivo (il recupero scatta sulla base dell’inflazione registrata nell’anno precedente, non più rispetto a quella “attesa” o “programmata”) e soprattutto assume l’indice Istat depurato dalla dinamica dei beni energetici. In pratica, con l’attuale tipo di inflazione “cattiva”, dovuta quasi soltanto al prezzo degli idrocarburi, anche i “metalmeccanici contrattualizzati a tempo pieno e indeterminato” non vedrebbero quasi nulla in busta paga. Figuriamoci i precari, i “somministrati”, i voucheristi, ecc.
Di tutto questo, Sensini come altri algidi analisti, non parlano. Però, anche prendendo i parametri statistici più astratti, “Il rischio che quest’anno si chiuda con una riduzione dei redditi reali è concreto. Un poì di inflazione non guasta, un divario troppo ampio coi salari può essere un problema”.
Tranquilli, non è che i neoliberisti siano convertiti al socialismo… Semplicemente hanno fatto tutto il pieno possibile con la deflazione salariale – cui va aggiunta quella dei dipendenti pubblici, da otto anni senza contratto né adeguamenti salariali – e non ne hanno tratto alcun beneficio tradotto in investimenti (solo profitti dirottati sui mercati finanziari). Dunque, se l’inflazione – buona o cattiva, non importa – riparte il rischio forte è che si blocchi ulteriormente il mercato interno. Se non non compriamo, insomma, loro non vendono…
E ci voleva una laurea, per capirlo?
p.s. Magari quelli come Sensini potrebbero fare una telefonata a CgilCislUil (ne basta una, non si distinguono più nemmeno tra loro): "fate almeno finta di fare i sindacalisti e chiedete qualche aumento, altrimenti come si fa?…"
p.s. 2 Nulla succede per caso. E il rapporto Istat di stamattina sulla produzione industriale conferma le “preoccupazioni” di Sensini & co. O meglio, conoscendo il mondo dell’informazione italica, questo rapporto era stato in qualche modo pre-distribuito sulle scrivanie che contano qualche giorno prima…
Qui il lancio con cui l’agenzia Ansa riassume il report, che potete leggere integralmente cliccando qui.
La produzione industriale diminuisce a gennaio 2017 del 2,3% rispetto a dicembre e dello 0,5% rispetto a gennaio 2016, nei dati corretti per effetto di calendario. Si tratta del primo calo tendenziale dopo cinque aumenti consecutivi e segue l'aumento del 6,8% di dicembre. Lo comunica l'Istat spiegando che su questo dato incide anche la forte differenza nei giorni lavorativi (due in più rispetto allo scorso anno): i dati grezzi mostrano infatti un aumento del 5,7% su base annua. Tutti i comparti presentano variazioni negative tranne l'energia.
L'indice destagionalizzato mensile indica una crescita per l'energia del 3,1% e riduzioni per i beni strumentali (-5,3%), i beni intermedi (-3,4%) e i beni di consumo (-1,6%). In termini tendenziali gli indici corretti per gli effetti di calendario registrano, a gennaio 2017, un aumento "marcato", sottolinea l'Istat, nel comparto dell'energia (+14,4%), segnano invece diminuzioni i beni strumentali (-6,2%) e, in misura più lieve, i beni di consumo (-1,9%) e i beni intermedi (-1,4%). Per quanto riguarda i settori di attività economica, a gennaio 2017 i comparti che registrano la maggiore crescita tendenziale sono quelli della fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria (+17,1%), della produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+12,7%) e della fabbricazione di prodotti chimici (+2,1%). Le diminuzioni maggiori si registrano nei comparti delle altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine ed apparecchiature (-9,5%), dell'industria del legno, della carta e stampa (-8,5%) e dell'attività estrattiva (-5,9%).
Auto: produzione diminuisce a gennaio dello 0,2% – La produzione italiana di autoveicoli si riduce a gennaio 2017 dello 0,2% su base annua. I dati Istat corretti per gli effetti di calendario mostrano per il settore il secondo calo a partire da maggio 2014 (quando la flessione era stata del 3,7%). L'altra riduzione era stata registrata a giugno dello scorso anno (-1%).
Coldiretti,maltempo pesa su crollo alimentare-3,7% – A pesare sul crollo della produzione alimentare, che fa segnare un calo del 3,7%, è anche l'effetto maltempo, che a gennaio ha decimato i raccolti agricoli, con danni stimati in oltre 400 milioni di euro. E' quanto afferma la Coldiretti, sulla base dei dati Istat relativi alla produzione industriale a gennaio. Si tratta – osserva Coldiretti – di una netta inversione di tendenza rispetto ai risultati positivi fatti segnare a dicembre anche grazie al Natale. Nel mese di gennaio, dalla Puglia alla Basilicata, dalle Marche al Lazio, dall'Abruzzo al Molise, dalla Sicilia alla Calabria, dalla Campania alla Sardegna, sono state migliaia le aziende agricole che hanno perso le produzioni di ortaggi invernali prossimi alla raccolta per effetto del gelo, e sono saltate molte consegne di verdure e di latte per i problemi di viabilità. Gravi sono anche i danni che si sono verificati sugli agrumeti – conclude Coldiretti -, così come per i vigneti di uva da tavola, che hanno ceduto sotto il peso della neve, con conseguenze sul mercato che rischiano di trascinarsi per mesi.
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