Una giornata da incubo per le criptovalute, quella di ieri. Fin dalla mattina infatti si sono registrate una serie di crolli del valore delle tre principali monete elettroniche attualmente in circolazione, ossia Bitcoin, Ethereum e Ripple.
L’epicentro del sisma che ieri ha dato una forte scossa al mercato delle valute digitali è tra la Cina e la Corea del Sud, due paesi in cui le criptomonete sono molto utilizzate.
Il vice presidente della Banca Centrale Cinese, secondo quanto riportato nella mattina di ieri dalla Reuters, avrebbe intenzione di vietare il trading centralizzato, cioè lo scambio su piattaforme pensate esclusivamente per lo scambio di moneta digitale (come ad esempio Coinbase). Oltre a questa dichiarazione, sia la Cina che la Corea del Sud stanno pensando di introdurre limitazioni all’utilizzo di criptomoneta.
A pesare sull’andamento dei mercati è stata soprattutto la dichiarazione arrivata da Pechino: il risultato è un -13% circa per Bitcoin, -20% circa per Ethereum e una caduta oltre il 20% per Ripple. Un bagno di sangue, come alcune testate hanno titolato.
In realtà è da un po’ di tempo che le cose non vanno bene, per la moneta digitale: dopo essere arrivata, in particolare Bitcoin, ad un valore altissimo alla metà di dicembre, la valuta elettronica ha subito brusche cadute fino al tracollo di oggi.
E’ stata sufficiente la dichiarazione dell’autorità cinese per creare un effetto domino di queste dimensioni? Probabilmente no. Il dibattito sulla criptomoneta e sui mercati che si sono creati in breve tempo, e soprattutto sugli enormi rischi di bolle speculative che la diffusione della moneta elettronica comporta, è quanto mai acceso.
Facciamo qualche passo indietro: di moneta digitale si inizia a parlare alla fine degli anni ’90. Nel 2009 Satoshi Nakamoto (pseudonimo dietro al quale ancora non si sa chi ci sia, forse un imprenditore australiano, ma non è certo) pubblicò il protocollo bitcoin per poi iniziare a distribuire il software. A lui si unirono altri sviluppatori, che perfezionarono e stabilizzarono il sistema.
Negli ultimi anni, soprattutto nell’ultimo, l’utilizzo della cybermoneta è esploso, generando ricchezze (vere o presunte) e qualche bolla speculativa.
Eh si, perché il problema del bitcoin nasce esattamente da quella che è la sua forza: l’assenza di controlli, intermediatori e “pagatore di ultima istanza”. Questa moneta “decentralizzata” nasce attraverso l’utilizzo di un software basato su complesse chiavi crittografiche, disponibile ed aperto a tutti. Il trionfo dell’“open source”, un sistema gestito dalla collettività degli utenti, aperto a tutti e che è impossibile controllare. Il valore del bitcoin, non essendo sottoposto al controllo di alcun tipo di autorità, è esclusivamente affidato all’incontro tra domanda ed offerta. Al centro del sistema la “BlockChain”, una sorta di registro pubblico, una catena di blocchi generata da un algoritmo accessibile a tutti ma immodificabile se non dalla metà più uno degli utilizzatori globali.
Un sistema in apparenza sicuro, ma che paga inevitabilmente almeno due cose: l’assoluta volatilità dell’oggetto delle trattazioni (moneta digitale) e l’assenza totale di qualsiasi forma di “garante” reale (banche centrali o periferiche).
Altra caratteristica che diversifica in modo netto il bitcoin dalle valute tradizionali è il fatto che sia previsto un limite massimo non superabile (almeno ad oggi) di singole monete virtuali emesse: 21 milioni. Non una di più. Nel 2033 si raggiungerà il limite, e da quel momento il numero di bitcoin in circolazione resterà immutato.
Questa caratteristica rende la moneta virtuale un bene finito, destinato a diventare sempre più appetibile. Per questo già nel tardo pomeriggio di ieri sono iniziate a circolare in rete valutazioni meno catastrofistiche rispetto a quanto avvenuto in mattinata: il futuro delle criptomonete potrebbe essere ancora roseo. Questa analisi sembra essere avallata dalla scelta di diversi protagonisti dei mercati finanziari mondiali, a partire dalle 42 principali banche che già da qualche tempo si sono organizzate in un consorzio, denominato R3, strutturato per definire uno standard comune di utilizzo. Ne fanno parte, tra le altre, Goldman Sachs, Barclays, Credit Suisse, le italiane Unicredit ed Intesa S. Paolo. Nel frattempo JP Morgan ha avviato un progetto costruito su blockchain.
Insomma, se tali pezzi da novanta dei mercati finanziari stanno investendo da tempo su ricerche ed analisi di modelli speculativi basati sulle criptomonete, possiamo anche immaginare che la tempesta di ieri sia stata intensa ma breve, e che ci sia ancora parecchio da imparare sulle potenzialità di questa nuovo strumento di profitto.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa