L’evoluzione della crisi accelera a velocità crescente. Non solo o non tanto sul piano economico – la “botta” del 2008 non è mai stata riassorbita del tutto, o comunque non per tutte le aree principali – quanto su quello politico e dunque anche geopolitico.
L’effetto di gran lunga dominante, infatti, è stata la rottura della “coesione sociale” all’interno dei paesi di più antica industrializzazione, accompagnata – soprattutto in Europa – dalla centralizzazione delle politiche di bilancio dei singoli Stati. Mentre la gestione della crisi, ordoliberista (nella Ue) o neoliberista (nei paesi anglosassoni), moltiplicava le disuguaglianze, gli Stati nazionali venivano privati degli strumenti con cui da 60 anni si provvedeva a “calmierare” gli effetti sociali di una crisi.
Questa tagliola di spaventosa potenza ha bruciato, in appena dieci anni, “corpi intermedi” costruiti in due secoli. Partiti e sindacati storici sono stati svuotati, fatti implodere, annichiliti, paralizzati, resi complici stolidi e stupidi. Una tabula rasa più evidente “a sinistra”, dove i legami storici tra blocco sociale, forme organizzative e vaghi ideali riformisti erano un senso comune consolidato, mentre a destra sono state assai più rapide le riscritture delle “narrazioni” necessarie a supportare qualche straccio di “rappresentanza politica”. Sulla base, non per caso, di nazionalismo, razzismo, imprenditoria della paura, autoritarismo.
Da un punto di vista marxiano, il salario è diventato una “variabile eventuale”, compresso dunque per la prima volta da un secolo al di sotto dei livelli della riproduzione. Non è difficile rendersene conto. Basta guardare la condizione dei lavoratori under 40 per scoprire che trenta anni di “riforme del mercato del lavoro” per “favorire l’occupazione giovanile” hanno creato una condizione lavorativa in cui il salario realmente percepito dai “ggiovani” non consente di formare coppie stabili, fare figli, programmare la propria vita. Il meccanismo della riproduzione sociale è stato così pesantemente intaccato che è facile stilare proiezioni catastrofiche sul calo demografico delle popolazioni “autoctone”, aggravate dalla ripresa di fortissimi flussi migratori dai paesi della periferia a quelli del centro del capitalismo avanzato (Germania, Gran Bretagna, Olanda, ecc). Solo in Italia, ormai dovrebbe essere scolpito sui muri degli uffici pubblici, l’emigrazione ha superato l’immigrazione. Senza che il salario salisse di un euro, anzi… A dimostrazione che non sono “glimmigrati” la causa del suo infame livello.
Eppure quest’ultima categoria è stata facilmente trasformata nel capro espiatorio del crollo dei salari e dell’impoverimento generale.
Com’è stato possibile? Una chiave analitica importante arriva da Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza, che nel suo Angela e demoni, che qui sotto vi riproponiamo, coglie una dinamica universale in quanto sta avvenendo in questi anni in Germania.
“Si è creata una saldatura tra l’ostilità dei Lander ex-orientali, i più poveri, e l’insofferenza della ricca Baviera. Emergono le contraddizioni delle politiche di deflazione salariale adottate con le riforme Hartz, volute alla fine degli anni Novanta dal Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder: da allora, la Germania è diventata sempre più ricca, ma i tedeschi paradossalmente sempre più poveri. Da quando è caduto il Muro, la quota dei salari sul reddito è scesa continuamente: non c’è più alcun bisogno di tenersi buoni i lavoratori. Ed i milioni di tedeschi che sbarcano il lunario con i minijob, i lavoretti precari a tempo parziale che fanno crollare la percentuale dei disoccupati, rappresentano l’altra faccia dell’aristocrazia operaia al servizio di una industria automobilistica scintillante che macina un record di esportazione dopo l’altro.
Il malessere sociale, che per oltre un secolo aveva avuto nei socialisti e nei comunisti un orizzonte politico, organizzativo, associativo, viene insomma raccolto e convertito in forza politica reazionaria da quelli che hanno enormi responsabilità per la crescita esponenziali dei fattori che creano il malessere sociale.
Un fenomeno che ai “teorici” della costruzione dell’Unione Europea, come gabbia d’acciaio in cui imporre l’interesse dominante del capitale multinazionale, non era neanche balenato per la testa. Convinti com’erano, e forse sono ancora, che la forza dei “mercati” avrebbe alla lunga “insegnato ai popoli come votare”.
Sorprende, ma fino ad un certo punto, vederselo dire da un giornale finanziario:
La traiettoria europea verso la costruzione di un’Unione politica si è interrotta bruscamente, per via di una gestione decennale della crisi basata sull’accrescimento delle disparità tra i diversi Paesi ed all’interno di ognuno. La tendenza al sovranismo, che altro non è se non la rinazionalizzazione delle politiche, ha trovato esca nella retorica dei “compiti a casa”, nell’ossequio alla indiscutibilità dei mercati, nella severa condizionalità posta alla concessione degli aiuti.
Eccoci improvvisamente fuori dal dibattito iper-ideologico che è stato imposto dai “riformisti di Bruxelles” e fatto proprio – spesso inconsapevolmente – anche da molta “sinistra radicale”. Se un sistema di trattati mai diventato Stato o comunità solidale (con trasferimenti interni tra aree avanzate e arretrate) non funziona più, è inevitabile che si imponga la necessità di fare una cosa diversa. Se questa necessità non viene riconosciuta, o addirittura viene osteggiata, ecco che le soluzioni arrivano solo da destra, con tutto lo strascico di merda che ciò comporta, a cominciare dalla “sinistra” socialmente riconosciuta come complice dei cravattari della Troika.
Ma l’analisi di Salerno Aletta, concentrata su Berlino, offre una visione globale che inquadra anche la Germania come un soggetto alle prese con la crisi del proprio modello, nonostante l’avesse disegnato in modo ottimale per trasferire i propri problemi sui partner mentre raccoglieva da questi i frutti migliori (imprese, attività, cervelli già molto ben formati, ecc).
Il conflitto politico più aspro si giocherà d’ora in avanti all’interno della Germania, e soprattutto tra questa e gli Usa: riguarderà da una parte il mantenimento del modello ordoliberista, che formalmente si oppone a qualsiasi intervento di stimolo alla domanda, vuoi attraverso la politica fiscale vuoi attraverso quella monetaria da parte della Bce, e dall’altra il modello di sviluppo export-led che finora ha assicurato alla Germania crescita ed occupazione.
La tenaglia che ha tranciato di netto le capacità di sviluppo di quasi tutti i partner-competitori-contoterzisti sta insomma trasformandosi in macchina infernale da auto-mutilazione. Se la guerra dei dazi si svilupperà alla velocità e nelle dimensioni che ogni guerra non voluta, prima o poi, produce, il risultato finale sarà niente affatto confortevole:
Una riforma strutturale dell’economia tedesca, che dovesse contare solo sulla domanda interna per riassorbire un saldo attivo strutturale pari all’8% del pil in un sistema produttivo in cui la quota asservita all’export si avvicina al 46%, richiederebbe sacrifici paragonabili a quelli imposti alla Grecia, tenendo conto che sono localizzate in Baviera e ad ovest del Reno gran parte delle fabbriche automobilistiche tedesche.
Il modello ordoliberista-mercantilista sta diventando autofago.
Ordoliberismo ed export-led economy si sono tenuti per mano. E non si può rinunciare a quest’ultima, se non abbandonando il primo. E’ stato reso perfetto un modello sbagliato, perché fondato sullo squilibrio internazionale perpetuo. […] La Storia ora ci presenta il conto. Tornare indietro sarà davvero difficile.
Mi raccomando, continuate a parlare di Unione Europea in termini di “sovranisti” ed “europeisti”… Rischiate il tso senza nemmeno accorgervene.
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Angela e demoni
Guido Salerno Aletta
Anche per la Germania, il Novecento volge al termine. L’accelerazione della crisi politica tedesca ha radici profonde, che erano già emerse nel corso delle estenuanti trattative per la formazione dell’ennesimo governo di grande coalizione tra Cdu-Csu e Spd, dopo il fallimento di quelle con Fpd e Verdi.
Bisogna accelerare, ora, prima che le elezioni autunnali in Baviera e quelle europee nella prossima primavera si trasformino in una catastrofe, facendo volare nel consenso i due partiti della destra, l’Fpd ed AfD. Il destino del quarto cancellierato di Angela Merkel, iniziato con estrema fatica, sembra segnato.
Una leadership politica bavarese guidata dall’attuale ministro degli Interni Horst Seehofer, accompagnata da una saldatura politica con le regioni ad occidente del Reno, ribalterebbe gli equilibri tedeschi. L’anima prussiana e protestante cederebbe la guida a quella renana e cattolico-romana: dietro l’unità della lingua ed il mito del popolo tedesco, si riaffacciano le diversità tribali ben note già a Tacito. Il tema identitario, che è linguistico, culturale e religioso prima ancora che etnico, e che era stato fondante sin dai tempi di Bismark e dei Discorsi alla Germania di Fichte, è stato sospinto nel secondo dopoguerra da un anelito ancor più forte per via della prospettiva di Riunificazione.
Questa, però, si è consumata nella profonda mortificazione degli Ossie: i tedeschi dei lander orientali, a differenza degli ungheresi, dei cecoslovacchi e dei polacchi, mai lottarono contro il comunismo per ottenere le libertà democratiche. Fu l’Occidente tedesco a liberarli, in realtà sottomettendoli come avevano fatto i Sovietici.
Si apre ora un periodo di riflessione profonda, sulla identità della Germania e sul suo ruolo nel nuovo secolo. Giusto cent’anni fa, infatti, con il Trattato di Versailles se ne fece salva l’integrità territoriale sulla base delle infatuazioni del Presidente americano Woodrow Wilson, sostenitore di Stati che rispecchiassero le identità nazionali, ma si sconvolse invece l’intera Europa con il Trattato del Trianon, decidendo due anni più tardi la dissoluzione dell’Impero austroungarico. Cadde così l’unico contrafforte multinazionale, multiculturale, multireligioso e multilinguistico, all’espansione della Russia, divenuta vieppiù pericolosamente sovietica, ed alle mai sopite infiltrazioni musulmane. Fu giocoforza, dunque, sia nel primo che nel secondo dopoguerra, sostenere comunque la Germania per evitare che il comunismo e la Russia dilagassero in Europa.
Gli equilibri internazionali ora stanno mutando: i quattro Paesi del Gruppo di Visegrad, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, cui si unirebbe anche l’Austria, riproporrebbero un’area di interposizione ad Oriente, un Intermarium che va dal Baltico all’Adriatico passando per il Mar Nero: è quel cuscinetto tanto auspicato dalla Russia e da sempre negato dagli Usa che hanno puntato alla estensione della Nato. Una nuova Mitteleuropa.
La centralità geopolitica della Germania è venuta meno: Donald Trump può dunque permettersi di attaccarla impunemente nel corso delle riunioni del G7 per lo scarso impegno militare e per l’attivo commerciale stratosferico. Impone i dazi su acciaio ed alluminio e ne minaccia di nuovi sull’export automobilistico.
I tedeschi, dal canto loro, si sentono frodati, assediati nella difesa del benessere che hanno costruito con rigore e disciplina, nell’etica del lavoro: non ci sono solo i Paesi-cicala mediterranei, che depredano le formiche del nord Europa e che addirittura reclamano la costruzione di un’Europa di trasferimenti per farsi mantenere nullafacenti; ora entrano in Germania a centinaia di migliaia i migranti economici, spezzando l’incantesimo della polarizzazione crescente del mercato del lavoro.
Si è creata una saldatura tra l’ostilità dei Lander ex-orientali, i più poveri, e l’insofferenza della ricca Baviera. Emergono le contraddizioni delle politiche di deflazione salariale adottate con le riforme Hartz, volute alla fine degli anni Novanta dal Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder: da allora, la Germania è diventata sempre più ricca, ma i tedeschi paradossalmente sempre più poveri. Da quando è caduto il Muro, la quota dei salari sul reddito è scesa continuamente: non c’è più alcun bisogno di tenersi buoni i lavoratori. Ed i milioni di tedeschi che sbarcano il lunario con i minijob, i lavoretti precari a tempo parziale che fanno crollare la percentuale dei disoccupati, rappresentano l’altra faccia dell’aristocrazia operaia al servizio di una industria automobilistica scintillante che macina un record di esportazione dopo l’altro.
La traiettoria europea verso la costruzione di un’Unione politica si è interrotta bruscamente, per via di una gestione decennale della crisi basata sull’accrescimento delle disparità tra i diversi Paesi ed all’interno di ognuno. La tendenza al sovranismo, che altro non è se non la rinazionalizzazione delle politiche, ha trovato esca nella retorica dei “compiti a casa”, nell’ossequio alla indiscutibilità dei mercati, nella severa condizionalità posta alla concessione degli aiuti.
Il conflitto politico più aspro si giocherà d’ora in avanti all’interno della Germania, e soprattutto tra questa e gli Usa: riguarderà da una parte il mantenimento del modello ordoliberista, che formalmente si oppone a qualsiasi intervento di stimolo alla domanda, vuoi attraverso la politica fiscale vuoi attraverso quella monetaria da parte della Bce, e dall’altra il modello di sviluppo export-led che finora ha assicurato alla Germania crescita ed occupazione. Una riforma strutturale dell’economia tedesca, che dovesse contare solo sulla domanda interna per riassorbire un saldo attivo strutturale pari all’8% del pil in un sistema produttivo in cui la quota asservita all’export si avvicina al 46%, richiederebbe sacrifici paragonabili a quelli imposti alla Grecia, tenendo conto che sono localizzate in Baviera e ad ovest del Reno gran parte delle fabbriche automobilistiche tedesche.
Ordoliberismo ed export-led economy si sono tenuti per mano. E non si può rinunciare a quest’ultima, se non abbandonando il primo. E’ stato reso perfetto un modello sbagliato, perché fondato sullo squilibrio internazionale perpetuo. Per le Riparazioni, Il Trattato di Versailles impose il prelievo di una quota dei proventi dell’export tedesco: per pagare, dovevano vendere all’estero. La Storia ora ci presenta il conto. Tornare indietro sarà davvero difficile.
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Alberto
Il fatto che l’emigrazione abbia superato l’immigrazione non dimostra affatto che quest’ultima non abbia un ruolo di esercito di riserva o comunque non l’abbia avuto: il fatto che i salari non si siano alzati di un euro pur in presenza di una crisi demografica è la dimostrazione di questa tesi e non la sua confutazione. il fatto è che a sinistra si vuole troppo spesso salvare capra e cavoli, mettendo insieme il tentativo di rigore e i feticci in un collage che alla fine risulta sempre fuori prospettiva