Potere al Popolo! ha recentemente lanciato un invito al dibattito ed al confronto sull’Europa, in vista delle elezioni europee del 2019. Accogliamo l’invito e pubblichiamo il nostro terzo contributo sul tema.
Sono passati meno di dieci mesi dalle elezioni politiche del 4 marzo. Apparentemente, questo breve lasso di tempo dovrebbe essere stato più che sufficiente per chiarire una serie di equivoci che, per diverse ragioni, avevano fatto breccia anche in una certa sinistra, o presunta tale: il governo gialloverde non ha – e non ha mai avuto, come si sarebbe potuto desumere dalla lettura del contratto di governo – alcuna intenzione di rompere con la gabbia dell’austerità né di invertire la rotta di politica economica seguita incessantemente dai governi degli ultimi venticinque anni. La capitolazione definitiva sulla legge di bilancio, con la perla di situazionismo rappresentata dal passaggio da un austero deficit al 2,4% del PIL ad un austerissimo 2,04%, è stata solamente l’atto finale della farsa iniziata a fine settembre, quando si prometteva e si celebrava l’abolizione della povertà e al contempo si delineava già una bozza di legge di bilancio che sottraeva risorse all’economia. Una cosa, infatti, deve essere ricordata e ribadita, per fissare adeguatamente le coordinate del discorso: anche nel momento di maggiore (e finta) contrapposizione con le istituzioni europee, con Salvini e Di Maio che, baldanzosi, garantivano che avrebbero sfiorato il 3% e non sarebbero arretrati di un centimetro, ciò che i gialloverdi promettevano erano robuste dosi di austerità e misure inique ed ingiuste. Da allora in poi, ogni successivo aggiustamento fatto alla ‘manovra del popolo’ è stato semplicemente un ulteriore scivolamento lungo una china che era già perfettamente delineata dal principio.
Come dicevamo, questi dieci mesi, in teoria, dovrebbero essere stati sufficienti per svelare la natura antipopolare e misera di questo governo. Basta dare un semplice sguardo al mondo reale, tuttavia, per renderci conto che evidentemente non è così. I sondaggi certificano un consenso praticamente plebiscitario per Lega e 5Stelle. Cosa ancora più importante, l’agenda politica è dettata interamente da queste due forze, ed in particolare dal partito di Salvini. Nulla di tutto questo stupisce, in realtà. Nel momento in cui la principale forza di opposizione insegue il governo sul suo campo privilegiato, utilizzando gli stessi canoni narrativi e gli stessi argomenti beceri, non stupisce che l’elettorato preferisca l’originale e non la brutta copia sbiadita. Contrastare il governo facendosi interpreti dell’ortodossia liberista più cieca ed austera e riproponendo le stesse ricette che hanno portato in tutta Europa ad un decennio di recessione, garantisce all’esecutivo gialloverde, contro ogni evidenza, l’etichetta di forza di cambiamento.
Lega e 5Stelle hanno vinto le elezioni del 4 marzo perché, nel vuoto desolante dell’attuale panorama politico, sono riuscite a presentarsi come realtà politiche di rottura e di alternativa, decise a mettere un punto all’agenda Monti-Letta-Renzi-Gentiloni. Hanno vinto perché sono riuscite ad intercettare la rabbia ed il rancore di un paese con disoccupazione a due cifre, salari stagnanti e precarietà diffusa. Hanno vinto anche perché, in maniera ambigua e certamente in mala fede, sono riuscite ad identificare nella gabbia europea il principale responsabile di tutto ciò. I primi mesi di vita dell’esecutivo hanno messo in chiaro, al di là di ogni possibile dubbio, quanto tutta questa operazione fosse meramente cosmetica, pura propaganda priva di ogni reale volontà di rottura, che ha dato vita all’ennesimo governo solerte esecutore dei compiti a casa che Bruxelles ‘raccomanda’. Un governo che ha dedicato tutte le sue energie ad incanalare contro immigrati e disperati la rabbia ed il rancore che li avevano decretati vincitori a marzo, rabbia e rancore che sono stati neutralizzati attraverso iniziative che non cambiano, neppure marginalmente, il contesto di austerità dal quale sono nati.
A pochi mesi dalle elezioni europee, è esattamente in questo snodo che spetta a ‘noi’ inserirci. In questi giorni, dentro Potere al Popolo, si dibatte sul fatto se abbia senso o meno partecipare alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, ed eventualmente in che forma. Le perplessità e gli scetticismi al riguardo sono comprensibili ed in larga misura, verosimilmente, giusti e ben fondati. Se Potere al Popolo aspira, nel medio periodo, a non rappresentare l’ennesima esperienza meramente testimoniale, che presidia un recinto sempre più piccolo di puri e giusti, è indubbio che le priorità devono e dovranno essere il radicamento, la costruzione di una base sociale e di un ‘popolo’, di una narrazione politica sistematicamente alternativa. L’elettoralismo fine a sé stesso, in tutto questo, non gioca alcun ruolo. È però altrettanto vero che il momento per contendere ai pagliacci gialloverdi lo spazio politico della critica all’austerità di matrice europea è ora, ora che costoro hanno momentaneamente gettato la maschera ed accettato supinamente anche l’ultima virgola dei diktat di Moscovici, Juncker e compagnia cantante. Soprattutto, è ora di articolare una proposta che sappia dimostrare l’incompatibilità dei vincoli europei con il perseguimento di ogni politica progressiva ed emancipatrice. Una forza politica deve esistere, certo, nel radicamento sociale, ma è ‘forza’ nella misura in cui contende il potere, nella misura in cui aspira a prenderne possesso per usarlo: usarlo contro chi sfrutta e in difesa di chi oggi è sfruttato. Saltare un turno in questa precisa fase storica, e proprio sul tema Europa, significa comunicare al nostro costruendo blocco sociale: “noi non siamo (ancora) in grado di difendervi; non siamo ancora pronti a farci carico di una opposizione radicale e popolare ad un sistema economico che ci schiaccia e che, oggi, qui ed ora, si incarna nell’architettura europea”. Significa rinunciare in partenza ad un qualsiasi tentativo di radicamento sociale e sperare che domani non sia troppo tardi, significa garantire a Lega e 5Stelle un altro giro di giostra gratis, sulle spalle nostre e di chi aspiriamo a rappresentare.
Una proposta politica minima si deve articolare intorno a pochi punti chiari ed incontrovertibili: abbattimento della disoccupazione attraverso un intervento diretto dello Stato nell’economia, politiche redistributive a favore dei ceti popolari, nazionalizzazioni dei settori produttivi strategici per lo sviluppo economico e di quelli a forte rilevanza sociale, battaglia senza quartiere alla precarietà nel mercato del lavoro, una Banca Centrale che faccia il suo dovere minimo e protegga gli stati dalla speculazione finanziaria, controlli dei flussi di capitali, salvaguardia dell’ambiente attraverso politiche industriali di riconversione della produzione, aumento della spesa pubblica per infrastrutture, sanità, istruzione e tutti gli altri servizi sociali di base. È possibile ottenere queste cose all’interno del perimetro dei vincoli europei, dal Fiscal Compact in giù? Queste richieste sono compatibili con una Banca Centrale Europea ‘indipendente’, che usa i suoi poteri discrezionali come arma di ricatto per disciplinare chi fa i capricci? Se la risposta fosse sì, il problema di cosa fare con l’Europa non si porrebbe neanche. Se, d’altra parte, la risposta si dimostrerà, per l’ennesima volta, un rotondo no, è necessario dotarsi di un’alternativa, di un piano B per pretendere l’esecuzione di un programma politico di progresso sociale, al riparo dal ricatto dello spread e dei vincoli europei.
Non abbiamo il feticcio dello Stato nazionale. Frontiere, confini e bandiere ci fanno venire l’orticaria e sono semplicemente un altro strumento di cui il capitale si avvale per frammentare e sfruttare al meglio i lavoratori, qualunque sia la loro nazionalità ed il loro colore. Tuttavia, per evitare di fare la fine di Tsipras o dei pagliacci gialloverdi è necessario capire che nessuna trattativa con le istituzioni europee ha possibilità di esito positivo se l’eventualità di una rottura, qualora fosse acclarata l’impossibilità di ottenere altro che le briciole dentro i vincoli europei, è esclusa a priori dal novero delle possibilità. Non a caso, fin dalla firma del contratto di governo, Lega e 5Stelle si sono impegnati a dichiarare la propria fedeltà incondizionata all’attuale architettura istituzionale europea, legandosi in partenza le mani e rinunciando da subito ad attuare anche la più piccola discontinuità con i governi che li hanno preceduti. È proprio su questa faglia, invece, che si deve innestare una proposta politica realmente alternativa rispetto al macello sociale degli ultimi decenni.
Potere al Popolo deve avere l’ambizione di affermarsi come una forza politica che rappresenti una radicale alternativa rispetto al modello economico-sociale dominante, una forza che imponga la lucida presa d’atto della natura dei vincoli europei, che devono essere smontati uno ad uno perché i diritti dei lavoratori e lo stato sociale possano essere difesi e ampliati. Per queste ragioni, Potere al Popolo può e deve sfruttare l’appuntamento delle elezioni europee per offrire l’alternativa al fallimento dei gialloverdi, per proporre a chi soffre la crisi e l’instabilità sociale inflitte dall’austerità un progetto politico di reale emancipazione e progresso, un progetto che passa per la rottura della gabbia europea. Alle elezioni europee, in altri termini, bisognerà dire forte e chiaro, senza ambiguità, che un lavoro stabile, un salario decente, una vita dignitosa sono incompatibili con questa Unione Europea e con le politiche economiche iscritte nel suo DNA. Soltanto in questo modo Potere al Popolo eviterà di costituire l’ennesimo cartello elettorale sedicente ‘di sinistra’ e potrà proporsi come una forza che sia effettivamente di rottura rispetto alla situazione attuale di povertà, disuguaglianze, precarietà e sfruttamento.
A questo link è possibile scaricare un unico file PDF che riporta i nostri tre contributi.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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