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Morire prima o lavorare più a lungo. Ce lo chiede il “Sistema”

C’è della perversione travestita da oggettività nella campagna che il quotidiano della Confindustria, il Sole 24 Ore, sta conducendo per allungare l’età pensionabile e, di fatto, ridurre soprattutto “l’età retribuibile” tramite le pensioni.

Il problema infatti sembra proprio questo, cioè ridurre al minimo il periodo nel quale lavoratrici e lavoratori possono vivere e recuperare quanto hanno versato in contributi durante la loro vita lavorativa. Ne abbiamo parlato spesso sul nostro giornale sintetizzandolo in quel “dovete morire prima” che, purtroppo, somiglia sempre meno ad una battuta.

Ne avevamo avuto la chiara percezione sbirciando un rapporto del Fmi alcuni anni fa (quel Fmi che Junker ha definito come il “kattivone”) e vedendo, materialmente, come si stava procedendo sul piano delle controriforme dei sistemi previdenziali imposte dalle misure di austerity all’Italia e ad altri paesi europei della “cintura debole”, i Pigs. In Grecia sta già accadendo, nella Russia post sovietica degli anni Novanta è accaduto.

In occasione della discussione su “quota 100” (per pochi e per poco come abbiamo scritto nei giorni scorsi), il Sole 24 Ore e i suoi mandanti hanno avviato una campagna di articoli tutti tesi a modificare il sistema pensionistico allungando l’età pensionabile. Hanno addirittura rispolverato Luigi Einaudi che già negli anni ‘50 (con una aspettativa di vita decisamente più bassa di oggi) riteneva che di dovesse lavorare fino a settanta anni. C’era tutta la perversione del liberista in quella tesi, e avrebbe prevalso se non ci fosse stata l’opposizione del Pci e del movimento operaio e forse, o anche soprattutto, la “minaccia sovietica” che costringeva anche i liberisti più disinibiti a più miti consigli per mantenere la coesione sociale e non offrire argomenti all’avversario strategico.

Ma dagli anni Novanta in poi questi freni inibitori sono saltati tutti. Lo stesso processo di edificazione dell’Unione Europea basata sul Trattato di Maastricht, poi su quello di Lisbona ed infine sulla raffica di trattati imposti dal 2010 approfittando della crisi (Two Pack, Six Pack, Fiscal Compact, Mse, etc.), ha creato una gabbia di vincoli e di automatismi che utilizza come una clava l’oggettività dei numeri per tirarne conseguenze che tutto hanno come obiettivo tranne il benessere della popolazione o la riduzione delle disuguaglianze sociali tornate a livelli ottocenteschi.

Se si continua a rimanere dentro gabbia e ai suoi automatismi, appare sempre più evidente che il destino che attende milioni di persone, quelle che vivono del proprio lavoro o peggio ancora di precarietà e disoccupazione, è una vita più breve e una vecchiaia più misera.

Il Sole 24 Ore scrive che secondo le previsioni governative, con “Quota 100”! andranno in pensione circa 300mila italiani con 62 anni, “forse vale la pena tornare a guardare qualche indicatore demografico… Ebbene solo negli ultimi 15 anni la speranza di vita a 65 anni è aumentata di due, da 18 anni e 7 mesi a 20 e 6 mesi. L’età media della popolazione, sempre tra il 2003 e il 2018, è aumentata di oltre tre anni, da 41 e nove mesi a 45 e due mesi”. Ovvio quindi che se si sposta l’età pensionabile a 70 anni, dal sistema si risparmiano quelle risorse che poi possono essere destinate alle banche, alle imprese e alle spese militari.

Di fronte a questi dati che indicano un miglioramento delle aspettative di vita della popolazione (ma che i dati più recenti proprio sulla mortalità crescente si stanno incaricando di smentire), attraverso l’elaborazione dei numeri di Infodata, a quale sintesi di cinismo arriva il Sole 24 Ore? Eccola qua: “Il rosario potrebbe continuare ed è tutto positivo, se lo si legge guardando alla vita che si allunga. Oppure negativo, se lo si legge dal punto di vista di chi paga. Ecco, chi paga? Lo Stato ci mette molto, naturalmente, il che significa prenotare un maggior carico fiscale in futuro (già oggi il disavanzo previdenziale pro capite è di 1.300 euro). Ma consideriamo i “produttori” cioè i residenti in età lavorativa che (sempre ammesso che lavorino tutti) pagano con i loro contributi le pensioni dei loro predecessori. Ebbene: nel 2003 i 15-64enni erano il 67% della popolazione, oggi sono il 64%, ogni 100 persone nel 2002 si contavano 27,9 anziani contro i 35,2 di oggi. Bello vero? Siamo uno dei paesi più vecchi e longevi del mondo, si sa. La mini-bussola interpretativa per valutare quanto sia equa e sostenibile, dal punto di vista intergenerazionale, “quota 100”, si ferma qui. Correndo con il cursore sulle grafiche potete completare la ricognizione logica anche da soli. Buon viaggio”.

Inutile dire che i grafici de Il Sole 24 Ore portano tutti nella stessa direzione e alla stessa conclusione: la retribuzione delle lavoratrici e dei lavoratori che vanno in pensione dura troppo a lungo, dunque la salute e la longevità delle persone sono un costo non sostenibile.

Non hanno ancora il coraggio di dire: dovete morire prima perdio!! Ma vorrebbero arrivarci, come in romanzo distopico. Quello in cui i ricchi si possono rigenerare sul pianeta-satellite Elisium e gli anziani poveri devono recarsi nella stanza dedicata per togliersi di torno quando lo decide il sistema.

Capite perché si deve combattere e vincere per la nostra classe? Sta diventando una questione di sopravvivenza o di “morte tra tutte le classi in lotta”, proprio come anticipava Marx tanti, tanti anni fa.

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3 Commenti


  • Angelo

    Lo Stato ci mette molto, naturalmente, il che significa prenotare un maggior carico fiscale in futuro (già oggi il disavanzo previdenziale pro capite è di 1.300 euro).
    Ma quand’è che la finiamo con questa burletta. E le migliaia e centinaia di migliaia di miliardi di euro pagati dai lavoratori allo stato in questi ultimi settant’anni, quando la forbice delle pensioni (quanto versato con i contributi e quanto restituito in pensioni erogate) era tutto a macroscopico vantaggio dello stato.
    Pare che la memoria sia inesistente, e che i libri mastri di quanto dato e di quanto avuto, vengano regolarmente bruciati ogni dieci anni.
    La pensione è parte del salario (come quello diretto dello stipendio e quello differito della liquidazione), e quindi è un diritto dei lavoratori e non una gentile concessione dello stato.


  • Giordano Bruno

    Compagno Cararo, con questa citazione fantascientifica mi hai sorpreso. La figura in alto è però di Non è un paese per vecchi. Forse il film che il capitalismo ha in mente è il peggio di tutte queste trame.
    Tornando sull’articolo, aggiungo alle considerazioni da fare un piccolo spunto: la vita media potrebbe anche allungarsi e la medicina fare passi da gigante, ma la qualità di quella vita che ci rimane in tarda età è tutto fuorché adatta a certo sfruttamento a cui ci costringono per andare in pensione.


  • Elisabetta Gueli

    Non sono brava in matematica, ma due conti li so fare.
    Dunque, un lavoratore versa contributi per quarant’anni, poi va in pensione a 67. Supponiamo che viva fino ad 83 anni, percepirà la pensione per sedici anni. A fronte di quarant’ anni di versamenti! Ed il surplus di ben ventiquattro anni resta all’INPS. Senza contare tutti coloro che muoiono due-tre anni dopo l’ingresso in pensione, oppure sei o sette anni dopo, e non lasciano né coniugi né figli minori a cui versare la reversibilità. In quel caso il guadagno dell’INPS è totale. Ed io ne ho conosciuti diversi.
    I miei genitori versarono per quarant’anni e percepirono per ventisei, essendosi ritirati a sessanta, con un saldo positivo per l’INPS di circa quattordici anni.
    Ma non sarà che la crisi nel sistema è causata dagli stipendi stratosferici dei dirigenti INPS, e da tutti quei privilegiati che percepiscono 35.000, 50.000, 90.000 euro al mese?

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