Mentre il clamore si concentra su elezioni e umori, il capitale vero – quello multinazionale – non dorme mai…
Da tempo il fumo usciva dai piani alti della Fca ex Fiat, segnata dalla morte di colui che l’aveva salvata dalla morte e condotta alla conquista dell’America. O meglio, a esser conquistata da un partner statunitense messo ancora peggio e resuscitato solo dai finanziamenti governativi garantiti da Barack Obama (anche se sotto la forma del prestito da restituire, e restituito; lassù sui soldi pubblici non si scherza come in Italia, dove Fiat ha scavato negli anni fosse molto più profonde di tutti in tangentisti messi insieme).
Al fumo è seguito il più scontato degli arrosti: una proposta di fusione cone Renault, al 50%. Sembra un gioco partitario, ma non può esserlo. Con tutti i problemi sorti o venuti al pettine con l’arresto in Giappone di Carlos Ghosn, ex amministratore delegato con fama di mago, Renault è infatti già partner di un’alleanza mondiale con Nissan e Mitsubishi.
Dunque la fusione fifty-fifty sarebbe soltanto sul lato europeo della triangolazione, mentre l’addentellato americano e quelli nipponici vanno a delineare un player globale “occidentale”, contrapposto in primo luogo ai rampanti produttori cinesi. Né si può far finta di non sapere che il gruppo francese ha come primo azionista – non “di controllo” nel senso usuale, ma sicuramente sì dal punto di vista politico e nazionalistico – proprio lo Stato.
Certamente il gruppo nascente – se nascerà – può coprire tutti i segmenti di mercato, dalle city car al lusso (Fca si porta dietro Ferrari e Maserati), con uno sguardo sulle auto elettriche meno distante di quello fin qui tenuto dalla sola Fiat.
E proprio il passaggio dell’intero settore auto alla trazione elettrica sembra alla base del furioso moltiplicarsi di ipotesi di fusione che attraversano tutto il pianeta come risposta ad una crisi ormai prossima dei modelli tradizionali (motori a combustione). Pochi giorni fa, per esempio, Ford ha annunciato un taglio da 7.000 dipendenti (il 10% del totale), svelando l’inconsistenza della strategia immaginata da Trump per riportare il lavoro negli States.
DI sicuro, il tentativo Fca si propone come un deciso passo in direzione della “costruzione dei campioni europei”, ossia di colossi multinazionali con il “cuore” inserito in un sistema economico-politico altamente competitivo verso l’esterno e sempre più concentrato – tendenzialmente monopolistico – all’interno. Con buona pace della concorrenza e delle regole antitrust (di cui non a caso le varie Confindustria continentali chiedono l’abrogazione, insieme alla legalizzazione degli “aiuti di Stato” alle imprese; e solo a loro, sia chiaro…).
Gli investimenti necessari per la riconversione del settore dalla trazione a idrocarburi verso quella ad “energie alternative” sono del resto fuori dimensione per qualsiasi “campioncino nazionale”. A meno di non essere, per l’appunto, cinesi…
Ed anche i tagli occupazionali giganteschi derivanti dall’incrocio tra eliminazione delle “sovrapposizioni merceologiche” (Fca e Renault, per capirci, hanno modelli concorrenti praticamente in ogni segmento di massa, da Panda-Twingo fino ai modelli top e soprattutto nel “segmento C”) e sviluppo dell’automazione sulle linee di montaggio, potranno essere affrontati soltanto da un “governo europeo”.
Ovviamente gli amministratori di Fca si sono preoccupati di “garantire” che resteranno aperti tutti gli stabilimenti italiani e che non ci saranno ricadute occupazionali negative… Le stesse cose dette a suo tempo dal maestro Sergio Marchionne su Pomgliano, Mirafiori o Termini Imerese.
Sappiamo tutti com’è andata poi e come sta andando ora.
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