La contabilità non è una scienza esatta. Ne sapevano qualcosa i piccoli commercianti dei paesi di montagna, ai quali toccava percorrere strade innevate per consegnare il libro dei corrispettivi a giovani quarantenni, diplomati ragionieri, e assunti a progetto presso lussuosi studi di Commercialisti & Associati, studi situati perlopiù nei capoluoghi.
L’obbligo della tenuta dei registri, di per sé, non era il peggiore dei mali. Ancor peggiore era la consapevolezza di essere dei franchising dell’Agenzia delle entrate, e che le tasse fossero una sorta di royalty. Barbieri e Fioraie riscuotevano dai clienti l’imposta sul valore aggiunto e la versavano trimestralmente all’erario, con l’aggravio dell’1% di interesse, per aver iscritto a bilancio una passività verso lo Stato.
Infine, questo stesso valore doveva essere diminuito di un’ulteriore fetta, la quale, tra le alte cose, andava a ripagare i consistenti costi della catena del valore, tanto che se l’erario avesse deciso di accorciarla di qualche maglia, non riscuotendo il dovuto, ci sarebbe stato un guadagno per tutti, fuorché per gli impiegati delle agenzie governative.
L’idea che con un qualche espediente tecnologico si potesse ridurre la catena del valore venne in mente oltre 500 anni fa ai banchieri fiorenti, i quali, con l’introduzione della cambiale e della scrittura contabile, esentarono i mercanti dai costi connessi alla spedizione del contante presso fornitori fuori piazza. La compensazione mensile o annuale di debiti e crediti segnò l’inizio della fine dell’assalto alla diligenza.
Ancora oggi l’Istat considera il valore aggiunto, e dunque il PIL, come differenza tra costi e ricavi. Ridurre i costi (compreso il costo del lavoro) è una della due sole possibilità per incrementare il valore aggiunto. In questa direzione si è mosso la Stato quando ha deciso di introdurre lo scontrino elettronico.
L’introduzione dei corrispettivi elettronici, si legge sul sito dell’Agenzia delle Entrate, comporta semplificazioni e vantaggi per gli operatori economici. Per esempio, non occorrerà più tenere il registro dei corrispettivi. La memorizzazione elettronica e la trasmissione telematica dei dati sostituiscono infatti gli obblighi di registrazione delle operazioni effettuate in ciascun giorno. Inoltre, non sarà più necessaria la conservazione delle copie dei documenti commerciali rilasciati ai clienti, con conseguente riduzione dei costi e vantaggi operativi.
Questo sistema, si legge, consentirà all’Agenzia delle entrate di acquisire tempestivamente e correttamente i dati fiscali delle operazioni per metterli a disposizione – mediante servizi gratuiti – degli stessi operatori Iva o dei loro intermediari, supportandoli nella compilazione della dichiarazione Iva e nella liquidazione dell’imposta.
Questi nuovi strumenti, uniti alla compensazione orizzontale (e non più solo verticale) dei crediti di imposta; uniti al sistemi di Intercambio (SDI) per l’invio della fattura elettronica, al Sister, che permette lo scambio automatico di informazioni tra il Sistema Informativo Catastale Nazionale, limitando al massimo l’intervento umano; uniti al Siatel, a Entratel, al SIDI, al sistema FiscoOnline, con il quale, dice l’Agenzia, si può dichiarare, versare, registrare, consultare, calcolare, addebitare in automatico con Iban, eccetera.
Questi nuovi strumenti, dicevo, permettono allo Stato di iniziare per davvero a funzionare come un’infrastruttura, e ai funzionari pubblici di assumere la posizione che gli compete, di vera classe media, di vero corpo intermedio, di vera Union, la quale unisce gli interessi sparpagliati della società civile con quelli del Sovrano, e allo Stato di trasformarsi da gendarme che si occupa di proprietà, contratto, illecito e pena, come vorrebbe una moda giustizialista, a vero corpo della Nazione.
Ogni aumento della produttività si traduce in un risparmio di lavoro. Tutti i piccoli ragionieri e data entry e funzionari di sportello, man mano saranno dichiarati obsoleti, inefficienti, inutili. E questo è un bene, non si discute. Ogni risparmio di lavoro è un bene. Ciò che invece è in discussione è come questo bene, questa ricchezza conquistata dai lavoratori, debba essere distribuita.
Non è assolutamente ammissibile far credere che il lavoro in eccesso, trascorso un lasso di tempo ragionevole, verrà riassorbito in nuovi settori. È passato mezzo secolo dalla fine del Trentennio glorioso, e siamo tutti qui, inoccupati, disoccupati, part-time involontari, inattivi, eccetera. L’unica differenza è che non facciamo più la coda all’Inps o all’Afol, ma inviamo le domande con un click.
Non è assolutamente ammissibile che una parte della forza-lavoro si veda allungare l’orario, mentre un’altra parte la si invii a elemosinare la Naspi o l’RdC, facendola passare come parassita della prima, e creando un’artificiale, quanto immotivata, conflittualità.
Non deve assolutamente suonare più come contraria al calcolo economico, la proposta del Sindacato per la redistribuzione della ricchezza creata dall’aumento della produttività, mediante una Redistribuzione Universale del Lavoro Necessario, dunque, mediante una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro.
* da http://www.coku.it/
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