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L’economia del virus e il virus dell’economia

La pandemia di Coronavirus può essere considerata una conseguenza delle contraddizioni del capitalismo[1]; inoltre, essa genera, a sua volta, ulteriori contraddizioni[2].

Da un lato, la cosiddetta globalizzazione, ovvero la competizione tra imperialismi con la circolazione sempre più veloce e caotica di capitali e di merci (vedi Figura 1), costringe i diversi capitalismi regionali e gli Stati in essi inseriti ad indebolire le proprie reti di sicurezza sociale per meglio competere a livello internazionale[3].

Una delle conseguenze principali di queste azioni di smantellamento dei sistemi di Welfare è certamente ravvisabile nel trend registrato da indicatori quali la disponibilità di posti letto (si veda, per la tendenza italiana degli ultimi decenni, la Figura 2), strutture ospedaliere (Figura 3), reparti di terapia intensiva (Figura 4).

Dall’altro lato, la circolazione vorticosa di merci e persone favorisce la diffusione di epidemie che diventano, più facilmente ed in tempo più breve, pandemie che esigerebbero, a loro volta, per essere combattute, reti di protezione sociale più forte. Questi fenomeni producono situazioni caotiche e, al tempo stesso, di potenziale recessione economica, che costringono i governi a scelte drastiche.

Come si è detto, l’azione dei governi non è tesa immediatamente (se non in modo lieve) a salvaguardare la salute dei cittadini, quanto piuttosto a rallentare il contagio e a permettere ad un sistema sanitario indebolito dall’attacco allo Stato Sociale di gestire la crisi in un arco di tempo più lungo (secondo una strategia di ritardo del fenomeno) e, indirettamente di salvaguardare la salute dei cittadini nel medio periodo grazie a questa tenuta (oltre a garantire l’ordine pubblico che la percezione di un sistema sanitario che non assicuri bisogni primari potrebbe compromettere)[4].

Figura 1: Serie Storica delle esportazioni a livello mondiale
(prezzi costanti, indicizzati al 1913, per cui si assume un valore pari a 100)

(Fonte: Federico & Tena-Junguito, 2018)

 

Figura 2: Posti Letto per 100,000 abitanti, Italia.

(Fonte: Trading Economics su dati OECD, 2020)

Figura 3: Ospedali per milione di abitanti, Italia.

(Fonte: Trading Economics su dati OECD, 2020)

Figura 4: Posti letto in terapia intensiva per 100,000 abitanti, Unione Europea.

(Fonte: Corriere della Sera su dati OMS, 2020)

Queste circostanze, tuttavia, scatenano un’altra contraddizione. Le strategie di rallentamento di un virus per il quale non c’è vaccino prevedono, infatti, la tendenziale paralisi dei processi relazionali e produttivi, con conseguenze letali per la circolazione di merci e servizi e per la crescita economica su cui la funzione parassitaria del profitto si posa.

In una analisi diffusa dal Centro Studi Cerved nei giorni scorsi[5], si stima che, in uno scenario pessimistico, il 10.4% delle imprese italiane (un tasso doppio del normale) rischierebbe il fallimento a causa degli effetti dell’emergenza sanitaria, stimando i settori produttivi maggiormente colpiti (Figura 5), e quelli che potrebbero trarre vantaggio dalla situazione.

Lo studio si basa sui dati di 750 mila imprese italiane, elaborati e integrati con i modelli statistici e econometrici; Cerved arriva a mettere nero su bianco possibili perdite di fatturato aggregate in un intervallo che spazia dai 275 (nello scenario ottimistico) ai 641 miliardi di euro (in quello pessimistico, con una emergenza prolungata oltre l’estate).

In una economia di mercato, tale paralisi produce, ovviamente, effetti nefasti anche per le classi popolari. Le imprese, soprattutto in presenza di legislazioni favorevoli, prendono a ridurre le turnazioni o, addirittura, a licenziare; si blocca, dunque, anche l’erogazione di salari per i lavoratori. Come dimostra la Figura 6 (che riporta l’aumento improvviso e clamoroso di richieste di sussidio di disoccupazione negli USA in coincidenza con il divampare della crisi sanitaria), ciò si traduce in ulteriore pressione sui già traballanti sistemi di welfare. *

Per questo motivo, la strategia di rallentamento del virus non viene coerentemente portata avanti in quanto si deve contemperare con la strategia opposta (provare, fin quando possibile, a non interrompere la produzione, al fine di non incorrere in una recessione). Il risultato consiste in una gamma di opzioni intermedie sperimentate dai singoli Stati che rischiano di non essere né carne e né pesce, e di non riuscire ad evitare né il disastro sanitario né la recessione.

Figura 5: Stime degli impatti economici dell’emergenza sanitaria.
(fonte: Cerved per La Repubblica)

Figura 6: Richieste di sussidio di disoccupazione negli USA (fonte: Associated Press)

In Italia non è stato raggiunto un risultato ottimale, con conseguenze disastrose dal punto di vista sanitario per la regione più industrializzata (la Lombardia). Gli effetti delle misure per le altre regioni non sono ancora prevedibili. In attesa di un vaccino o di protocolli terapeutici avanzati, si punta dunque a distribuire il contagio su un orizzonte temporale più lungo, nel quale provare a minimizzare le probabilità del contagio stesso e massimizzare quelle di cura e di sopravvivenza[6].  I morti, invece, dalla tragedia di oggi passeranno alla statistica di domani.

Come anticipato, tuttavia, i provvedimenti che favoriscono il rallentamento del contagio, seppur parziali, rischiano di avere conseguenze economiche rilevanti. Si va dall’aumento della disoccupazione[7] (generata da fallimenti o ridimensionamenti aziendali) e alla contestuale flessione della domanda aggregata, al rischio di strozzature dell’offerta (a seguito della rottura di circuiti economici che i fragili equilibri di mercato cercavano di garantire ma che sono praticamente impossibilitati a ricostituire)[8].

Da un lato, perciò, ci si chiede come lo Stato possa intervenire finanziariamente per supplire alla paventata caduta della domanda[9]. Dall’altro, ci si domanda quale sia il possibile intervento dello Stato per evitare le strozzature dell’offerta. Sia nel primo che nel secondo caso si pone all’ordine del giorno la questione della pianificazione economica[10].

Soprattutto nel secondo, tale questione è più stringente e comporta non più una programmazione fatta con strumenti finanziari (maggiori prelievi, maggiori investimenti) ma una elaborazione dettagliata che stabilisca criteri più raffinati di distinzione tra produzioni che possono essere sospese, produzioni che possono essere “rallentate” e produzioni che vanno assicurate comunque.

A questo proposito, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 22 Marzo, che ha disposto la chiusura delle attività produttive “non essenziali” ha costituito, a questo punto dell’emergenza, un atto dovuto. Un passo necessario, per ascoltare il grido di dolore e d’accusa di una classe operaia che, grazie alla crisi che stiamo vivendo, ha drammaticamente riacquistato centralità.

Le fabbriche, che, nelle ultime settimane, hanno comunque lavorato a pieno ritmo e nelle condizioni solite, possono infatti essere pericolosi focolai; gli stabilimenti industriali generano inoltre flussi logistici complessi che contribuiscono a rendere parziali ed inefficaci anche le misure “draconiane” imposte nelle scorse settimane[11].

E, qualora la piccola ed auspicata inversione di tendenza sul dato dei contagi giornalieri dovesse confermarsi nei prossimi giorni, il blocco della produzione potrebbe effettivamente rivelarsi una misura utile a mettere in campo lo sforzo massimo per domare la tigre.

Quel che desta qualche preoccupazione, tuttavia, è la possibilità di adottare misure chirurgiche in un contesto economico nel quale i governi (come quello italiano) hanno rinunciato, da decenni, ad ogni funzione di programmazione e pianificazione di dettaglio. Una rinuncia che, qualora lo stop dovesse prolungarsi oltre l’orizzonte inizialmente ipotizzato, potrebbe rivelarsi problematica.

Chi decide quali siano le produzioni essenziali? Abbiamo una piena visibilità delle filiere produttive che concorrono alle produzioni essenziali? Quale sarà l’impatto della pausa imposta alle produzioni non essenziali sulle filiere che concorrono al soddisfacimento dei nostri bisogni primari quotidiani?

Domande cui sarebbe sicuramente più facile dare risposta in una logica di piano, che potrebbe consentirci di definire pause ottimali, turnazioni, rotazioni (come avvenuto nel caso Cinese). Domande che, nell’attuale scenario, corrispondono invece a problemi di grandissima complessità.

Sul tema della identificazione delle filiere produttive fondamentali, il bel contributo di Matteo Gaddi e Nadia Garbellini[12], prova, a partire dalle tavole Input-Output[13], a identificare dei flussi di fornitura indispensabili necessari al funzionamento minimo dell’economia.

Un peccato che oggi, pur avendo a disposizione grosse potenze di calcolo, e modellistiche avanzate, il massimo livello di dettaglio su cui si possa lavorare è quello di matrici che procedono per grosse aggregazioni settoriali, e difficilmente consentono di avere una mappatura delle filiere al di là dei rapporti diretti di fornitura. Un moderno approccio alla pianificazione della produzione dovrebbe partire proprio da una mappatura di dettaglio dei flussi, che ci consenta di avere piena visibilità delle filiere. Dettagli che gli attori pubblici hanno rinunciato, da tempo, a registrare, avendo, di fatto, abdicato ad ogni funzione di programmazione economica.

Il rischio di una economia capitalistica è quello, a questo punto, di non riuscire ad affrontare emergenze come la pandemia attuale e, in mancanza di una logica della pianificazione, di intervenire in modo indiscriminato o distorto producendo effetti collaterali altrettanto catastrofici rispetto a quelli sanitari provocati dalla pandemia. Abbiamo quindi:

  • Una contraddizione capitalistica alla base di questa pandemia (una globalizzazione che indebolisce i sistemi sanitari ma ne esige al tempo stesso il rafforzamento);

  • Una contraddizione capitalistica nei dilemmi sollevati dalla pandemia (salvare un sistema sanitario debole o un’economia altrettanto debole).

  • Una contraddizione capitalistica nei rimedi approntati per contenere la pandemia (esigere una capacità di distinzione delle attività produttive per la quale manca la logica che permette l’utilizzo degli strumenti più adeguati).

Queste contraddizioni, a seguito delle implicazioni gravi che comportano, costringono i Comunisti a serrare l’analisi relativamente alla possibilità futura di una rottura rivoluzionaria e degli strumenti per gestire con costi il più possibile ridotti la transizione ad un diverso modo di produzione.

.

 * Tra il momento della scrittura di questo articolo e quello della pubblicazione, è arrivato ieri sera il dato aggiornato sulle richieste di sussidio di disoccupazione per la settimana appena conclusa. La cifra è agghiacciante: 6,6 milioni. Sommati a quelli della settimana precedente (e citati anche nel grafico) circa 10 milioni di lavoratori Usa sono stati licenziati nell’arco di soli 15 giorni. A questi, ricordiamo, vanno aggiunti i circa 100 milioni di “scoraggiati” che le statistiche utilizzati per definire il “tasso di disoccupazione” ufficiale neppure più considerano.

[1] https://contropiano.org/fattore-k/2020/03/13/coronavirus-e-crisi-di-sistema-0125181

[2] https://contropiano.org/documenti/2020/03/24/la-fine-del-neoliberismo-0125751

[3] http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=698

[4] https://www.sinistrainrete.info/societa/17244-italo-nobile-paradossi-e-tragedie-del-coronavirus.html

[5]https://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2020/03/16/news/l_impatto_del_coronavirus_sull_italia_spa_possibile_un_danno_da_641_miliardi-251367463/

[6] https://contropiano.org/documenti/2020/03/04/coronavirus-cominciamo-a-capirci-qualcosa-0124791

[7] https://www.youtube.com/watch?v=O4iRtFwHtJc

[8] https://www.youtube.com/watch?v=gYg-qCEbvzI&t=429s

[9] https://www.youtube.com/watch?v=sJtIjJ4AMjU

[10]https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-emiliano_brancaccio_e_una_crisi_diversa_dalle_altre_keynes_non_basta_serve_una_logica_di_piano/33683_33763/

[11] https://contropiano.org/news/politica-news/2020/03/20/fabbriche-aperte-parchi-chiusi-lipocrisia-borghese-nella-crisi-sanitaria-0125594

[12] http://www.fondazionesabattini.it/download/915

[13] https://www.istat.it/it/archivio/225665

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1 Commento


  • michele Castaldo

    Si, le conclusioni di questo articolo rendono merito a quello che abbiamo sotto gli occhi: la possibilità di una crisi catastrofica e la messa in discussione dell’attuale modo di produzione.
    «Queste contraddizioni, a seguito delle implicazioni gravi che comportano, costringono i Comunisti a serrare l’analisi relativamente alla possibilità futura di una rottura rivoluzionaria e degli strumenti per gestire con costi il più possibile ridotti la transizione ad un diverso modo di produzione».
    Ora, indipendentemente da quelle che possono essere le molteplici voci di sinistra o della sinistra siamo chiamati a misurarci con uno scenario al quale non pensavamo. Si tratta di rintracciare linee di tendenze e rafforzare quella che più di ogni altre rafforza la critica al modo di produzione capitalistico,più che proporre programmi che si riferiscono al nostro passato. Il futuro mai come adesso ci può sorridere.
    Michele Castaldo

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