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Petrolio. L’oro nero è diventato un “cigno nero”

La guerra mondiale del petrolio è una delle prime conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria dovute alla contrazione dei consumi, prima in Cina, poi dappertutto. La Repubblica Popolare negli ultimi dieci anni circa ha visto aumentare la quota di greggio consumata dalla propria economia dal 9% nel 2008 al 13,7% nel 2019 del consumo mondiale.

È saltata la  governance allargata delle relazioni tra i maggiori produttori petroliferi, come si era configurata con l’accordo tra Arabia Saudita e Russia di circa tre anni fa, con l’avvio dell’OPEC PLUS e l’allargamento di fatto dello storico cartello petrolifero.

L’abbassamento drastico del prezzo sta avendo pesanti ricadute sia sugli attori “più deboli”, dipendenti prevalentemente dalle fortune del mercato petrolifero, messi a dura prova anche dallo stress test pandemico: Algeria e Nigeria per l’Africa, Messico e Venezuela per l’America Latina, Iran ed Iraq per il Medio-Oriente e diversi staterelli del Golfo.

La dinamica ribassista ha aggravato il crollo delle maggiori piazze borsistiche e rischia di trascinare con il suo effetto domino tutta la finanza statunitense, visto che una quota consistente di azioni collegate allo scisto americano è ormai considerata “spazzatura” dalle maggiori agenzie di rating.

Questa dinamica rischia di invertire il trend affermatosi nel 2018, che aveva fatto diventare gli Stati Uniti il maggiore produttore di oro nero al mondo, fino a raggiungere recentemente  circa 13 milioni di barili al giorno.

Viene minata l’indipendenza energetica e il profilo di “esportatore netto” confermato con la prima tranche d’accordi con la Cina, dopo una lunga e logorante guerra dei dazi che ha preceduto di poco l’epidemia.

Conscia di tale pericolo, la lobby petrolifera degli Gli Stati Uniti ha fatto pressione sull’attuale amministrazione che non ha predisposto nessuna misura particolare per l’oil and gas nel suo pacchetto da 2 mila miliardi di dollari per il “salvataggio” dell’economia

Mike Pence, a latere del G20 tenutosi la scorsa settimana, ha fatto pressione sul principe saudita Mohammed Bin Salman – di fatto a capo del Regno – affinché colga l’attimo (“rise the occasion”) e stabilizzi i prezzi dell’oro nero.

Il falco dell’amministrazione Trump gli ha di fatto chiesto di fare marcia indietro rispetto alla sfida lanciata alla Russia, con il drastico abbassamento del prezzo e il contemporaneo aumento esponenziale della produzione per inondare i mercati – già in contrazione – con il greggio saudita.

Ad oggi non è chiaro se tale opera di convincimento sortirà degli effetti positivi; gli esperti sono profondamente divisi rispetto alla politica che attueranno i sauditi.

Quello che è chiaro che rapporti tra i due storici alleati si complicano.

Il proseguire di questa politica da parte dell’Arabia Saudita potrebbe ulteriormente far precipitare la situazione o, come ha dichiarato il direttore dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Faith Birol al settimanale francese “les Echos”: «i cittadini del mondo si ricorderanno che le grandi potenze che avevano il potere di stabilizzare l’economia di numerosi paesi in un periodo di pandemia senza precedenti hanno deciso di non esercitarlo. La storia li giudicherà».

Il conflitto tra USA e Russia sul fronte degli idrocarburi si era articolato in questi anni con lo scontro sull’oleodotto Nord-Stream 2 e i rapporti con il Venezuela.

La posizione di relativa forza della Russia ora è data dal fatto che il Paese si era avvantaggiato del pregresso accordo con l’Arabia Saudita – che aveva portato ad un innalzamento del prezzo del greggio contestuale al taglio concordato delle quote di produzione – per alimentare un proprio fondo sovrano che ammonta ora a 150 miliardi di dollari.

Un tesoretto in riserve valutarie estere che potrebbe permettergli di reggere a “dieci anni” con il prezzo attuale, svalutando il rublo e forse costringendo ad una ridimensionamento dei “progetti nazionali” di Putin. Gli idrocarburi infatti costituiscono ancora circa il 40% del budget russo.

Anche recentemente la Russia ha ribadito, nel picco dello scontro USA-Venezuela, il proprio appoggio a Maduro.

Rosneft ha terminato le proprie operazioni e ha venduto direttamente al Cremlino asset delle compartecipate venezuelane in joint venture con la PDVSA (Petromagas, Petromiranda, Petroperija, Boqueron, Petrovictoria), per “sterilizzare” le possibili sanzioni statunitensi e rassicurare i propri maggiori azionisti di minoranza, come la BP ed il Fondo Sovrano del Qatar.

Con questa mossa ha ribadito supporto al governo venezuelano e tutelato anche i propri asset, considerando le grandi potenzialità di queste aziende in Venezuela.

La Russia ha di fatto ostacolato la guerra sporca che Washington sta facendo contro la rivoluzione bolivariana.

Dal canto suo l’Arabia Saudita gode di una notevole quantità di riserve monetarie (Riyadh dispone di un fondo di più di 500 miliardi di dollari) ed ha varato un pacchetto di misure per fronteggiare le conseguenze del Covid-19, raddoppiando il proprio debito (circa il 50% del PIL), senza però liquidare  alcun asset né attingere alle proprie riserve monetarie.

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Venerdì 27 marzo il prezzo del petrolio era 22,8 dollari al barile (20,8 euro), contro i 68 di inizio gennaio.

Se si vuole avere una idea del gap tra il prezzo attuale e il picco degli ultimi anni bisogna ricordare che il 24 luglio del 2014 era di 113,2 dollari al barile. E nel 2007, al momento dell’esplosione della crisi dei subprime, aveva raggiunto i 147.

La guerra dei prezzi scatenata dall’Arabia Saudita dopo il fallimento del vertice OPEC PLUS, a marzo, con la non accettazione dei tagli alla produzione che il regno saudita voleva imporre alla Russia, è stata una delle ragioni del precipitare dei mercati finanziari.

Le azioni delle aziende del settore energetico negli Stati Uniti sono calati del 20%.

Se si tiene conto dell’alto indebitamento delle compagnie legate al petrolio ed al gas di scisto, e alle pesanti conseguenze per la loro filiere, in alcuni degli Stati dell’Unione (Texas, Nord Dakota e Pennsylvania), la situazione appare in tutta la sua criticità.

Titoli legati allo shale e i veicoli finanziari collegati ai mutui ipotecari – gli MBS – sono infatti il tallone d’Achille della finanza USA.

Diamo un quadro possibilmente organico di ciò che comporta l’attuale situazione i per Stati Uniti, il più debole dei tre competitor.

Lo shale gas and oil hanno il loro “centro” d’estrazione in Texas. Qui la produzione di scisto è quadruplicata negli ultimi dieci anni, e rappresenta il 42% della produzione totale di greggio degli Stati Uniti.

Il Permian Basin è stato il centro di questa nuova corsa all’“oro nero”.

La produzione di scisto si è “impennata” a partire dal 2011 ed è diventata il motore dell’incremento della produzione statunitense, alimentando poi i sogni di Trump di una “America di Nuovo Grande”, come recitava il suo slogan per le precedenti presidenziali.

Sebbene il Texas sia uno Stato dall’economia diversificata – dall’industria della salute, ai trasporti all’industria tecnologica – è il petrolio che contribuisce per più della metà al suo Pil e anche alle entrate fiscali. Le tasse legate all’industria petrolifera alimentano il suo “rainy-day fund”,  costituendone le riserve strategiche. Ogni variazione del prezzo incide sul suo budget, le cui spese erano state calcolate, nei piani ad ottobre, su un valore ipotetico del greggio pari a 58 dollari al barile, circa il doppio dell’attuale prezzo di listino.

 La pandemia sta minando la filiera produttiva degli idrocarburi ed i settori ad esso legati, con un’impennata nelle richieste dei benefits per la disoccupazione da parte dei texani: 155mila, al momento, aumentati di 9 volte rispetto alle settimane precedenti: un “mai visto” negli ultimi 30 anni.

La soglia di profittabilità minima per l’estrazione per il petrolio da scisto, secondo la FRB di Dallas, si assesterebbe attorno ai 49 dollari al barile.

La stessa banca ha calcolato che con un prezzo attorno ai 40 dollari, 2/5 degli operatori risulterebbero insolventi.

Tutte le maggiori compagnie hanno tagliato drasticamente i propri piani di spesa, compreso il colosso Chevron, con 2 miliardi di spese in meno.

Quella che David Sheppard, del Financial Times, ha definito la più grande crisi dell’industria petrolifera globale da 100 anni a questa parte, ha dirette conseguenze nella finanza USA, oltre che su tutti attori globali. La BT ha perso il 50% del suo valore quest’anno, tornando ai livelli del 1995; ExxonMobil ha perso negli ultimi 6 anni il 70% del suo valore di mercato.

Per dare una idea dell’entità della crisi bisogna ricordare che dei 936 miliardi di dollari di titoli energetici della borsa statunitense, le agenzie di valutazione finanziaria hanno attributo una tripla B – cioè un gradino prima del giudizio di “titoli spazzatura” (C) – a 175 miliardi di essi, rivedendo il proprio giudizio dopo il primo crollo borsistico.

Dopo la crisi del 2008, un costo del denaro relativamente basso,  l’alto prezzo del greggio e la mancanza di una legislazione che regolasse il fracking, ha reso profittevole l’estrazione dallo scisto, permettendo alle compagnie di indebitarsi e procedere a sempre maggiori volumi di estrazione.

Trump ci ha messo “l’asso”, vedendovi uno degli strumenti di affermazione geopolitica, mirando a tagliare le gambe soprattutto a Venezuela e Iran, entrambi al centro di un combinato disposto di sanzioni economiche e di tentativi di “regime change”. E contemporaneamente per “infastidire” la Russia.

Ma la doccia fredda della guerra dei prezzi, insieme alla tendenza a “liberarsi” degli assets di azioni di aziende da parte degli investitori a livello complessivo, sta trascinando con sé l’intero settore, ed anche i sogni di grandezza dell’amministrazione USA.

Come ha detto un esperto del settore: «la crescita dello shale ha aiutato a portare gli USA fuori dalla grande recessione, ma può farla diventare la vittima del crack scatenato dal Covid-19».

È la fine di un mondo in cui l’oro nero per gli Stati Uniti si trasforma nel suo contrario e contribuisce a seppellire la sua egemonia.

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