Con ogni probabilità, e per ancora molto tempo, il 2020 verrà ricordato come l’annus horribilis del nostro Paese. Una pandemia di dimensioni globali si è abbattuta su un tessuto economico e sociale già messo duramente alla prova da anni di austerità fiscale e salariale, che, oltre a ridurre a brandelli il sistema sanitario, hanno prodotto disoccupazione, precarietà e miseria.
Come se non bastasse, l’economia italiana e quella europea nel suo complesso sono entrate in questo 2020 nel pieno di una fase di stagnazione, con tassi di disoccupazione prossimi alle due cifre e marcati livelli di disuguaglianza.
Da qualche settimana, tuttavia, i media ci stanno raccontando che il 2021 sarà, invece, l’anno della ripresa, in cui ci lasceremo alle spalle, una volta per sempre, tutti gli effetti disastrosi della pandemia da Coronavirus.
A dirla tutta, ascoltando le parole del Ministro dell’Economia Gualtieri, la stagione della ripresa sarebbe già partita, con un rimbalzo del PIL che nel terzo trimestre dell’anno in corso si attesterebbe ben al di sopra delle stime. Ma a ben vedere, il 2021 potrebbe essere tutt’altro che l’annus mirabilis che ci viene in questi giorni dipinto da giornali e mestieranti della politica.
Partiamo dai numeri della Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, altresì conosciuta come NADEF. Si tratta di un documento che il Governo presenta annualmente, verso la fine di settembre, per aggiornare le previsioni economiche e di finanza pubblica fatte nel Documento di Economia e Finanza (DEF).
In altre parole, la Nota di aggiornamento rivede, alla luce dei nuovi sviluppi dell’economia, le politiche economiche e finanziarie che il Governo inserisce nel DEF ad aprile. La NADEF è dunque un tassello fondamentale della politica economica del Governo, perché disegna gli scenari entro cui si inseriscono le riforme e le misure proposte dall’esecutivo.
Per l’anno in corso, la NADEF indica una caduta del PIL del 9%. Si tratta di una diminuzione più marcata di quella stimata ad aprile, a cui farà seguito, nel 2021, una ripresa di circa 5-6 punti percentuali. Qualora i dati reali ricalcassero queste stime, quindi, non torneremmo comunque sui livelli di attività pre-Covid.
Brutte notizie anche sul fronte del lavoro: se per il 2020 la disoccupazione, ovvero il rapporto tra disoccupati e forza lavoro attiva (occupati + disoccupati) è stimata al 9.5%, nel 2021 dovrebbe attestarsi, stando alla NADEF, al 10.3%. Sono numeri che, peraltro, non rendono l’idea della perdita di lavoro in atto: a tutto il 2020 l’Italia registrerà una caduta dell’occupazione, intesa in valore assoluto come numero di occupati (in unità di lavoro standard), del 9.5%, cui farà seguito una modesta ripresa nel 2021 (+5.4%).
Dobbiamo ora chiederci come lo Stato possa limitare i danni causati dalla pandemia e dalle misure di contenimento del contagio, come ad esempio il lockdown.
La stessa NADEF ci fornisce degli spunti su quale sarà l’atteggiamento del Governo per i prossimi anni in termini di deficit pubblico: nella NADEF rintracciamo infatti il quadro programmatico di finanza pubblica (entrate e uscite della pubblica amministrazione) per il periodo 2020-2023.
Se per l’anno in corso viene stimato un deficit di quasi 11 punti di PIL, per il 2021 l’atteggiamento dello Stato risulta molto più prudente e l’indebitamento netto è previsto al 7%, ben al di sotto dello sforzo del 2020, che comunque non è stato sufficiente ad evitare la più grande crisi della storia repubblicana.
A fronte di una gravissima crisi produttiva e occupazionale legata al crollo della domanda aggregata, infatti, non vi è altra via d’uscita che la ripresa della domanda stessa, che non può che esser trainata dallo Stato attraverso la spesa in deficit.
Ma c’è di più: escludendo dalle spese statali l’onere del debito (la spesa per interessi non ha particolari effetti espansivi sull’economia), per il 2021 il disavanzo si ferma al 3,7% del PIL, per poi tornare programmaticamente in terreno positivo nel 2023.
In altri termini, già nel 2023 lo Stato tornerà a sottrarre all’economia, tramite tasse e imposte, più risorse di quelle che vi inietta, tramite la spesa pubblica.
Presto fatto: nonostante gli effetti nefasti della pandemia, nel giro di tre anni si tornerà a politiche di avanzo primario proseguendo in modo naturale lungo quei binari dell’austerità di matrice europea.
Si tratta in verità di un sentiero mai abbandonato nemmeno di fronte all’emergenza, stante il fatto che i disavanzi primari del periodo 2020-2022 sono e saranno nell’essenziale legati al crollo delle entrate fiscali dovuto alla crisi, e non a scelte discontinue in merito al livello di spesa pubblica.
Del resto, le intenzioni sono chiarissime nella parole dello stesso Ministro Gualtieri, il quale ha rimarcato reiteratamente che dal 2021 il rapporto debito/Pil dovrà rispettare un ‘meccanismo di discesa solido e sostenibile’.
Si verifica, inoltre, un’interessante contraddizione che resta sempre inspiegata: da un lato in questi mesi si è ammesso da più parti che la spesa in deficit è l’unica leva possibile per tamponare il momento più drammatico della crisi produttiva. Persino gli alfieri del liberismo e dell’austerità di matrice europea hanno incoraggiato, nei periodi più neri della crisi, i Governi a fare tutto il possibile, ricorrendo al malum necessarium della spesa in deficit e del debito.
Non si spiega perché, allora, una volta ristabiliti i precedenti livelli di attività, pur sempre caratterizzati da elevata disoccupazione e sottoccupazione (occupazione precaria e discontinua), la stessa ricetta non dovrebbe continuare ad essere applicata per sanare quelle piaghe ormai sedimentate da anni.
Evidentemente, milioni di disoccupati e precari della cosiddetta ‘normalità’ pre-pandemia vengono considerati un auspicabile successo delle economie di mercato.
In definitiva, l’affresco disegnato dalla NADEF per il 2021 e per gli anni immediatamente successivi è tutt’altro che roseo. Come se non bastasse, la stessa NADEF indica che qualora l’aggressività della pandemia tornasse su livelli ben più alti di quelli attuali, gli impatti del Coronavirus sull’economia italiana e internazionale sarebbero ben più marcati: in questo scenario, purtroppo probabile viste le tendenze più recenti, la crescita del PIL nel 2021 si fermerebbe all’1,8%.
Pertanto, a queste condizioni, nemmeno l’augurato rimbalzo avrebbe luogo, e gli effetti sull’occupazione sarebbero ancora più devastanti. Analogamente, attenersi al sentiero di ‘sostenibilità fiscale’ evocato da Gualtieri significherebbe, per i prossimi anni, rendere ancora più aspre le misure di austerità.
Insomma, per il 2021 l’intervento del Governo nell’economia si limiterà ad avere un effetto espansivo molto limitato, stimato dallo stesso Governo allo 0,6% del Pil: quando ci sarebbe bisogno di spendere, di gettare le basi per la crescita e per la creazione di posti di lavoro, lo Stato si limita a timidi e pallidi interventi nell’economia.
A questo punto si potrebbe pensare che se lo Stato latita per fortuna c’è l’Europa, che da mesi afferma di essere pronta a inondare i Governi di liquidità utile ad affrontare la crisi. Anche su questo fronte, purtroppo, c’è ben poco da sorridere per il prossimo futuro.
La stessa NADEF certifica che il Recovery Plan impatterà sul PIL italiano per lo 0,3% nel 2021, meno di quanto farà la politica economica nazionale.
Anche i miliardi di sforzi millantanti della propaganda dell’Unione Europea si riveleranno essere solo uno zero-virgola. E questo non dipende dal fatto che per il 2021 il Governo ha programmato di usare solo 25 miliardi del tanto declamato Next Generation EU, su un totale di 205 miliardi disponibili per il periodo 2021-26.
Se, infatti, è vero che l’impiego delle risorse europee dovrebbe progressivamente aumentare (fino ad un massimo di 43 miliardi annui nel 2023), in ogni caso l’impatto effettivo dell’uso dei fondi del Recovery Plan sarà rispettivamente dello 0,4 del PIL nel 2022 e dello 0,8 nel 2023.
Nel 2023, tuttavia, a fare da contraltare al modesto contributo degli aiuti europei ci penserà la politica economica nazionale, con un avanzo primario che, dal canto suo, impatterà negativamente sul PIL italiano (-0,1).
Ancora una volta, con la NADEF del 2020 la politica certifica nero su bianco la permanenza lungo i binari dell’austerità. Non è bastata una pandemia che cambierà per sempre le nostre vite a rivedere in modo deciso il ruolo dello Stato nell’economia.
A condire questo quadro ci pensano per mezzo stampa i soliti commentatori del liberismo più oltranzista. Scrive l’Osservatorio sui Conti Pubblici che per i prossimi anni “la politica di bilancio sembra essere più espansiva di quanto sembrerebbe necessario in base alle tendenze previste per la ripresa economica”.
Stando a queste parole, nonostante la flebile ripresa e i tassi di disoccupazione stimati nella NADEF su valori prossimi al 10%, il Governo starebbe facendo anche troppo. Non c’è mai fine al peggio.
L’unica via d’uscita civile dalla crisi innescata dalla pandemia è un massiccio intervento pubblico a presidio dei pilastri dello stato sociale, a partire dal sistema sanitario nazionale: l’economia di mercato subirà l’ennesimo terremoto, moltissimi settori sono già in crisi e solo lo Stato ha il potere di sostenere lavoro, redditi, diritti, istruzione e salute nei durissimi mesi che abbiamo davanti.
Il ricorso alla spesa pubblica come argine alla crisi pandemica si scontra, però, con i vincoli europei che come tentacoli si stanno avvolgendo intorno alla nostra classe dirigente tramite i cosiddetti aiuti del Recovery Fund e la trappola del MES.
La risposta alla crisi deve necessariamente muoversi fuori da questi vincoli per rimuovere i quali occorre mettere seriamente in discussione gli attuali assetti istituzionali che guidano le politiche economiche e i rapporti di forza che li sostengono.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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