In vista dello sciopero indetto per il 9 dicembre dai sindacati del pubblico impiego, il fuoco di fila dei guardiani dell’austerità non tarda a farsi vivo. Le sigle promotrici, tra le quali troviamo Fp Cgil, Cisl Fp, Uil Fpl e Uil Pa, lamentano carenza di fondi stanziati su vari fronti: risorse per lavorare in sicurezza, per avviare una vasta programmazione occupazionale, per stabilizzare i precari, per finanziare i rinnovi dei contratti nazionali di lavoro.
Ciò a fronte di un intero decennio, iniziato nel 2009, nel quale tali contratti hanno visto un sostanziale blocco degli aumenti. Oltre alle risposte istituzionali, tra i nomi più noti che in questi giorni si stanno spendendo al fine di veicolare odio e invidia nei confronti dei dipendenti pubblici, troviamo personaggi che hanno fatto ormai di questo sport una professione a tutti gli effetti.
Nessuno si sorprenderà se nella trincea delle posizioni più oltranziste a danno dei lavoratori pubblici vediamo accorrere i vari Boeri, Perotti, Ichino. A sentire quest’ultimo, che pretende di assorbire milioni di disoccupati con poche decine di migliaia di posti vacanti e qualche corso di formazione, “la logica vorrebbe che il loro trattamento [dei lavoratori pubblici] fosse lo stesso dei lavoratori privati collocati in cassa integrazione”.
Non pago, il nostro aggiunge che con “quello che si risparmierebbe si potrebbero premiare i medici, gli infermieri, le forze dell’ordine che restano coraggiosamente in prima linea, gli insegnanti che fanno davvero la didattica a distanza”.
Boeri e Perotti, su una falsariga non troppo diversa, si battono per mostrare come, a fronte della malaugurata sorte dei lavoratori del settore privato, finiti a milioni nel limbo della cassa integrazione, i dipendenti pubblici si siano visti tutelati, con stipendio pieno, e spesso a casa a godersi la vita.
A differenza di Ichino, i due economisti sostengono che le ragioni per l’applicazione della cassa integrazione ai dipendenti pubblici non siano da ricercare nella “logica”, quanto piuttosto nella “coesione sociale”. Infatti, se vogliono recuperare il rapporto con la base sociale del Paese, i sindacati dovrebbero “chiedere di devolvere le risorse stanziate per il rinnovo dei contratti alle assunzioni necessarie per sostituire chi ha lasciato per Quota 100”. Diverse ispirazioni, stesse ricette tossiche.
Il piano di discussione più evidente è quello, ormai facilmente riconoscibile, della leva che tali soggetti fanno delle condizioni miserabili di molta parte dei lavoratori italiani per far sì che la loro rabbia si rivolga verso altri lavoratori, i quali dovrebbero così scontare una pena per le loro tutele e la continuità reddituale.
Se l’operazione volta a rinfocolare la guerra tra poveri è evidente, vi è un’altra questione cruciale dietro agli attacchi contro i lavoratori del pubblico impiego, sulla quale occorre far luce.
Oltre all’odio sociale scatenato su categorie di lavoratori relativamente più tutelate al fine di far arretrare anche loro nella morsa della precarietà, la trappola di Boeri-Perotti-Ichino è quella di far sì che tale odio copra il disegno di austerità che sta sotto il piano generale dell’opera.
Non è infatti un caso che il malcontento dei lavoratori del privato venga convogliato verso una proposta che viaggia precisamente nel segno delle politiche fatte negli ultimi trent’anni: limitare quanto più possibile l’intervento pubblico e la spesa in deficit a sostegno dell’occupazione.
Quale sarebbe infatti la misura capace, secondo loro, di riportare giustizia nel Paese? Tagliare lo stipendio ad alcuni dipendenti pubblici per poter così premiarne altri, con un’immissione di risorse pari a zero.
Se il pubblico dà un centesimo in più a qualcuno, secondo questo modo di pensare, quello stesso centesimo deve essere sottratto a qualcun altro, con in aggiunta un bello sputo per ricompensarlo del suo inutile contributo alla causa del Paese durante la pandemia.
Una “strategia” doppiamente infame. Da un lato, infatti, si intende utilizzare questo ingegnoso sistema per punire una parte dei dipendenti pubblici e dare in pasto all’opinione pubblica un facile colpevole, cavalcando i più stantii luoghi comuni sull’inefficienza degli uffici pubblici.
Dall’altro, nessuno degli intervenuti suggerisce, neanche lontanamente, di spendere più risorse per il servizio pubblico. Il massimo che suggerisce è una redistribuzione di briciole tra poveri, quando quello di cui avremmo bisogno, non solo in questo momento, è un aumento della spesa pubblica per garantire un miglioramento dei servizi essenziali, utili a tutti i cittadini.
Fuori dai racconti livorosi dell’ideologia dominante, infatti, bisogna essere consapevoli del fatto che il settore pubblico, negli ultimi decenni, si è visto sottrarre sempre più risorse, soprattutto nella sanità. Per citare uno tra i tanti indicatori che esprimono al meglio tale sfacelo, a partire dal 2011 vi è stata una contrazione costante della spesa sanitaria, dovuta alle politiche di austerità di matrice europea.
L’entità di tale riduzione di spesa è nell’ordine dei 26 miliardi, pari al 12%, dal livello di spesa del 2009 a quello del 2018, che si traduce in termini pro-capite in un taglio di quasi 400 euro pro-capite. Quando si vedono i pronto soccorso e le corsie degli ospedali andare in tilt perché non ci sono abbastanza letti, non ci sono abbastanza medici e anestesisti, non ci sono abbastanza terapie intensive, la causa è da ricercare proprio in questi tagli, amministrati in nome dell’austerità, della disciplina di bilancio.
Ma la sanità è soltanto una parte della storia. In generale, è l’intero settore della pubblica amministrazione a essere sottofinanziato e sottodimensionato. Come si legge in un recente rapporto sul mercato del lavoro (pag. 16 e seguenti), l’Italia, per colmare il gap occupazionale rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, dovrebbe assumere quasi un milione e mezzo di lavoratori nel settore della sanità e dell’assistenza sociale, 500 mila nel settore dell’istruzione e 600 mila in altri ambiti della pubblica amministrazione. Una ricetta in totale contrapposizione rispetto a quelle suggerite da Ichino, Boeri e Perotti.
Soluzioni come quelle offerte dai nostri non spostano di una virgola la situazione di nessuno: né dei lavoratori, né, più in generale, dei cittadini. L’unico loro effetto è quello di deviare la rabbia di alcuni lavoratori, interessati dalle “salutari” riforme del mercato del lavoro, che non hanno fatto altro che diffondere la precarietà e ridurre i salari, verso altri lavoratori, la cui unica colpa è quella di essere stati toccati un po’ meno dalle riforme strutturali e dai tagli alla spesa.
Tutto ciò senza aggiungere alcuna risorsa a quello che è un settore pubblico gravemente devastato da anni di austerità. Austerità che ha visto i vari Boeri, Perotti e Ichino sempre in prima linea con l’intento di promuoverla, implementarla, diffonderla, giustificarla.
Quando si cercano i colpevoli delle miserevoli condizioni dei lavoratori privati e dei servizi pubblici, quindi, occorre rivolgere lo sguardo verso quelli che sono i veri nemici della stragrande maggioranza dei cittadini: coloro che hanno suggerito e implementato i tagli di bilancio e le riforme neoliberiste del mercato del lavoro. Gli stessi che oggi, davanti alla povertà che hanno creato e allo sfacelo della sanità, non trovano altra soluzione che additare come carnefici una parte delle loro vittime.
Occorre affermare con forza che lavoratori privati e pubblici sono dalla stessa parte della barricata, perché più investimenti nel settore pubblico vogliono dire più servizi per l’intera società. Significano scuole, ospedali, tribunali, uffici pubblici più efficienti.
E significano anche più risorse per l’economia, più reddito, più domanda e, quindi, più occupazione. Significano, quindi, tutte quelle cose che i padroni vedono come fumo negli occhi.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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