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Competizione per sopravvivere, il nero destino della UE

Sepolta sotto la coltre mediatica delle notizie sulla pandemia, la crisi economica marcia trionfale. Esaltata dalla stessa architettura dell’Unione Europea, fissata in trattati pensati in un’epoca di “vacche grasse”, quando la parola crisi era immediatamente associata alla “colpa” di qualcuno.

Perché si viveva “nel migliore dei mondi possibili”, e dunque se qualcosa andava storto doveva esserci per forza qualcuno che aveva “vissuto al di sopra delle proprie possibilità”, accumulando debiti invece che produrre ricchezza.

Quel mondo perfetto, del capitalismo neoliberista, non è mai esistito, se non nella retorica (qualcuno lo spieghi ai Giannini e ai Mario Monti, che non continuino ignari di tutto!). Ma adesso è la realtà a prendere a martellate in testa chiunque provi a immaginare “misure correttive” per un sistema che non sta in piedi.

L’Unione Europea, dopo dieci mesi di pandemia, non è ancora riuscita a prendere alcuna decisione sensata o comunque pratica. L’unica mezza cosetta è il fondo Sure, garantito dalla Ue, per finanziare – molto parzialmente – la cassa integrazione straordinaria decisa da tutti gli Stati membri.

Per il resto, ognun per sé, come vuole la logica mercantilista dei trattati. Tranne che per quanto riguarda la politica di bilancio, ovviamente improntata all’austerità.

Anche questa è stata presa a martellate dalla pandemia, visto che tutti i Paesi membri hanno dovuto ingigantire i rispettivi debiti pubblici per far fronte all’emergenza. Ma la “sospensione” del Patto di Stabilità non significa affatto revisione delle strategie adottate fin qui.

Lo ha spiegato con la massima chiarezza Paolo Gentiloni, commissario agli affari economici: “La clausola generale di salvaguardia rimarrà in vigore per tutto il 2021. Ma questo non significa che dal gennaio del 2022 sarà interrotta”.

Quel meccanismo idiota resta intatto, ma il “ritorno alla normalità” verrà rinviato “finché necessario”. E’ in qualche modo straordinario che neanche la mezza catastrofe in cui stiamo vivendo da un anno sia stata sufficiente a smuovere i neuroni bruciati della tecnoburocrazia europea; o forse è solo impossibile smuovere la stratificazione degli interessi delle economie più forti – quelle del Nord Europa – che hanno tradotto quegli interessi in trattati modificabili solo all’unanimità.

Ma la Storia si vendica sempre. Quello stesso meccanismo (l’unanimità, ossia il diritto di veto dei singoli Stati) sta ora facendo rinviare il cosiddetto Recovery Fund. Che sembrava una “grande iniziativa comune” ma si sta rivelando il solito pasticcio, con Ungheria e Polonia – retti da regimi semifascisti misteriosamente classificati come “democratici” – che bloccano l’intero bilancio comunitario per i prossimi anni (da cui dipende anche il Recovery Fund).

Il percorso Ue resta insomma solidamente inchiodato sul piano inclinato della “competizione infra-comunitaria”. Che non solo nega in radice qualsiasi spinta “solidaristica”, ma presuppone un mors tua vita mea (il caso della Grecia stà lì a dimostrarlo).

L’analisi di Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, coglie tutti questi limiti e li inquadra nella successione di crisi economiche vissuto dal capitalismo occidentale negli ultimi 50 anni.

Ma evoca anche le conseguenze tipiche, storicamente provate, di ogni competizione mercantilistica: la guerra. All’interno o contro un nemico esterno. Di chi contro chi, è tutto da vedere. Ma certo sarà guerra per la sopravvivenza, non per vincere.

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L’inflazione? Riparliamone tra 20 anni

Guido Salerno Aletta

Se ne parla tra vent’anni, se va bene: tanto ci vorrà, secondo il Ministro delle finanze francese Bruno Le Maire, per riassorbire l’extra debito pubblico dovuto alla crisi economica determinata dal Covid-19.

Significa che saranno solo i fattori esogeni e non la politica fiscale o quella monetaria a sospingere la crescita, visto che in Europa, con i tassi già negativi, non c’è spazio di manovra.

Sono previsioni davvero ottimistiche, quasi da rito divinatorio, se si guarda alle crisi che si sono susseguite negli ultimi decenni, ad un ritmo sempre più serrato, nonostante le discipline di bilancio adottate sin dal Trattato di Maastricht e lo scudo dell’euro.

Mettendole in fila, solo quelle che ricordiamo per averle in qualche modo vissute sono davvero tante, troppe: dallo shock petrolifero del 1973 a quello del 1980 che fu accompagnato da una devastante stretta monetaria americana, per non parlare della guerra portata allo Sme nel 1992 al fine di azzoppare il disegno della nascente moneta unica europea e dei condizionamenti pesantissimi che ci erano già derivati a partire dal 1985 dall’Accordo del Plaza, volto a dare sollievo all’economia americana boccheggiante per i deficit gemelli del bilancio federale e dei conti con l’estero.

A distanza di tempo, anche la bolla del Nasdaq sembra essere stata poca cosa, anche se da quest’ultima il settore delle telecomunicazioni non si è mai più ripreso: il troppo debito accumulato in una concorrenza al massacro ha messo a fuori gioco la gran parte della manifattura tradizionale e degli operatori appena entrati sul mercato appena liberalizzato.

Nel nuovo secolo, lo stesso allargamento ad est dell’Unione europea, cui si è aggiunto l’ingresso della Cina nel Wto, sono state sfide devastanti, culminate nello grande crisi finanziaria americana del 2008, cui è seguito il collasso europeo determinato dagli squilibri di Grecia, Spagna, Portogallo ed Irlanda che si erano accumulati negli anni.

A farne le spese è stata l’Italia, nonostante fosse riuscita a rientrare dalla grande parte dal debito pubblico eccessivo con vent’anni di avanzi primari e conseguente bassa crescita.

Alla sfida inaudita della pandemia, l’Europa è giunta stremata dopo anni di politiche fiscali restrittive, vincolate ai parametri del Fiscal Compact. La sostenibilità dei debiti, pubblici e privati, ora deve fare i conti non solo con il precipitare del pil e con una ripresa che si preannuncia sempre più fiacca, ma soprattutto con la deflazione dei prezzi. Ed è già la quarta volta che accade, in poco più di dieci anni. 

Dopo la crisi del 2008, la Bce non riesce più a perseguire l’obiettivo della stabilità monetaria, che consiste nel mantenere il livello di crescita dei prezzi ad un tasso vicino, ma non superiore al 2% annuo: mentre la caduta dei prezzi si manifesta repentina e profonda, la risalita si manifesta lenta ed instabile.

A settembre scorso, nell’Eurozona è stato rilevato un valore medio dell’inflazione del -0,3% annuo, in brusco peggioramento rispetto al +1,4% rilevato a gennaio mentre anche in Italia l’indice dei prezzi è andato sotto zero.

La crisi determinata dalla pandemia non ha fatto altro che assecondare, accelerandola, una caduta che era già iniziata in precedenza, considerando il calo dal +2,3% al +0,7% che era stato già registrato tra l’ottobre del 2018 e lo stesso mese del 2019 e che aveva suggerito la ripresa del Qe, con un nuovo PSPP (Public Sector Purchase Program).

In questo periodo di dodici mesi, non caratterizzato da alcuna recessione economica, l’inflazione era già caduta di ben 1,6 punti percentuali. Quest’anno, ed in appena nove mesi, il calo è già stato di 1,1 punti.

Va rilevato, e con ancora maggiore preoccupazione, che la prosecuzione del calo dei prezzi si è accentuata nel terzo trimestre dell’anno, nonostante il rimbalzo registrato nell’andamento del prodotto: quest’ultimo, infatti, a fronte di un – 3,3% tendenziale nel primo trimestre e poi di un catastrofico – 14,8%, nel secondo, aveva segnato nel terzo un -4,4% rispetto all’anno precedente. L’inflazione, invece, è continuata ad andare giù di peso, passando dal +0,4% di luglio al -0,4% di settembre.

Negli Usa, per fare un confronto, l’inflazione ha assunto valori negativi solo nei mesi di aprile, maggio e giugno (rispettivamente con -0,4%, -0,8% e -0,1%), per poi riportarsi a valori positivi già a partire da luglio ed agosto con un +0,6%, pur ridottosi al +0,4% di settembre ed al +0,2% ad ottobre. Merito dapprima di interventi tempestivi e massicci, sia fiscali che monetari, e poi colpa dei contrasti tra l’Amministrazione Trump e la Camera dei Rappresentanti che hanno portato allo stallo decisionale.

In Europa, è accaduto lo stesso: nonostante la maggiore prontezza manifestata stavolta dalla Bce, i vincoli strutturalmente costrittivi che sono posti a fondamento della politica fiscale dell’Unione, sulla base del Fiscal Compact, non sono velocemente rimuovibili quando viene deciso di sospenderne temporaneamente la operatività per via di una congiuntura negativa.

I ritardi cui si assiste nell’adozione del programma straordinario Next Generation Ue, cui si è delegato il compito di definire le nuove strategie di crescita basate sulla green e sulla smart economy, hanno paradossalmente schiacciato gli interventi congiunturali sull’assistenzialismo emergenziale anziché sull’accelerazione degli investimenti privati e nelle infrastrutture pubbliche. L’economia europea è rimasta bloccata e senza prospettive.

La deflazione indotta dalla crisi non è stata contrastata neppure dalla politica monetaria accomodante della Bce, nonostante la ripresa del Qe sin dalla fine del 2019, la attivazione del PEPP che pur è stato incrementato nelle dimensioni ed esteso nel tempo, le numerose aste per rifinanziamenti bancari a più lungo termine e l’accelerazione della base monetaria misurata come M3.

La liquidità che è stata immessa dalla Bce non è arrivata all’economia reale. Fra marzo ed ottobre, nell’ambito del PEPP, sono stati comprati titoli sul mercato (Covered, Corporate, Commercial, Public Sector) per 629 miliardi di euro, rispetto ad un volume complessivo autorizzato di 1350 miliardi con orizzonte a giugno 2021. Nell’ambito dell’APP, che ha riattivato il QE, tra dicembre 2019 ed ottobre scorso le detenzioni nette sono aumentate di 226 miliardi, arrivando a 2.424 miliardi.

Ci sono forti ristagni nella circolazione monetaria: gli Stati dell’Eurozona hanno pressoché raddoppiato i loro depositi presso il settore bancario, arrivati a 864 miliardi: al maggior deficit di bilancio non ha corrisposto una altrettanto maggiore spesa. Hanno messo fieno in cascina approfittando della grande liquidità immessa dalla Bce e dalla avversità al rischio mostrata dagli investitori.

Questa tendenza è confermata dall’aumento degli impieghi bancari in titoli di Stato, che tra agosto e settembre sono aumentati in media tra il 21% ed il 25% rispetto all’anno precedente, mentre la crescita del credito al settore privato non ha superato il 5%. Ancora più ridotto, dell’1% circa, è stato l’aumento degli attivi bancari in equity e quote di fondi di investimento.

Nel giro di pochi mesi, il cambio dollaro/euro è passato da 1,08 a 1,18. Anche il versante valutario ha dunque contribuito alla caduta dei prezzi interni per via del rafforzamento dell’euro sul complesso di tutte le altre valute pesate in termini commerciali.

Per quanto riguarda l’Italia, mentre per l’area euro l’indice dei prezzi all’import (base 2015=100) è diminuito di poco, passando da 101,6 di gennaio a 100,3 di settembre, quello riferito ai paesi esterni all’area è precipitato, passando nello stesso torno di tempo da 100,5 a 91.

Si cumulano dunque al ribasso gli effetti negativi della recessione globale con quelli derivanti della rivalutazione dell’euro. Perdendo competitività di prezzo, si innesca così una nuova pericolosa spirale deflattiva con la compressione dei costi e dei salari.

Il cerchio si chiude: gli eccezionali debiti pubblici già accumulati in pochissimi mesi per fronteggiare le conseguenze della pandemia ed i margini ormai inconsistenti sotto il profilo della riduzione dei tassi di interesse sono segnali di eccezionale gravità sotto il profilo della agibilità della politica fiscale e di quella monetaria di sostenere la crescita e di contrastare nuove possibili crisi.

In queste condizioni, la sola competizione mercantilistica, fondata sulla conquista dei mercati esteri, comporta conseguenze distruttive in termini di deflazione globale, innescando conflitti per la sola sopravvivenza come già avvenne negli ultimi decenni dell’Ottocento.

Chi deve intendere, intenda.

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