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Finché c’è vita vai a lavoro: l’amara ricetta dell’Unione Europea

Nel processo ormai trentennale di smantellamento dello Stato sociale in Italia e in Europa, alle pensioni è spettato e continua a spettare il ruolo di boccone prelibato, oggetto di furiosi attacchi reiterati volti alla progressiva riduzione dei diritti pensionistici dei lavoratori.

Da diversi anni l’Unione Europea è in prima linea nel delineare in modo preciso e martellante le tappe dell’austerità pensionistica. Raccomandazioni, moniti, lettere, linee guida. Tutto converge verso lo stesso obiettivo: ridurre all’osso il pilastro previdenziale pubblico per favorire la previdenza privata, dietro cui si annidano i giganteschi interessi degli intermediari finanziari (banche, assicurazioni, società di investimento).

Per favorire questo processo, per anni si è attivata una campagna assillante basata sulla presunta insostenibilità dei sistemi previdenziali in un’epoca di invecchiamento della popolazione. Si è agitato lo spettro di conti pensionistici descritti in modo tendenzioso come al collasso e si è fatto leva su un falso senso di “giustizia” intergenerazionale contro gli avidi anziani divoratori di pensioni pubbliche pagate dai giovani precari.

La fase pandemica, anziché portare all’allentamento di questa pressione, la sta esacerbando tramite quell’architettura di strumenti pensati ad arte per scambiare denaro con diritti sociali.

Il Recovery fund è la chiave di volta di questo ricatto. Come noto, il piano di prestiti e aiuti in via di definizione avrà una condizionalità esplicita, prevedendo come prerequisito di accesso il rispetto delle raccomandazioni del semestre europeo, ovvero il rispetto di quell’insieme di linee guida di politica economica che l’UE ogni anno definisce e si impegna a far osservare agli Stati membri.

Tra queste l’austerità pensionistica. La non osservanza di quelle linee guida, porterebbe, in tempi “ordinari”, all’ostilità dei mercati, a sua volta scatenata da un atteggiamento punitivo della Banca centrale europea che condiziona la propria linea di difesa dei debiti pubblici dei paesi all’osservanza della retta via.

A questa strada di ricatto “ordinario” si aggiunge in questi tempi quella ancora più cogente e diretta dei prestiti e degli aiuti condizionati alla linea dell’austerità.

Ma andiamo a vedere in modo più diretto cosa ci dicono le raccomandazioni del semestre europeo in tema pensionistico, riportate nel documento di Economia e finanza redatto dal MEF per il 2020.

Alla spesa pubblica e in particolare alla spesa pensionistica spetta proprio il posto d’onore. Ecco qui la raccomandazione numero 1: “Per quanto riguarda la politica di bilancio, si raccomanda di perseguire la riduzione del rapporto debito/PIL, la revisione della spesa pubblica e la riforma della tassazione, nonché di non invertire precedenti riforme in materia pensionistica e di ridurre la spesa pensionistica”.

Il risvolto concreto, nel caso specifico dell’Italia, suona forte e chiaro: dobbiamo ridurre la spesa pensionistica e non invertire le precedenti riforme, ovvero lasciar che l’impianto disegnato con le riforme del 2010-2011, le ultime della lunga serie di interventi restrittivi iniziati nel 1992, rimanga inalterato.

Quelle norme per cui si va in pensione a 67 anni senza se e senza ma e che piano piano porteranno l’età di accesso alla pensione dai 67 anni ai 68, poi ai 69, ai 70 e così via tramite l’adeguamento automatico all’evoluzione della speranza di vita.

A leggere le raccomandazioni dell’UE, sembra quasi che “quota 100” non esista. Non si tratta, però, di una svista. È vero, i liberisti più oltranzisti volevano sbarazzarsi di questa recente riforma a ogni costo, ma niente paura, ci ha già pensato il tempo ad abolirla.

Per quanto Salvini possa fingere di non ricordarlo, quota 100 è stata pensata come misura sperimentale a termine, di durata triennale. Nessuno dovrà quindi nemmeno prendersi la briga di abolirla per tornare agli effetti della legge Fornero, perché il 2021 sarà il suo ultimo anno di applicazione.

Mentre il governo giallorosso, già prima dell’attuale crisi politica, traccheggiava e prendeva tempo cercando di elaborare soluzioni di transizione graduale dalla fine di quota 100 al ritorno del regime Fornero, l’UE riprendeva a martellare sul tema previdenziale partorendo un emblematico libro verde dal titolo “on ageing” sull’invecchiamento e la solidarietà intergenerazionale.

Il libro verde, pubblicato pochi giorni fa, è la perfetta illustrazione dei fondamenti teorici e ideologici della filosofia del conflitto intergenerazionale e della conseguente ricetta dell’austerità pensionistica predicata e attuata dalle istituzioni europee e dai governi nazionali.

Ecco il punto di partenza: “è probabile che un numero maggiore di pensionati e un numero minore di persone in età lavorativa possano condurre ad aliquote contributive più alte e tassi di sostituzione più bassi per garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche. Tali sviluppi potrebbero caricare sulle generazioni più giovani un doppio fardello e, quindi, sollevare questioni di equità intergenerazionale”.

Tradotto in estrema sintesi: se ci sono più pensionati e meno giovani al lavoro il risultato non potrà che essere o la diminuzione delle pensioni future o l’aumento dei contributi, pesando sulle giovani generazioni.

L’idea è quella di dover stabilizzare il cosiddetto indice di dipendenza, ovvero il rapporto tra popolazione non in età da lavoro e popolazione in età da lavoro. Naturalmente, in presenza di invecchiamento demografico, se l’indice deve essere stabilizzato occorre necessariamente diminuire la popolazione non attiva, restringendone il campo tramite l’aumento dell’età legale di pensionamento. Non vi sarebbe altra scappatoia possibile.

Si afferma addirittura a chiare lettere che, nell’ottica della stabilizzazione, mediamente a livello europeo l’età pensionabile dovrebbe presto giungere a 70 anni con valori lievemente disomogenei tra paesi (71 nel caso dell’Italia).

Ecco qui i termini della soluzione prospettata: “I sistemi pensionistici potrebbero sostenere vite lavorative più lunghe modificando l’età pensionabile e i requisiti di carriera, le aliquote di rendimento o i benefici pensionistici in maniera automatica, in modo tale da riflettere una più lunga aspettativa di vita. Limitare il pensionamento anticipato a casi oggettivamente garantiti, stabilire un diritto generale a lavorare oltre l’età pensionabile e prevedere sistemi di pensionamento flessibili sono tutti elementi che potrebbero rendere i sistemi pensionistici adeguati e sostenibili”.

In breve: aumento dell’età pensionabile e diminuzione delle pensioni in essere in modo da riflettere in modo automatico l’aumento della speranza di vita. E stretti limiti ad eventuali eccezioni alla regola.

Naturalmente, se ciò comporta aumenti soverchianti di età pensionabile e pensioni da fame, non dovremmo però preoccuparci: “Pensioni complementari di alta qualità, sicure ed efficienti dal punto di vista dei costi, che integrino gli schemi pensionistici obbligatori, possono fornire risparmi pensionistici ulteriori. Politiche volte a facilitare e incoraggiare la partecipazione alla previdenza complementare dovrebbero prendere in considerazione i costi fiscali e gli effetti distributivi…”.

Ci pensa insomma la previdenza complementare ad integrare le nostre pensioni future! Quella gestita dai privati tramite gli affidabili fondi che investivano in Lehman Brothers.

Il punto è allora, evidentemente, un altro: la redistribuzione, logica e inevitabile, deve passare, secondo i detrattori delle pensioni pubbliche, per l’obolo del profitto privato degli intermediari finanziari e per i rischi spaventosi dell’instabilità finanziaria dei loro investimenti. Una bella prospettiva per milioni di lavoratori futuri pensionati!

Questo futuro così fosco dipinto come destino inevitabile è però nient’altro che una medicina amara che vorrebbero farci ingoiare dietro false rappresentazioni e ricatti istituzionali: le false narrazioni dei conti pensionistici in rosso e dei giovani sfruttati dai vecchi e i meccanismi istituzionali del ricatto permanente di cui il Recovery Fund è in questa fase il più potente strumento.

Una medicina amara da rispedire energicamente al mittente assieme al pacchetto di ricatti che le fa da contenitore, assieme ad una brevissima e chiara nota esplicativa al margine: l’aumento dell’aspettativa di vita media, peraltro tristemente rallentato dalla crisi negli ultimissimi anni, è soltanto una buona notizia per l’umanità.

Non deve e non può rappresentare la scusa per allungare indefinitamente l’età da lavoro, ma al contrario, anche grazie al progresso tecnico che accorcia i tempi di lavoro necessario, è l’occasione per allungare i tempi della vita dedicati al riposo e alla realizzazione personale e sociale.

Le pensioni non vanno diminuite, ma vanno aumentate. I meccanismi di uscita dal mercato del lavoro devono garantire una significativa flessibilità di scelta senza che ciò comporti una decurtazione drastica dell’assegno pensionistico.

Il finanziamento della spesa pensionistica infine è un problema inesistente: lo si garantisce attraverso tre strade non necessariamente alternative, ma che si rafforzano a vicenda: tramite il raggiungimento della piena e buona occupazione che garantisce un aumento del montante contributivo; tramite la leva fiscale se necessario, con imposte fatte pagare a chi ha molto; tramite, infine, il ricorso alla spesa in deficit.

Proprio quegli strumenti che l’austerità e il liberismo ci hanno sottratto da troppo tempo.

* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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