Ancora non ci sono certezze su quella che sarà la politica economica e sociale del governo Draghi. Allo stato attuale, l’esecutivo guidato dall’ex Presidente della BCE non ha ancora adottato provvedimenti tali da indicare quelle che saranno le sue mosse, sebbene alcune nomine di consiglieri economici non facciano dormire sonni tranquilli. Ben presto, però, ne sapremo di più.
Blocco dei licenziamenti e integrazioni salariali: si avvicinano le scadenze
Tra circa un mese, infatti, scadrà il blocco dei licenziamenti, da ultimo prorogato dalla Legge di bilancio fino al 31 marzo. Lo stesso giorno, inoltre, è il termine ultimo di copertura della cassa integrazione ordinaria con causale Covid-19, mentre per la cassa integrazione in deroga la scadenza è prevista, attualmente, per il 30 giugno. In entrambi i casi, però, il periodo massimo di cassa integrazione è fissato in dodici settimane.
Ricordiamo brevemente che cos’è la cassa integrazione. Si tratta di un meccanismo di integrazione salariale, pensato per garantire ai lavoratori un sostegno economico nel momento in cui, a causa delle ridotte esigenze produttive delle imprese presso le quali sono stati assunti o durante fasi di riorganizzazione e di crisi aziendale, vengono lasciati a casa per alcuni periodi, o il loro orario lavorativo si riduce. Durante questi periodi, ai lavoratori viene versato un trattamento economico che ammonta all’80% della retribuzione globale che sarebbe loro spettata per le ore di lavoro non prestate.
A seguito dello scoppio della pandemia, il Governo ha esteso di molto la portata delle integrazioni salariali, facendo sì che esse potessero applicarsi anche a settori e a lavoratori che prima risultavano scoperti, in deroga ai requisiti dimensionali, di anzianità contributiva e dell’esperimento di procedure di consultazione sindacale previsti a legislazione previgente. Inoltre, per gran parte del periodo successivo allo scoppio della pandemia, le aziende non hanno dovuto versare il contributo addizionale previsto in tempi normali quando, cioè, parte dell’importo della cassa integrazione, era corrisposto dall’impresa stessa.
L’eccezione è stata rappresentata da una parte delle settimane di cassa integrazione concesse dal cosiddetto “decreto Agosto”, che ha previsto un contributo addizionale pari al 9% della retribuzione per le aziende con fatturato ridotto in misura inferiore al 20% e pari al 18% per le aziende che non hanno subito cali di fatturato, ferma restando la gratuità per le aziende con una riduzione di fatturato pari o superiore al 20% e per quelle che hanno iniziato l’attività dopo il 1° gennaio 2018.
Sempre con il “decreto Agosto”, inoltre, era stato sperimentato un regime particolare, in cui il blocco dei licenziamenti era legato a doppio filo con la cassa integrazione: ai datori di lavoro i quali non avessero fruito per intero dei trattamenti di integrazione salariale (o dell’alternativo esonero contributivo) era impedito ricorrere ai licenziamenti. Un’esplicitazione di quello che era stato, sostanzialmente, il discorso soggiacente ai provvedimenti del Governo: lo Stato vi paga la cassa integrazione, ma voi, datori di lavoro, non licenziate.
Le priorità di Confindustria e quelle del governo Draghi
Due interventi, dunque, che, seppure straordinari, non sono andati a incidere sui meccanismi di fondo della legislazione sul lavoro e sugli ammortizzatori sociali. Si è trattato, semplicemente, della presa d’atto, della necessità di impedire che la crisi economica susseguente allo scoppio della pandemia portasse all’esplosione della disoccupazione. Interventi che, con tutti i limiti e le criticità che si possono sottolineare, non hanno di certo rappresentato un regime particolarmente punitivo per le imprese, i cui interessi sono stati tenuti debitamente in conto.
Nonostante la portata tutt’altro che rivoluzionaria di questi interventi, si fa sempre più insistente, complice l’insediamento del nuovo Governo, la voce di chi vorrebbe dare al più presto un taglio alla legislazione straordinaria. Da un lato, sono ben note le richieste degli industriali, che richiedono la fine del blocco dei licenziamenti per poter tornare ad avere le mani libere. Dall’altro, vi è chi ritiene che occorra superare il meccanismo della cassa integrazione e pensare a un sistema di ammortizzatori sociali che prescinda dalla prosecuzione del rapporto di lavoro e che sia più incentrato sulle ‘politiche attive’ del lavoro, volte a favorire la cosiddetta ‘occupabilità’ dei lavoratori.
Una tesi propugnata soprattutto in ambito giuslavoristico, ma non estranea al linguaggio degli industriali, che nasconde la realtà del conflitto di classe, ovviamente a tutto vantaggio dei padroni.
Ma se le priorità degli industriali sono chiare, resta da chiedersi come opererà, al riguardo, il governo Draghi. Come detto in apertura, è presto per dirlo. Possono farsi delle ipotesi, figlie, da un lato, della conoscenza dell’ideologia che alimenta i discorsi di Draghi e dei suoi consiglieri e, dall’altro, di osservazione della realtà e della storia recente.
Queste considerazioni, da un lato, ci spingono a immaginare che, molto probabilmente, non ci sarà una conclusione netta del regime di blocco dei licenziamenti e della cassa integrazione per tutti. Sarebbe una decisione non solo totalmente inaccettabile dal punto di vista della tenuta sociale, ma anche probabilmente nociva per gli interessi di una buona parte degli imprenditori, in particolare di coloro i quali vivono di domanda interna.
Più probabile sembra un allentamento progressivo e selettivo delle tutele che abbiamo visto. Come ricordato, tra gli altri, da Emiliano Brancaccio, Draghi ha più volte fatto alcune distinzioni non di poco conto sui destinatari degli aiuti da parte dello Stato. Ha parlato, ad esempio, di debito buono e debito cattivo (quello cattivo, naturalmente, sarebbe quello destinato ai sussidi ai lavoratori e quello buono sarebbe da indirizzare a politiche in grado di favorire gli investimenti da parte delle aziende – si legga: elevandone i margini di profittabilità), ma anche di ‘imprese zombie’. Queste ultime sono le imprese che, nella visione di Draghi, non essendo in grado di stare sul mercato, devono chiudere, favorendo in tal modo il passaggio dei lavoratori a impresi con migliori prospettive.
Non si tratta di una libera interpretazione, da parte di Brancaccio, delle parole dell’attuale presidente del Consiglio. È scritto, nero su bianco, nelle pagine di un articolo intitolato “Reviving and restructuring the Corporate Sector post-Covid”, a cura del Gruppo dei Trenta, un think tank il cui comitato direttivo era guidato, all’epoca della pubblicazione del paper, da Mario Draghi (in coabitazione con l’ex governatore della Banca centrale dell’India, Raghuram Rajan).
Il messaggio è che non si deve salvaguardare la situazione esistente, ma favorire una “allocazione ottimale delle risorse”. Fuori dal gergo della tecnocrazia, ciò significa soltanto una cosa: flessibilità dei rapporti di lavoro, distruzione delle aziende non in grado di stare sul mercato, politiche attive volte alla occupabilità, superamento delle politiche che presuppongono la continuità del rapporto di lavoro, come, per l’appunto, la cassa integrazione. Il paragrafo 1.4, dal titolo inequivocabile (“Fare scelte difficili”), parla chiaro: occorre ridurre il supporto diffuso alle imprese e limitarsi a misure concentrate a quelle imprese che, pur avendo oggi bisogno di sostegno, hanno buone prospettive di ripresa.
Il supporto diretto alle imprese deve essere limitato ai casi di ‘fallimento di mercato’. Occorre favorire il finanziamento non tramite debito, ma tramite il reperimento di risorse tramite partecipazioni azionarie. Inoltre, tale processo dovrebbe essere in qualche modo guidato dai ‘suggerimenti’ da parte delle banche e dagli investitori privati, che non sono soggetti alle stesse ‘pressioni politiche’ che i governi, invece, devono affrontare.
Tradotto in termini pratici e ritagliati sulla situazione italiana, i suggerimenti di policy del Gruppo dei Trenta potrebbero essere così interpretati: progressiva limitazione del blocco dei licenziamenti e del sostegno della cassa integrazione, cominciando col ridurre o togliere il sostegno alle imprese maggiormente in difficoltà, in modo da spingerle fuori dal mercato. E i lavoratori? Niente paura, una volta liberati dall’insopportabile giogo del rapporto di lavoro con aziende improduttive, saranno ben lieti di essere formati per essere reinseriti, con successo, nel mondo del lavoro.
L’inganno retorico dei padroni
I fautori di quest’ultima impostazione utilizzano spesso una frase a effetto: “tutelare il lavoratore e non il posto di lavoro”. Una visione che potrebbe anche sembrare ammantata di sentimenti umanitari, se non fosse che si tratta di un artificio retorico. Tutelare il posto di lavoro, infatti, significa in primo luogo tutelare il lavoratore. Un mondo in cui la perdita del posto di lavoro non è poi un dramma così grande, se ci sono adeguati strumenti di sostegno al reddito e se lo Stato è pronto a sovvenzionare la formazione dei lavoratori, esiste, se esiste, soltanto nella mente di costoro.
Nella realtà, perdere il lavoro, soprattutto in tarda età, significa spesso dover affrontare lunghi periodi di disoccupazione, con prospettive poco favorevoli per quel che riguarda un reimpiego. C’è poco da sperare anche nelle cosiddette politiche attive del lavoro, volte a migliorare le prospettive di occupabilità dei lavoratori, attraverso percorsi di formazione, analisi dei fabbisogni formativi, aiuto alla ricerca di un’occupazione.
L’obiettivo? Far sì che i lavoratori possano essere indirizzati verso quei posti di lavoro vacanti, per i quali le imprese cercano disperatamente candidati. Peccato, però, che si tratti di una favoletta destituita di qualsiasi veridicità.
I posti di lavoro vacanti e, in generale, le opportunità di lavoro, non nascono dal nulla. Sono il risultato delle necessità di manodopera delle imprese e, di conseguenza, aumentano quando l’economia cresce, quando la domanda di beni e servizi cresce. E, affinché la domanda aggregata cresca, servono consumi sostenuti, investimenti, spesa pubblica. Decenni di austerità hanno portato a una decelerazione della crescita e della creazione di posti di lavoro.
La pandemia, infine ha determinato un’ulteriore battuta d’arresto alla domanda di lavoro in Italia, basti pensare che i posti di lavoro vacanti erano circa 250 mila alla fine del 2019 e poco più di 180 alla fine del 2020. Combinando questo dato con quello dell’occupazione, che ha registrato un saldo negativo di mezzo milione di posti, si comprende bene come non vi è alcun lavoro verso cui indirizzare né i vecchi disoccupati, né i nuovi che ne risulterebbero dallo sblocco dei licenziamenti.
Ecco che, fatte queste considerazioni, è possibile iniziare a intravedere l’idea di “tutelare il lavoratore, non il posto di lavoro”, come uno strumento nelle mani dei padroni, che non desiderano altro che veder rimuovere i vincoli che gli impediscono di disporre della forza lavoro a proprio piacimento.
A ben vedere, è la stessa idea che ha permeato le riforme del lavoro operate dal governo Renzi e che ha portato al sostanziale abbandono delle tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e, quindi, all’abolizione diritto di reintegro in caso di licenziamento illegittimo (fatta eccezione per alcuni casi estremi) per tutti i nuovi assunti dal 7 marzo 2015: in questo modo, è stato fissato il prezzo che i datori di lavoro devono versare al lavoratore per sbarazzarsene, senza il rischio di essere condannati a riprenderseli.
Quello che i cosiddetti difensori “del lavoratore, non del posto di lavoro” vogliono è il disciplinamento dei lavoratori. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: una forza lavoro che non teme il licenziamento per qualsivoglia ragione (perché sa che l’economia cresce, la disoccupazione è bassa e quindi troverà facilmente un nuovo lavoro, perché i sussidi di disoccupazione sono particolarmente generosi, perché i licenziamenti sono difficili) è una forza lavoro poco malleabile, che più difficilmente accetterà un peggioramento delle sue condizioni di lavoro e una riduzione della retribuzione.
L’esatto contrario di quel che serve ai datori di lavoro, che hanno, invece, tutto l’interesse affinché i propri dipendenti temano il licenziamento e siano dunque disposti ad accontentarsi di poco.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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