Menu

Gli Usa tornano al punto di partenza (della crisi)?

I segnali che arrivano dagli Usa sono sempre significativi per chi vuole capire, almeno a grandi linee, l’evoluzione della crisi di lunga durata che sta facendo declinare l’egemonia “euro-atlantica” sul mondo.

Per questo, ancora una volta vi proponiamo il quadro fatto su Milano Finanza (solo i giornali economici osano parlare quasi apertamente delle situazione reale, perché esistono per fornire indicazioni attendibili agli “operatori di mercato”).

Se prendete le informazioni solo da Repubblica o dal Corriere rischiate seriamente di restare sorpresi ad ogni inciampo del sistema, proprio come il “parco buoi” che continua ad affollare le borse in attesa della propria mattanza.

Cosa ci dice stavolta Guido Salerno Aletta? Che quei “fenomeni” degli americani – così descritti dai Rampini e dai Sensini – si ritrovano un’altra volta davanti all’asset inflation, che è ben diversa dai “prezzi al consumo” (che pure tormentano lavoratori e pensionati).

Asset significa “bene patrimoniale”, qualsiasi proprietà (dai macchinari agli immobili) possa essere venduta rapidamente per far fronte ad emergenze che richiedono liquidità. La prima emergenza è sempre la richiesta di saldare un debito…

Se gli asset sono troppo costosi diventa più difficile venderli. Specie se i potenziali acquirenti sono nelle stesse condizioni (solo quelli ancora più ricchi possono permettersi di farlo, aumentando così la centralizzazione del capitale in sempre meno mani).

Spesso questi asset sono “garanzie” che sono state offerte in cambio di prestiti bancari (o d’altro tipo), e un crollo rapido dei loro valori rischia di tradursi in “sofferenze” per gli istituti di credito. Se il fenomeno riguarda un’area come gli Usa è facile capire che questa somma di “sofferenze” diventa in un attimo una crisi del sistema creditizio. Con molte conseguenze altrettanto “sistemiche”….

Segnaliamo che, per esempio, i prezzo degli immobili Usa sono passati da 100 (nel 2000) a 306 nel giugno del 2022. Una gioia per i proprietari… Almeno per quelli che riescono a vendere, perché è fin troppo chiaro che nel frattempo la platea dei potenziali acquirenti si è andata restringendo ai felici pochi.

Idem per le automobili (soprattutto se usate!), e qui arriviamo al problema della tenuta del famoso “ceto medio”, che ha continuato a consumare o “capitalizzare” in immobili a forza di debito (“privato”, certo, ma non meno debito di quello “pubblico”; anzi…).

E quindi alla “sostenibilità finanziaria” di questa spesa “delle famiglie” sui tempi lunghi.

E se è certamente vero che, con la guerra in Ucraina, gli Stati Uniti hanno vinto la “guerra valutaria” con Europa e Giappone, riconducendoli di nuovo sotto il ferreo comando Nato e depotenziando le alternative euro e yen, è anche vero che nel caso del Sol Levante c’è una stagnazione in atto da quasi 30 anni.

E che “l’Europa” non sta meglio, avendo sviluppato un modello export oriented su una base industriale fortemente dipendente dalle importazioni di materie prime. Sono economie che possono essere “vampirizzate”, ma non possiedono più grande “spinta propulsiva”.

In quest’area, la guerra e le sanzioni, ossia la “frammentazione” del mercato globale in aree macroeconomiche che vanno tendenzialmente a “chiudersi” (cum grano salis, ovvio, ma dipende fino a che punto gli Usa intendono arrivare con la strategia delle “sanzioni”), si stanno destabilizzando modelli di business già sul limite (chiedere alla Germania, che stanzia 200 miliardi per il sostegno alle sue imprese).

Pensiamo al prezzo del diesel, per il 30% (in tutta Europa) importato proprio dalla Russia (ma ancora per poco…), e a quanto può pensare sia sui trasporti passeggeri che su quelli merceologici. E dunque sul prezzo finale dei prodotti di maggior consumo.

E sono costrette a farci i conti anche le ”economia delle piattaforme”, oltre che quelle “tecnologiche”, come saggiamente viene sottolineato.

La pirateria finanziaria vive in un mondo virtuale. Che è bensì “reale”, ma solo fino a quando viene alimentata la corrente elettrica…

Buona lettura.

*****

Il problema cruciale delle famiglie americane non è di conto economico ma di sostenibilità finanziaria

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

È sempre un mondo straordinario, l’America, dove i prezzi e i valori degli asset salgono e scendono alla velocità della luce, prima sostenuti da euforie ingiustificate e poi abbattuti da frenate di emergenza: quello che sta accadendo in questi mesi nel mondo dei social media e delle altre Fang (Facebook, Amazon, Netflix e Google, ndr) va considerato come un cambio di paradigma. Anche per loro, la festa è finita.

I dati da cui partire sono quelli della Federal Reserve di St.Louis: ci sono alcuni prezzi di cui si è perso completamente il controllo, e non sono quelli dei beni al consumo di cui tanto di discute, con il tasso di inflazione che a novembre è stato del 7,1% su base annua, in calo rispetto al 7,7% di ottobre, e con un andamento in contrazione continua rispetto al picco del 9,1% registrato a giugno.

Per quanto sia estremamente significativa la componente dei combustibili, anche questa sembra ormai sotto controllo, visto che il prezzo della benzina si è fortemente ridimensionato, toccando a fine dicembre i 3,2 dollari per gallone, rispetto ai 5 e anche ai 6 dollari cui era arrivato nei primi mesi dell’anno.

In ogni caso, le famiglie americane sono state davvero taglieggiate: rispetto ai 341 miliardi di dollari che avevano speso nell’ultimo trimestre del 2019, ridottisi ad appena 188 miliardi nel secondo trimestre del 2020 nel pieno della crisi pandemica, nel secondo trimestre del 2022 la spesa è lievitata a 541 miliardi: 200 miliardi di dollari trimestrali netti in più rispetto al livello di spesa di fine 2019. Ossia il +58%, una vera botta.

Il primo problema sta nei prezzi raggiunti dai beni di consumo durevole. Per le auto nuove, l’indice di prezzo (fatto uguale a 100 nel biennio 1982-1984) era rimasto sostanzialmente stabile per oltre un ventennio, attestandosi attorno a quota 140/145 tra 1996 e 2019, avendo toccato il livello più basso con 132 punti nel dicembre del 2008, in coincidenza con il collasso dei mercati finanziari mondiali.

Dai 146,6 punti di gennaio 2020, l’indice è schizzato a quota 176,8 a novembre scorso: +30,2 punti, in meno di due anni. Si dirà, ed è vero, che ci sono di mezzo le auto elettriche che hanno strappato il mercato.

Il punto è che l’aumento di un terzo del prezzo delle auto nuove non è sostenibile ai livelli salariali attuali, come ben dimostra l’andamento delle vendite: nel solo mese di dicembre i prezzi delle auto nuove sono ancora aumentati del 2,5%, portando il prezzo del veicolo medio a 46 mila dollari.

Nel complesso, l’industria automobilistica statunitense ha registrato un calo delle vendite dell’8% rispetto all’anno precedente, scendendo ai minimi degli ultimi 11 anni.

Le scarse vendite del 2022 – pari a 13,9 milioni di unità tra auto, camion, suv e furgoni – sarebbero state determinate anche dalla limitata produzione, pur a fronte di una elevata domanda, per via dei problemi di approvvigionamento di semiconduttori: le ruvidità con la Cina comincerebbero a pesare.

Le vendite previste per il 2023, che arriverebbero a 14,8 milioni di unità, sarebbero sempre inferiori ai 17 milioni di veicoli che erano la regola negli anni pre-Covid.

C’è un altro dato da cui si desume la forte tensione tra domanda e offerta di auto, su cui l’aumento del prezzo di quelle nuove non è affatto secondario: si è impennato vistosamente anche l’indice dei prezzi delle vetture usate, che era stato sempre in contrazione addirittura dal febbraio del 2001 quando aveva toccato i 160,4 punti.

A giugno 2020, nel pieno del primo anno di pandemia, l’indice era sceso al minimo con 135,5 punti. Da allora, si è arrampicato senza sosta, toccando il picco di 212,6 punti a febbraio 2022: +77,1 %. Davvero una crescita sorprendente in meno di due anni.

Si vendono meno auto nuove, per lo più con motorizzazione elettrica o ibrida, che sono molto più costose di quelle tradizionali, ma soprattutto è aumentato in modo esponenziale il prezzo di quelle usate. Tutto pesa sul budget delle famiglie.

C’è poi da considerare la dinamica dei prezzi degli immobili: fatto uguale a 100 il valore dell’indice nell’anno 2000, la pendenza della linea che ha segnato la loro ripresa era stata costante dopo il crollo determinato dalla Grande crisi finanziaria del 2008, con il livello più basso toccato nel gennaio 2012 con 160 punti. A tanto si era contratto l’indice rispetto al picco superiore di 184,6 registrato nel luglio del 2007, quando era al suo massimo la bolla dei mutui sub-prime, perdendo dunque 24,6 punti. Praticamente, un quarto del valore.

Ebbene, la politica monetaria espansiva adottata dalla Fed, con la immissione di liquidità attraverso i vari Qe e i tassi a zero, ha fatto sì che a partire dal gennaio 2012 i prezzi degli immobili siano cresciuti senza sosta, recuperando in cinque anni il picco dei valori immobiliari che era stato registrato nel luglio 2007: nel novembre del 2016 l’indice era tornato a 184 punti.

Non solo da allora ha proseguito la crescita senza sosta, essendo arrivato a quota 216 nel marzo 2020 in coincidenza con l’inizio della crisi sanitaria, ma da quel momento in poi ha letteralmente spiccato il volo: la mancanza di opportunità in Borsa che aveva già raggiunto nuovi massimi, i tassi a zero e la enorme liquidità ancora una volta immessa dalla Fed sul mercato, la politica fiscale fortemente orientata a sostenere la popolazione alle prese con la pandemia l’hanno fatto impennare.

È arrivato a 306 punti nel giugno dello scorso anno, crescendo così di ben 90 punti in poco più di due anni.

Il prezzo mediano delle case vendute in America, che nel secondo trimestre del 2020 era stato di 322 mila dollari, nel terzo trimestre del 2022 è arrivato a 455 mila dollari: +41%. Tutti dati che alla Fed, evidentemente, facevano piacere: era ripartita la solita corsa alla cuccagna immobiliare.

Siamo già in un’area di insostenibilità finanziaria, che non dipende né dal prezzo della bottiglia di latte né da quello del cespo di insalata. Il mondo dei social media, da Twitter a Facebook, si è reso conto all’improvviso che non riesce più a offrire servizi gratuitamente, Amazon fa i conti con i costi stratosferici delle consegne a domicilio, le auto elettriche sono troppo costose mentre le case hanno prezzi inarrivabili.

L’indice dei prezzi al consumo dice poco e niente sulla stabilità del valore della moneta: il problema è quello della asset price inflation e della sostenibilità finanziaria delle spese delle famiglie per acquisti a lungo termine.

L’America dei Fenomeni torna così, nuovamente, al capolinea.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *