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Il “piccolo” occupa tanta gente, quasi sempre in povertà

Lo scorso giovedì 10 ottobre, l’International labour organization (Ilo) ha rilasciato sul proprio sito un rapporto dal titolo “Il piccolo conta: evidenze sul contributo all’occupazione del lavoro autonomo e della micro, piccola e media impresa”. La domanda di ricerca a cui lo studio voleva rispondere era circa il ruolo del “piccolo” e dell’“autonomo” sul futuro del lavoro, mediante un sondaggio che ha coinvolto lavoratori di 99 paesi di tutto il pianeta (nella lista, purtroppo non è considerato il Nordamerica).

Quali risultati mostra lo studio?

Come prevedibile, la somma dei lavoratori autonomi1 con quelli impiegati nella micro e piccola impresa (nella fattispecie, fino a 49 dipendenti) – dette anche “small economic units” – contano per il 70% dell’intera occupazione globale. Tuttavia, la quota degli occupati che risulta da questa somma è maggiore nei paesi con un basso livello di reddito; al contrario, maggiore è la percentuale degli occupati nelle imprese con 50 o più dipendenti, maggiore è il reddito percepito in media dal lavoratore.

Nella figura successiva si evidenzia la suddetta correlazione negativa tra “small economic units” e il Pil pro capite, sottolineando però come la quasi totalità dei paesi presi in considerazione registri una presenza di occupati autonomi o nella micro e piccola impresa superiore o uguale al 50% della quota totale degli occupati. Il Mali addirittura fa registrare il 100% di occupazione in aziende sotto i 50 dipendenti, il che non significa che non ce ne siano di più grandi, ma di come sia difficile incontrare lavoratori (il sondaggio si basa sulle loro risposte, non su quelle delle imprese) impiegati in quelle medie e grandi, evidentemente poco rappresentative.

Altre due correlazioni di rilievo sono quelle tra il valore dell’economia e del lavoro informale (che include sia attività illecite come il contrabbando, sia quelle non incluse nella contabilità nazionale come un prestito in denaro tra famigliari) e la ricchezza pro capite di un paese, e quella sempre tra quest’ultima variabile e la ripartizione dei lavoratori nei tre settori classici della produzione.

Ebbene, all’aumentare della ricchezza di un paese, da una parte diminuisce la quota degli occupati nell’economia informale, e dall’altra aumenta la quota occupati nei servizi e nell’industria a discapito del settore dell’agricoltura o più in generale della produzione dei beni di base, come l’estrazione delle materie prime. Da qui, ne consegue che il settore primario è quello dove si registrano i salari più bassi e, con scarsa probabilità di errore, le peggiori condizioni lavorative, riconducibili all’assenza di regolamentazione, diritti e controlli sullo svolgimento dell’attività di lavoro.

È importante rimarcare che ciò che si sta evidenziando non è la produttività del singolo settore. Se così fosse, infatti, la distribuzione grafica dei paesi sarebbe diversa perché non si baserebbe sulla quota di occupati, ma su quella raggiunta nel giro d’affari globale del settore.

A proposito del lavoro nella catena globale di produzione del cibo, un primo contributo è apparso pochi giorni fa su questa pagine, in più l’Unione sindacale di base organizzerà per mercoledì 16 un incontro alla Sapienza dal titolo “Cibo sano, lavoro sano”.

In conclusione, si legge sul rapporto, la concentrazione delle “small economic units” è maggiore nei paesi a più basso reddito pro capite, i quali sono anche quelli dove vive la maggior parte della popolazione, e dove è anche maggiore la quota degli occupati nell’economia informale, tra cui spicca il settore dell’agricoltura.

Che insegnamenti trarne?

Innanzitutto, che il piccolo nel mondo conta ancora molto, ma che nel modo di produzione capitalistico, al contrario di quanto si afferma talvolta, è tutto tranne che bello.

In un’organizzazione sociale fondata sulla competizione e sul fine ultimo della concentrazione individuale di proprietà, il “naturale” accentramento delle risorse (tendenza al monopolio) rende, da una parte, sempre più precarie le economie – e di conseguenze le vite della maggior parte delle persone – dei paesi che non reggono il livello competitivo necessario alla sfida; dall’altra, non garantisce neanche la stabilità – di nuovo, nella vita come nella visione del futuro – ad ampi settori di quelle popolazioni che temporaneamente godono di un posizionamento migliore nella divisione internazionale del lavoro. Le guerre mondiali e l’attuale crisi sistemica sono qui a rimarcarlo.

Se così non fosse, staremmo ragionando per paesi e non per classi sociali.

In altri termini, date certe regole di convivenza, non si può elogiare un’organizzazione produttiva che nel lungo termine non garantisce una costante “produzione di benessere”, e nel medio non lo fa per tutti quanti. Non a caso, che il piccolo conti è l’altra faccia della medaglia della a dir poco iniqua distribuzione della ricchezza su scala mondiale. E tuttavia, l’insostenibilità non solo umana, ma anche economica (e oggi sempre di più ecologica) di quella modalità di convivenza che risponde al nome di “capitalismo” è stata dimostrata dagli eventi della storia.

Perciò, “piccolo” in questo pezzo di mondo non può essere sinonimo di bello per nessuno, e allo stesso tempo “grande”, oltre che a basarsi sullo sfruttamento tout court, prima o poi arriva al capolinea.

Se a guidare la misura del benessere di un paese continueranno a essere meri indicatori statistico-quantitativi come il Pil, anche nelle sue varie forme green o “umanizzate”, dove comunque non si mette in discussione l’obiettivo della remunerazione finale al posto dei bisogni delle persone, l’alternativa a questa fallimentare organizzazione sociale (al netto degli importanti sviluppi scientifici e tecnologici che in molti casi hanno migliorato la qualità della vita) non potrà nascere.

1 Qui definiti come la somma dei “lavoratori indipendenti senza dipendenti” come definito nella “Resolution concerning statistics on work relationships” adottati dalla XX International conference of labour statisticians (Icls) nel 2018, e ai “lavoratori autonomi” come definito nella risoluzione relativa all’International classiication of status in employment (Icse) adottata dalla 15a Icls nel 1993.

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