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Deutsche Bank, uno zombie si aggira per i mercati…

Quando la nave sta rischiando di affondare, il bravo comandante afferra il microfono e rassicura tutti i passeggeri. Sa che altrimenti cominceranno a correre avanti e indietro per ponti e corridoi, intralciando il lavoro dei marinai e aumentando perciò il rischio di far andare lo scafo fuori controllo.

Ma naturalmente tutti sanno che la nave sta rischiando davvero di affondare…

Quella del sistema bancario euro-atlantico è, oltretutto, una nave squinternata, gonfia di problemi irrisolti – anzi ingigantiti da un decennio di “iniezioni di liquidità” – e strutturalmente impossibilitata a compiere manovre rapide senza andare a sbattere contro ostacoli imprevisti.

All’ormai lunga lista di fallimenti improvvisi registrati nel solo mese di marzo – quello di Silicon Valley Bank è di appena 15 giorni fa, sembra una vita – si sta forse per aggiungere quello del gigante  tedesco, Deutsche Bank, che appare da quasi 15 anni una balena spiaggiata.

Venerdì, in borsa, è arrivata a perdere quasi il 15% in una sola seduta, per poi risalire a -8. Sulle ragioni di questo tracollo fioccano le spiegazioni “ad hoc”, tutte presuntamente rassicuranti, come quella – eterna – delle “vendite allo scoperto” (investitori che mettono in vendita azioni che non possiedono, ma che si sono fatti “prestare”), un gioco speculativo al ribasso su cui qualcuno riesce a fare grandi guadagni in poche ore.

Basterebbe insomma, secondo questa interpretazione, un divieto legale a questo tipo di azioni speculative per congelare i rischi. Qualche volta, nel pieno di tempeste grandiose come quella del 2007-2008, è stato persino fatto.

Ma appena riapparso il sereno tutto è tornato come prima. Insomma, non è una “deviazione” dalle logiche di mercato, imputabile ad un “eccesso di avidità”, ma uno strumento normale tra i tanti, che viene considerato pericoloso solo in certe condizioni. Non sarà perciò mai eliminato.

Uno degli strumenti inventato – letteralmente – dal “mercato” per misurare il rischio di fallimento sono i credit default swap, che solo teoricamente dovrebbero intervenire (come un’assicurazione) per ripianare i buchi creati da un eventuale fallimento. Ma quando i possibili “cadaveri” hanno dimensioni “sistemiche” nessuna assicurazione può assumersi quel carico senza fallire a sua volta.

Questi strumenti assicurativi hanno a loro volta un costo e sono egualmente quotati sui mercati. Quando il prezzo per coprire il rischi default di Deutsche Bank è salito rapidamente, il panico si è diffuso nelle borse europee, coinvolgendo tutti titoli bancari, di tutti i paesi.

Per quanto possa apparire folle, anche questo “dettaglio” viene presentato come una spiegazione “tecnica” che dovrebbe contribuire a rassicurare gli investitori e risparmiatori…

Altra spiegazione “tecnica” minimizzante è quella che fa riferimento alle “onde sismiche” generate dalla scelta svizzera di “salvare” Credit Suisse eliminando il risarcimento delle obbligazioni At1 e salvaguardando almeno in parte il patrimonio degli azionisti. Una rapina in piena regola, perché – secondo la normalità del mercato capitalistico – nei fallimenti i primi a pagare sono gli azionisti (i proprietari, legalmente corresponsabili del fallimento), mentre si salvaguardano per quanto possibile gli obbligazionisti (i creditori).

Questo gesto ha naturalmente tolto ogni certezza di restituzione futura a tutti i possessori di obbligazioni societarie (non i titoli di stato, insomma), in primo luogo di quelle bancarie. La complicazione arriva dal fatto che questi “possessori” sono principalmente… banche ed altri “investitori professionali”. Il che significa scatenare movimenti di mercato molto consistenti, perché gli investitori rivedono le loro posizioni, scaricando «gli anelli deboli».

Deutsche Bank, a parte il prestigio del nome, è da tempo una banca zombie, salvata e protetta dal governo tedesco con qualsiasi mezzo. E’ infatti uno di quei soggetti “sistemici” il cui andamento rischia sempre di trascinare quello di tutto il sistema bancario europeo. “Troppo grande per fallire“, ma troppo inguaiata per guarire…

E’ anche gestita, da sempre, da un gruppo di autentici banditi con la passione del “rischio” per massimizzare il profitto, ma con il dono di Mida al contrario. Per esempio, quando esplose la bolla dei “prodotti finanziari derivati” insieme al crack di Lehamnn Brothers, venne fuori che DB aveva in pancia una esposizione verso questi “pezzi di carta” dal valore assolutamente incerto l’equivalente di 20 volte il Pil tedesco.

Una cifra inimmaginabile, ma soprattutto non ripianabile da nessun “aiuto di stato” o quantitative easing della banca centrale. Come si può pensare di destinare venti anni di produzione della Germania a coprire il buco finanziario di una sola banca?

Il banditismo del cda di DB è risaputo, tanto da dover pagare – nel 2017 – una multa di 7,2 miliardi di dollari agli Stati Uniti per le sue “pratiche di prestito irresponsabili” effettuate nel 2006 e nel 2007, che avevano parzialmente contribuito a scatenare la Grande Recessione.

Da banditi anche la soluzione per “recuperare” il costo della “multa”: tagliare drasticamente i costi. Nel 2018, in un solo giorno, DB ha licenziato più del 20% della sua forza lavoro globale, riuscendo così a registrare un profitto nei successivi 10 trimestri.

Quando Olaf Schoz, cancelliere in carica, “tranquillizza” i mercati dicendo che DB “è profittevole”, omette naturalmente di ricordare in che modo quella banca porta in positivo i suoi bilanci.

Ma alla fine della fiera, se ci si vuole capire qualcosa e avere un briciolo di sguardo sul futuro immediato, bisogna rendersi conto che sta arrivando al pettine l’immenso nodo della “liquidità aggiuntiva” fatta sgorgare da Bce e Federal Reserve Usa negli ultimi 15 anni (per impedire il crack del sistema finanziario).

Che tutta quella liquidità, prima o poi, si sarebbe tradotta in inflazione galoppante era una previsione facile. La guerra in Ucraina ha accelerato al massimo una tendenza all’aumento dei prezzi che era già in corso, anche nel settore delle materie prime energetiche.

Il modo in cui l’Occidente ha risposto, dietro gli Usa, ha fatto concentrare i problemi soprattutto in Europa – un continente praticamente senza risorse energetiche proprie – anche se a esplodere per prime sono state delle banche Usa (ma il “sistema” è fatto così, troppo interconnesso per poter localizzare rigidamente i fenomeni tellurici).

Le sanzioni, in altri termini, sono state un suicidio europeo di proporzioni stellari, perché la Russia – che doveva esserne vittima – ha la fila fuori la porta per richiedere forniture di gas, petrolio e altre materie prime.

Per chi istituzionalmente presiede alla regolazione “di mercato” delle transazioni – la banche, guarda caso – tutti questi sconvolgimenti rapidi costituiscono un mare in tempesta. E quelle che avevano più squilibri (come DB o Credit Suisse) vanno in difficoltà per prime.

Ma non è che finisce qui…

A gestire le leve dei tassi di interesse (e quindi del costo base del denaro) e della liquidità stanno infatti istituzioni come le banche centrali (Federal Reserve e Bce, oltre alla Banca di Inghilterra) che seguono regole rigide imposte da teorie da tempo falsificate, quelle “monetariste” del neoliberismo ex trionfatore degli anni ‘90.

Quindi hanno alzato rapidamente i tassi di interesse per “contrastare l’inflazione”, che però non derivava da un “eccesso di dinamismo economico”, ma da una “causa esterna” come l’aumento di prezzo dell’energia. E quindi applicano una ricetta che non può toccare la causa dell’inflazione (il prezzo del gas si muove con la disponibilità o no di quella materia prima), ma incide moltissimo su prestiti e investimenti, dunque sulla dinamica dell’economia reale. Comprimendola.

Credete voi che ai vertici delle banche centrali lo abbiano capito? Macché…

Il presidente della Bundesbank (la Banca centrale tedesca, l’equivalente della nostrana Banca d’Italia), Joachim Nagel, il giorno prima del crollo di Deutsche Bank, in un’intervista al Financial Times affermava: «Se vogliamo domare questa inflazione ostinata, dovremo essere ancora più ostinati». Sui tassi «c’è ancora strada da fare» (per aumentarli) e la Bce deve insistere fino a quando non ci sarà un forte calo dell’inflazione complessiva.

Di più. Secondo lui va accelerato il ritiro di liquidità dal mercato fin da luglio. Anzi, «in una fase successiva» andrà ridotto anche anche il portafoglio dei titoli del piano pandemico Pepp (quello che ha garantito che il debito pubblico “eccessivo” degli Stati non diventasse un bersaglio della speculazione).

Un forsennato, insomma, secondo cui – detto il giorno prima del botto della “sua” DB – le banche non sono un problema: «I rischi di contagio sembrano bassi».

In mano a questa gente, come si fa a non pensare che stiamo andando a sbattere?

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

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2 Commenti


  • Salvatore Michele De Marco

    La tendenza alla caduta della redditività bancaria

    Se la precedente ondata di crisi di istituti di credito nel mondo era all’ombra della crisi debitoria del 2008, oggi una nuova ondata di crisi bancarie si sta abbattendo nel mondo e, a dispetto di molti che parlavano di crisi debitoria risolta, questa nuova andata di crisi bancarie continua ad alimentarsi all’ombra della crisi debitoria mai risolta e che invece si è aggravata per l’enorme e inutile liquidità che si immesso nel sistema economico globale.
    Si cercano le ragioni dei crolli delle banche commerciali, e il tutto si vuole fare passare quale occasionale, limitato nel tempo (nel caso attuale: il cedimento dell’Ict per la Silicon Valley Bank; gli alti tassi di interesse fissati dalle banche centrali per la Suiss Credit; i derivati creditizi nella pancia delle Deutsche Bank), quando esiste una tendenza di fondo alla caduta della redditività delle banche commerciali. Essa è strutturale, soprattutto in presenza di situazioni che fanno venire meno le esili difese che l’intermediazione bancaria può mettere in atto (abbassare i costi con la scomparsa di sportelli, digitalizzazione, diminuire il personale, trasformarsi da banca commerciale in banca di investimento, stretta creditizia), in quanto è legata all’altro fenomeno altrettanto strutturale nel capitalismo che è l’indebitamento e l’insolvenza della domanda autonoma (privato, pubblico e resto del mondo) che non permette agli istituti di credito di riavere quanto prestato (la nascita di nuovi mercati, quali i mercati dei non performing loans o i mercati dei credit swap default, lo dimostrano). Per quanto poi riguarda l’indebitamento e l’insolvenza della domanda autonoma che nei decenni aumenta senza possibilità alcuna di reversibilità, la spiegazione non è semplice, dato che tocca le stesse fondamenta del capitalismo (il suo circuito economico), la quale tuttavia ho fornito nel modello elaborato a cui si rimanda (1991-2022).
    Il sistema di intermediazione bancario italiano andrà presto a fare compagna alle altre banche commerciali in difficoltà e in maniera più devastante, in quanto, la sua tendenza alla caduta della redditività di natura strutturale come per tutte gli altri enti uguali, deve scontare anche il peso dei crediti forzati a seguito dei prestiti obbligati dal pubblico alle imprese per difficoltà legate al Covid-19 (prestiti garantiti dal pubblico che con il ritorno del rigore della finanza pubblica non verranno più rimborsati né dal privato né dal pubblico); e il peso dei crediti pubblici acquisisti in seguito all’operazione di ristrutturazione immobiliare “110” che il comparto pubblico per l’esorbitante ammontare farà fatica a rimborsare.
    Prevenire i danni per i creditori (polverizzare i risparmi) e i premi per i debitori (ogni fallimento di istituto di credito è una cancellazione di debito) a beneficio del sistema economico, non è dunque compito del singolo banchiere (abbandonare la sua avidità) e compito dei governi (con le loro inutili regolamentazioni) e compito delle banche centrali (con i loro inutili quantitative easing o manovre sul tasso di interesse), ma implica la rivisitazione della natura e del ruolo delle banche commerciali all’interno del capitalismo, così come esposto nel libro “Il credito nell’ordine critico capitalistico” Esi, Napoli (2017).

    Salvatore Michele De Marco


  • Antonio spanu

    finalmente un giudizio indipendente farò una piccola offerta

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