Zitti zitti, senza alzare il volume, si moltiplicano i segnali che certificano la morte cerebrale di un insieme di trattati europei che avevano fino ad un certo punto costituito la governance “tecnica” pressoché invalicabile contro cui si infrangeva qualsiasi istanza sociale, qualunque problema economico momentaneo, qualsiasi intento di gestire in altro modo le politiche economiche e fiscali di ogni Stato membro dell’Unione Europea.
A voler essere precisi, quel ronzio di fondo sta diventando un vero coro, che non prende ancora le dimensioni del tuono che rompe l’equilibrio solo perché nessuno sa come sostituire o riparare il “pilota automatico” di cui Mario Draghi e altri criminali al servizio della finanza internazionale andavano tanto orgogliosi.
Il segnale forse simbolicamente più evidente l’ha dato forse proprio SuperMario, il quale in un pensoso – ma come sempre apodittico – intervento sull’Economist ha spiegato che nell’eurozona servono «nuove regole e più sovranità condivisa».
Più precisamente, «tornare passivamente alle vecchie regole sospese durante la pandemia sarebbe il risultato peggiore possibile». Il mutato quadro internazionale, com’è ovvio, ha travolto il vecchio ordine: «Le strategie che nel passato hanno assicurato la prosperità e la sicurezza dell’Europa, affidandosi all’America per la sicurezza, alla Cina per l’export e alla Russia per l’energia, sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili».
Le “sfide” cui si trova davanti l’”area euro-atlantica” – l’imperialismo neoliberista occidentale – richiedono infatti «ingenti investimenti in tempi brevi, tra cui la difesa, la transizione verde e la digitalizzazione». Ma mentre gli Usa hanno un consolidato centro di comando (per quanto scosso nella sua egemonia e nella tenuta sociale interna) «l’Europa non dispone di una strategia federale per finanziarli, né le politiche nazionali possono assumerne il ruolo, poiché le norme europee in materia di bilancio e aiuti di Stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente».
Già, le “norme europee” che anche lui aveva scritto, dettato o suggerito, impediscono di far fronte a qualsiasi problema che richieda spese (pubbliche, of course) non previste o in deficit.
In particolare vanno riviste proprio i pilastri centrali, ossia le regole di bilancio e le norme contro gli “aiuti di stato”. Naturalmente la soluzione proposta da SuperMario e perseguita da Bruxelles va verso una maggiore centralizzazione delle politiche economiche, attribuendo “più poteri di spesa al centro” e meno ai singoli Stati.
Per poterlo fare, però, bisogna fermare l’allargamento della UE ad altri membri, perché «il rischio è di annacquare la Ue piuttosto che rafforzare la sua capacità di agire».
Dopo quattro anni di “sospensione” del Fiscal Compact e di tutti gli altri meccanismi coercitivi utilizzati per annientare l’autonoma capacità economica dei paesi più deboli (quelli mediterranei, a cominciare dalla Grecia), si tratterebbe insomma di aprire una stagione del tutto diversa, con una UE “più Stato centrale” e quelli nazionali più ridotti a “regioni” con minori poteri.
Come sempre, in una Unione di tal fatta non si è tutti uguali. L’ha dimostrato la Germania, che aveva preparato la sua “legge di stabilità” per il prossimo anno con una serie di interventi parecchio costosi (oltre 69 miliardi) ma “postati” come “veicoli speciali” con patrimonio separato.
Un trucchetto degno dei democristiani anni ‘50 che però ha consentito di presentare il bilancio con un saldo finale ultra-virtuoso (-0,4% rispetto al Pil), ma ridicolmente falso (-2,4, ha ricalcolato la Corte dei Conti tedesca, bacchettando senza pietà la “doppia morale” del governo).
Ma altrettanto Berlino fa, da sempre, anche in materia di “aiuti di stato”, ad esempio con riguardo alle banche. E se tutti riconoscono il trattamento di favore riservato alle landesbanken (quelle considerate “non sistemiche” perché solo “regionali”, anche se di dimensioni spesso superiori a quelle “sistemiche” di altri paesi), c’è pur sempre lo spettro di Deutsche Bank che aleggia nell’aria.
Un istituto cui, con altro passaporto, sarebbe stato imposto di dichiarare fallimento dopo i tracolli sui subprime statunitensi, ma che è stato tenuto artificialmente in vita quando era arrivato a veder quasi azzerato il proprio valore azionario: 1 euro invece di 100 e passa…
L’assenza di nuove regole europee si fa sentire ovviamente anche nella preparazione della “legge di stabilità” italiana. Con le solite tentazioni di agire da arraffoni e i tentativi (‘giorgettiani’, per ora) di tenere il più possibile sotto controllo i cordoni della borsa.
In linea teorica, spiega Guido Salerno Aletta su TeleBorsa, bisognerebbe tornare alle regole del trattato di Maastricht – pareggio strutturale e debito pubblico al 60% del Pil – ma viene da ridere al pensiero (l’Italia viaggia sopra il 150%), anche perché è venuto meno il Fiscal Compact, che prevedeva il rientro al ritmo di un ventesimo ogni anno (in pratica, oltre 50 miliardi di tagli ogni 12 mesi).
Oltretutto abbiamo un governo di improvvisatori a fin elettorali, che riducono sistematicamente le entrate dello Stato pur di favorire il proprio blocco sociale.
La flat tax, per esempio, se davvero realizzata, taglierà le entrate per lasciare molti soldi nelle tasche dei più ricchi. Il “taglio del cuneo fiscale”, allo stesso modo, mette a carico dello Stato i quattro spicci che dovrebbero così entrare come netto in busta paga per i lavoratori dipendenti, evitando agli “imprenditori” di aumentare gli stipendi usando i loro profitti.
Ma contemporaneamente “l’Europa” e soprattutto la Nato chiedono di aumentare drasticamente sia la spesa militare che gli “aiuti” di qualsiasi genere all’Ucraina.
Più spese e meno entrate. Il sistema sicuro per andare in difficoltà, tanto più che “i mercati” sorvegliano senza pietà, aspettando il momento buono per far partire operazioni speculative pesanti ma, per loro, redditizi.
Su tutto, per ironia finale, troneggia quell’”obbligo al pareggio di bilancio” inserito in modo cialtronesco ma unanime nella Costituzione (nell’art. 81), con cui i “mercatisti” di ogni tendenza politica hanno tagliato gli strumenti e le mani per qualsiasi intervento pubblico di qualche rilevanza positiva.
Il “pilota automatico” s’è rotto ma i suoi detriti ostacolano la circolazione. E chi governa, in Italia come in Europa, ormai ha disimparato a guidare…
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Patto di Stabilità, Anno Zero
Guido Salerno Aletta – Editorialista dell’Agenzia Teleborsa
A Bruxelles è ancora buio pesto: a poche settimane dalla scadenza del termine per la presentazione della NADEF, la Nota di Aggiornamento del DEF, non si conoscono ancora le regole del nuovo Patto di Stabilità, dopo la sospensione del Fiscal Compact e la sua definitiva messa in disarmo.
Si rientra nell’alveo dei Trattati europei, mettendo fine alla avventura iniziata nel 2012 con la disciplina speciale, dettata da un apposito Trattato internazionale, che prevedeva come obiettivi a medio termine il pareggio strutturale dei bilanci pubblici e l’abbattimento del debito eccedente il rapporto del 60% sul Pil al ritmo di 1/20 l’anno.
Si ritorna comunque ai due criteri fondamentali che sono stati elaborati fin dal Trattato di Maastricht, il limite del 3% al deficit e la riduzione tendenziale del rapporto debito/Pil eccedente il 60%, ma all’interno di una architettura più articolata che tenga conto su base pluriennale di fattori sia soggettivi che oggettivi.
Da una parte sarebbero tenuti maggiormente sotto freno i bilanci degli Stati maggiormente indebitati, e dall’altra potrebbero essere favorite alcune tipologie di investimento pubblico, ad esempio nel settore della transizione ambientale, della digitalizzazione e della difesa, che sarebbero scorporati dal calcolo del deficit.
Ci sono in corso dibattiti politici assai complessi, vista la grande eterogeneità delle situazioni contingenti: dopo la sospensione del Fiscal Compact per via delle condizioni macroeconomiche avverse, a partire dal 2020 per via della emergenza sanitaria e poi dal 2022 a causa delle conseguenze della guerra in Ucraina, i conti pubblici della gran parte dei Paesi europei si sono gonfiati di nuovo debito.
Nel primo biennio, il 2020-2021, sono aumentate a dismisura le spese pubbliche finanziate in disavanzo per sostenere le famiglie e le imprese a fronteggiare la crisi economica derivante dalla pandemia; nel secondo biennio, il 2022-2023, sono aumentate in modo consistente quelle volte a sostenere i bilanci delle famiglie e delle imprese che si trovavano a fronteggiare un aumento enorme dei prezzi dei prodotti energetici, di quelli al consumo ed alla produzione.
Ci sarebbe dunque da gestire innanzitutto una sorta di rientro verso la “normalità”, ma viviamo in tempi di assoluta imprevedibilità sul versante geopolitico ed economico: nessuno sa prevedere come evolverà la situazione in Ucraina, quali saranno gli andamenti del prezzo internazionale del petrolio e del gas liquefatto, quale sarà l’impatto dell’aumento dei tassi di interesse sui bilanci di famiglie ed imprese.
E’ invece assolutamente certo l’abbandono di tutta l’architettura normativa e di quella tecnica a livello statistico e previsionale che era stata elaborata a partire dal 2012 al fine di presidiare gli obiettivi del Fiscal Compact.
Diviene così del tutto inutile la previsione dell’articolo 81 della Costituzione che fu modificato per introdurre l’obbligo del pareggio di bilancio, derogabile solo con un voto motivato a maggioranza assoluta; non si discuterà più dell’Output-gap, della distanza tra il Pil reale e quello potenziale, né del Nawru, che definisce il tasso di disoccupazione indispensabile al fine di evitare che le tensioni sul mercato del lavoro determinino richieste di aumenti salariali incompatibili con una crescita non inflazionistica dell’economia.
Questo è il segno dei tempi che sono cambiati radicalmente: lo Stato non è più un soggetto potenzialmente perturbatore degli equilibri dell’economia, che deve limitare al massimo la propria azione per non interferire con le dinamiche del mercato, ma diviene un soggetto dinamico, attivo, che ne deve guidare la crescita verso obiettivi sostenibili dal punto di vista ambientale e coerenti con la strategia geopolitica che vede l’Europa allineata ai driver statunitensi, in competizione tecnologica con la Cina e non più dipendente dalla energia proveniente dalla Russia.
Tra il dire ed il fare, c’è di mezzo il mare.
Intanto restano le macerie del Fiscal Compact: la riforma dell’art. 81 della Costituzione, l’Output-gap, il Nawru…
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