Francesco Giavazzi, economista bocconiano, utraliberista convinto e orgoglioso, nel 2013 ha firmato la prefazione della nuova edizione italiana di Liberi di scegliere, testo classico di Milton Friedman ripubblicato in quell’occasione dall’Istituto Bruno Leoni, think thank dell’ultraliberismo italiano e, recentemente, anche del negazionismo climatico.
Editorialista e commentatore del Corriere della Sera e de LaVoce.info, Francesco Giavazzi è, certamente, uno dei più agguerriti rappresentanti del pensiero economico dominante negli ultimi 40 anni nella sua versione più radicale: Stato minimo, privatizzazioni, fiducia cieca e assoluta nel mercato, smantellamento di servizi pubblici e dei diritti dei lavoratori, pareggio di bilancio ed austerity intesi come assiomi teologici.
E infatti, con questo curriculum sembra incredibile che, proprio dalle pagine del Corriere della Sera abbia scritto, lo scorso 7 novembre, un articolo dal titolo inequivocabile – “Il potere d’acquisto perduto” – in cui indica, senza mezzi termini, come unico rimedio all’impoverimento dei salari, l’introduzione di una regola automatica di recupero dell’inflazione reale. Qualcosa, tutto sommato, di non troppo dissimile dalla vecchia scala mobile.
Scrive Giavazzi: “L’inflazione accumulata nel periodo di vigenza dell’ultimo contratto è circa il 17%. Il nuovo accordo permette di recuperare un terzo dell’inflazione accumulata. Non basta per evitare una riduzione del potere d’acquisto. I nuovi salari lasceranno per strada circa l’11%. Tutti i contratti intervengono a posteriori, non solo quelli della pubblica amministrazione. Non riescono quindi a tenere il passo con l’inflazione. Il contratto collettivo nazionale, che da sempre il sindacato difende, non è il sistema migliore per garantire il potere d’acquisto dei salari. I sindacati si troveranno sempre a dover affrontare un problema di recupero del potere d’acquisto.”
Che poi aggiunge: “Fu Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, applicando una proposta dell’economista Ezio Tarantelli che per questo fu ucciso dalle Brigate rosse, a cambiare in modo radicale la contrattazione stabilendo che i contratti dovessero essere firmati guardando alle aspettative di crescita futura dei prezzi, non alla crescita passata. In questo modo cancellò alla base gli effetti della scala mobile che rendeva persistente qualunque aumento temporaneo dell’inflazione. Una mina vagante nel sistema economico nazionale.
Ma la condizione perché la contrattazione riformata nel 1993 possa proteggere il potere d’acquisto dei salari è che il negoziato sia più rapido e frequente di quanto normalmente accade. Sono i ritardi, a volte anche di sette anni, come succede spesso, che non consentono ai salari di recuperare sul costo della vita. Dopo un aumento temporaneo dell’inflazione, i prezzi si fermano, come accadde nel 2022-23, ma l’aumento intanto accumulato nel livello dei prezzi non si recupera più se il contratto guarda solo all’inflazione attesa per il futuro. La contrattazione orientata al futuro difficilmente riuscirà a recuperare quanto perduto. Chiedere al governo di usare l’arma fiscale è un errore”.
La vita riserva sempre delle grandi sorprese. Chi avrebbe mai immaginato che, a demolire più di trent’anni di “politica dei redditi” e di concertazione basate sulla complicità di CGIL, CISL e UIL con tutti i governi che si sono alternati nell’arco di tre decenni, sarebbe stato proprio uno dei più accesi ultraliberisti come Francesco Giavazzi?
L’accordo sul costo del lavoro del 23 luglio 1993, citato da Giavazzi nel suo articolo, ridusse il salario a variabile dipendente del capitale e soppresse definitivamente la scala mobile. Inoltre riorganizzò la contrattazione collettiva introducendo un sistema di contratti a due livelli: un CCNL di categoria di durata quadriennale (normativa) e biennale (retributiva), e la contrattazione aziendale.
La dinamica salariale venne rigorosamente vincolata all’inflazione programmata dal governo, senza più alcun meccanismo di adeguamento automatico ai prezzi reali. Ma se l’inflazione media registrata in Italia tra il 1995 e il 2020 è stata del 1,2%, nel triennio 2021-2023, è volata al 17,3%, peraltro, calcolata sull’indice IPCA depurato, introdotto nel modello contrattuale del 2009 su accordo tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil.
E va detto che l’”IPCA depurato” è un indice artificiale che esclude dal calcolo i beni energetici importati e gran parte dei consumi quotidiani delle famiglie operaie e impiegate.
E’ proprio in ragione di quel famigerato accordo del 1993 che, in Italia, i salari reali sono sostanzialmente al palo da più di trent’anni Da allora, nella distribuzione del reddito, si è registrata una caduta crescente della quota dei salari sul PIL ed una crescente quota dei profitti, che si è ormai stabilizzata su valori rispettivamente del 40% per i salari e del 60% per i profitti.
Tra il 1991 e il 2022 i salari reali in Italia sono cresciuti solo dell’1% a fronte del 32,5% in media registrato nell’area OCSE. Non è affatto un caso se, in materia di salari, l’Italia è decisamente il paese peggiore a livello europeo. Proprio da una proiezione sugli ultimi trenta anni è emerso che solo nel nostro paese i salari sono calati nei 30 anni che vanno dal 1990 al 2020.
Per l’esattezza le retribuzioni annuali medie hanno registrato una contrazione del 2,9%. E si tratta di una percentuale che non tiene conto degli effetti della pandemia, delle conseguenze della guerra in Ucraina (ovvero, della NATO contro la Russia) che ha fatto schizzare i tutti prezzi energetici e dell’enorme incremento della spesa militare italiana che la NATO vuole a portare al 5% del PIL e che ha già raggiunto il record di 34 miliardi di euro all’anno.
Dunque, se non si mette in campo, da subito, un meccanismo automatico di recupero dell’inflazione reale che da relativamente stabile per trent’anni, a partire dal 2021 ha cominciato a galoppare a due cifre, i salari continueranno a crescere molto meno del costo della vita reale, producendo una perdita di potere d’acquisto che si continuerà ad accumulare anno dopo anno.
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