Sulla conclamata decapitazione del vertice italiano di Anonymous – un leitmotiv ripetuto fino alla nausea da tutte le polizie del mondo ogni volta che un’operazione repressiva viene messa in atto contro il network di hacktivisti – non vale neppure la pena di pronunciarsi. A parlare sono i fatti. Ed i fatti dicono che il sito del tribunale di Roma ieri pomeriggio è stato messo K.O. da un attacco Ddos. Inequivocabile la firma sul biglietto del pacco sorpresa: “Anonymous Italia. Siamo ancora vivi bastardi”.
Intanto poco alla volta emergono i primi particolari sull’operazione condotta nella mattinata di venerdì dalla Polizia Postale e dalla Procura di Roma che ha portato all’arresto di 4 persone ed alla denuncia di altre 10. E cominciano a fare capolino anche numerosi dubbi sulla versione ufficiale fornita dalle forze dell’ordine a stampa e televisioni.
Il teorema avanzato dalla procura di Roma si basa su un semplice assunto. Gli indagati, accusati tutti di “associazione a delinquere di stampo virtuale” avrebbero utilizzato il logo di Anonymous per attaccare istituzioni ed aziende private con l’intento di offrirsi in un secondo momento alle stesse come consulenti per poterne trarre profitto. Di quali somme si stiamo parlando? Qui cominciano le prime imprecisioni. Molto grosse a dire la verità. Tra le cifre riportate dal Corriere («consulenze per 50-60 mila euro») e quelle riportate dal Nuovo Quotidiano di Puglia («300 euro») c’è un’oscillazione a dir poco vertiginosa.
Altro fatto curioso però è che, a differenza da quanto emergerebbe dalle ricostruzioni giornalistiche, tale fattispecie di reato non coinvolgerebbe la totalità degli arrestati. Ad affermarlo non siamo noi, ma le parole dello stesso giudice per le indagini preliminari che, riferendosi ad L.L. (21enne di Faenza), afferma come nel suo caso «i comportamenti illeciti non sono stati ispirati a fini di lucro».
Inoltre c’è un altro aspetto che colpisce. Sempre il quotidiano di Puglia, riferendosi a G.P. (34 anni, salentino originario di Ugento ma trasferitosi da anni nella capitale), afferma come tra le vittime dell’hacker pugliese vi sia stato in passato «un noto e importante sito internet di informazione del Salento». Eppure tale sito non risultanell’elenco ufficiale degli attacchi fornito dalle forze dell’ordine. E, cosa ancora più importante, sono pochissime le norme che regolano la vita dell’universo di Anonymous. Una di queste è proprio quella di non attaccare i siti di informazione. Come è possibile dunque che G.P. ed i suoi “associati” in questo caso specifico ne abbiano utilizzato il logo per orchestrare un attacco ed ottenere un compenso come contropartita dell’assistenza tecnica fornita successivamente?
Ma le discrepanze non finiscono qui e riguardano, ancora una volta, le responsabilità attribuite a L.L. Di Faenza. Il Resto del Carlino afferma che le sue conversazioni siano state intercettate. Riportiamo testuali parole «L’1 settembre 2009 con il suo nickname N4pst3r, L. scriveva alle 15,57 «Io ho ownato», e poi «una banca», comunicando secondo la Procura l’avvenuta incursione nei database del sito della Banca di Lucca. Il giorno successivo lo stesso Loreti rendeva noto un attacco alla Banca di Imola». Eppure è la stessa procura di Roma ad affermare che le indagini nei confronti degli interessati erano cominciate solo nel 2011. E, per la cronaca, Anonymous nel 2009 in Italia non aveva ancora preso forma (i primi vagiti risalgono infatti al dicembre del 2010, in concomitanza con l’esplosione del Cablegate).
È lecito porre allora alcune domande. Se c’è qualcuno che ha “lucrato sull’emergenza” (come ha scritto l’Unità in relazione alla vicenda) di chi si tratta? Di una singola persona o della totalità degli arrestati? In quale contesto? E davvero si è servito del brand di Anonymous per fini personali? Difficile dirlo ed i dati di cui siamo in possesso fino a questo momento sono lungi dal dimostrarlo. Al contrario, da queste prime macroscopiche incongruenze si ricavano alcune impressioni.
Primo, la tesi secondo cui qualcuno si sia nascosto dietro la maschera di Guy Fawkes per meri fini economici presenta aspetti contraddittori: a dimostrarlo ci sarebbe la collocazione temporale di alcuni dei reati contestati e la tipologia degli obbiettivi attaccati. Secondo, l’intento degli investigatori, del procuratore aggiunto Capaldo e del sostituto procuratore Lori sembra essere quello far apparire gli indagati come ruba galline da strapazzo o approfittatori da quattro soldi piuttosto che giustizieri della rete (e con l’immagine di Anonymous screditata è ben difficile pensare che intorno ad essa si possano attivare meccanismi di solidarietà). Terzo, questa vicenda potrebbe dimostrarsi il banco di prova ideale per la messa a punto del reato di associazione a delinquere di stampo virtuale che, come ha sottolineato l’avvocato Fulvio Sarzana, «è già stata ritenuto in diverse occasioni dalla giurisprudenza non configurabile. E ciò è avvenuto sia in giudizi di merito che in Cassazione».
Non si tratterebbe certamente di una novità per il panorama giuridico italiano: è dagli anni ’70 infatti che nel nostro paese le istituzioni cavalcano gli eventi per introdurre reati associativi con leggi ad-hoc. Risultato? Nessuna disciplina codificata in senso classico ma solo una stratificazione di legislazioni emergenziali. E vista l’aria che tira in Italia negli ultimi mesi, con una classe politica tutta intenta a lanciare geremiadi invocando più sicurezza sul web (ultimo in ordine di tempo Renato Brunetta), viene da chiedersi se il vero obbiettivo dell’operazione Tangodown non sia Anonymous ma il varo di un giro di vite generalizzato contro la libertà di espressione sul web.
* InfoFreeFlow (@infofreeflow) per Infoaut
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