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La lezione della Thyssen

Seppellita in fondo a un lungo articolo nella sezione economia finanza e mercati di Repubblica del 14 maggio c’è la seguente precisazione: Heinrich Hieisinger, consigliere delegato della ThyssenKrupp, ha escluso che lo scorporo o la vendita dell’impianto acciai inossidabili di Terni sia legato alla condanna del manager Harald Espenhahn per l’omicidio con dolo preventivo dei sette operai torinesi. Anche un paio di giorni prima (ancora la sezione economica di Repubblica, 11 maggio) i responsabili dell’azienda avevano negato che ci fosse un nesso fra la sentenza torinese, gli applausi della Confindustria al condannato (in primo grado, certo), la possibilità dallo stesso ventilata che la TK potesse andarsene dall’Italia, e le decisioni in atto.

D’altra parte, il processo di dismissione era già nell’orizzonte delle lotte sulla chiusura del magnetico nel 2004-2005. Per esempio, un giovanissimo operaio ternano mi diceva allora: «Una multinazionale che può fare il bello e il cattivo tempo sull’andamento dell’acciaio nel mondo, se vogliono chiudere una fabbrica qui lo fanno senza pensarci due volte. Loro avranno un libro, un libro già scritto: leggono e fanno. Gli azionisti lo scrivono e gli amministratori delegati leggono e fanno». Altri spiegavano che nella conclusione amara dello sciopero del 2005 pesava un ricatto non dichiarato: se non si accettavano le sue condizioni, la ThyssenKrupp era perfettamente in grado di chiudere del tutto non solo il magnetico, ma tutto quanto, e trasferire le produzioni ad altre sue fabbriche sparse per il mondo. Nell’accordo firmato allora, la permanenza a Terni del resto delle produzioni era condizionata da impegni delle amministrazioni che non sono stati mantenuti (la creazione di infrastrutture stradali e ferroviarie ad hoc) o non si possono mantenere (uno sconto sul costo dell’energia, che è vietato dalla normativa europea).
Tuttavia, nella logica del «dopo questo, quindi per questo», il fatto che lo scorporo di Terni sia annunciato sull’onda della sentenza di Torino è come minimo uno straordinario colpo di teatro e un pesante gesto di pubbliche relazioni e di strategia comunicativa. In primo luogo, questa relazione esplicitamente negata ma subdolamente suggerita sposta la responsabilità dei 3500 posti di lavoro a rischio non più su chi li licenzia ma su chi ha «provocato» il licenziamento: e guarda caso, sono i nemici pubblici numero uno del nostro tempo, i magistrati e la Fiom. In secondo luogo, su un piano più di lungo periodo, questa è quella che conosciamo coma la logica della rappresaglia: il potere offeso si rifà sugli innocenti, e la colpa della strage non è di chi li uccide ma di chi ne ha provocato l’onnipotente furore violando l’intangibilità del suo dominio. Il capitale sovrano non solo non accetta responsabilità ma, come una vera e propria forza di occupazione, vuole spazio libero e terra bruciata interno a sé: nessuna regola, nessun contropotere, solo la forza bruta della violenza e del ricatto. Chi si mette di mezzo lo fa non solo a suo rischio, ma a rischio di tutti.
Sappiamo bene come un successo delle rappresaglie sia stato proprio quello di generare un diffuso senso comune antipartigiano. Su un piano diverso, ma non poi tantissimo, ci sono già i sintomi di un nuovo senso comune anti-magistrati e anti-sindacale che mette le vite umane in secondo piano rispetto alla sovranità delle aziende. Questo è il senso non tanto dell’applauso della Confindustria a Espenhahn, quanto dell’invito stesso: lo scandalo sta nel chiamarlo a parlare, poi chiaro che gli batti le mani, (mica l’hai invitato per sputargli in faccia) da cui dipende, in una subalternità sempre più gravosa e inattaccabile, la sopravvivenza di chi vive del proprio lavoro e per viverci corre il rischio di morirci. Se denunciare gli incidenti e punire chi ne ha la colpa significa mettere a rischio le condizioni di vita degli altri, allora c’è davvero il rischio che la pratica di quei padroncini di cantiere che, con il silenzio forzoso dei loro dipendenti, nascondevano lontano il corpo degli operai uccisi sul lavoro diventi il paradigma del diritto alla vita di chi lavora in Italia.
Se invece tutto questo non c’entra – e sono convinto che, come confermano i compagni del sindacato a Terni, al di là del teatro non c’entra – allora la domanda è un’altra: possibile che si tratti di un imprevedibile fulmine a ciel sereno, una subitanea catastrofe naturale? Non sarà cioè che, nel neofeudalesimo della globalizzazione, in un’Europa governata, come scriveva Marco D’Eramo, da poteri non eletti e non sottoposti a nessun controllo democratico, noi subiamo le scelte di poteri lontani e imperscrutabili come ineluttabili fatalità? O non sarà invece che, mentre tutto questo era nell’aria, le persone e le istituzioni che sono responsabili di seguire e sorvegliare le politiche industriali in Italia – governo, opposizione, università, uffici studi, sindacati…- non avevano visto i segni o non se ne erano preoccupati, e quindi non avevano preparato una strategia, una risposta, una alternativa – in altre parole: una politica?
Nel frattempo, proprio quando di politica e di governo ci sarebbe più bisogno, l’amministrazione di centro-sinistra di Terni va in frantumi per beghe locali fra le anime diverse del partito a vocazione maggioritaria. Poi si lamentano quando qualcuno gli dice che non sono affidabili.

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