da “il manifesto”
La Germania non tira più
I due paesi leader del Vecchio Continente hanno smesso di crescere, non di dettar legge. Le borse scendono, sostenute per poco dall’illusione di una «ripresa» Usa e dalla Cina che rivaluta lo yuan +0,1%. Una «crescita» da Italia berlusconiana, ma a questo è ridotta – per ora – Berlino
Le ragioni sono abbastanza chiare. Le importazioni – fatto raro per questo paese – sono risultate superiori alle esportazioni, i consumi sono calati e gli investimenti nelle costruzioni stanno rallentando molto. Ha influito anche la revisione delle cifre della recessione nel 2008-09: allora il Pil tedesco era crollato del 5,1%, non del 4,7. Proprio nel giorno del vertice franco-tedesco, insomma, sembra impossibile l’obiettivo fissato dalla Merkel: una crescita del 3,6% per l’anno in corso. Cala l’autorevolezza, è chiaro.
Philipp Roesler, ministro liberale delle finanze, ha tentato di minimizzare: «un riflesso del primo trimestre estremamente positivo». Per poi suggerire – che monotonia – la «riduzione delle tasse per rilanciare l’economia». Mentre è rimasto ferocemente contrario all’ipotesi di emissione di «bond europei» al posto di quelli nazionali, bersagli troppo facili per la speculazione. Ma qualcosa si è rotto anche nell’ortodossia germanica: la Spd sposa l’idea e anche alcuni parlamentari Dc (il partito della Merkel) si smarcano dalla linea ufficiale de governo.
Si vedrà. Intanto le borse non hanno preso per niente bene la notizia. A pagare dazio sono stati soprattutto i tioli manifatturieri – se si ferma la Germania diventa durissima per tutti gli altri paesi, «contoterzisti» dipendenti dalle commesse teutoniche. E proprio Francoforte ha guidato a lungo – insieme a Milano – la lista delle borse che andavano peggio. Per Piazza Affari si è sommato anche l’effetto «manovra». Gli analisti l’hanno trovata «troppo squilibrata dal lato delle entrate, il che rischia di generare uno scenario recessivo per l’economia italiana». Insomma, non ci sono «misure per la crescita», perché privare di diritti chi lavora e farlo magari faticare di più (pagandolo meno) non è affatto una politica di sviluppo. Deprime i consumi – lo rivelano anche i dati tedeschi: nonostante i salari siano lì mediamente più alti del 50% e più bassi i prezzi dei prodotti di prima necessità – e provoca ulteriore rallentamento.
Qualche effetto sembra averlo avuto anche l’aumento della cosiddetta «Robin tax» nel decreto del governo: Eni, Enel, Terna, Snam sono state le più colpite dalle vendite. Ma nel pomeriggio due buone notizie Usa – un +0,9% nella produzione industriale del mese di luglio (l’aumento più alto dell’anno) e la conferma della «tripla A» al debito federale da parte dell’agenzia Firch – hanno permesso ai mercati una timida riemersione dal pozzo in cui erano caduti. Milano ha chiuso a -0,87% dopo aver toccato il -3,2, per esempio.
Anche Wall Street aveva in un primo momento preferito credere al bicchiere mezzo pieno. Gli altri dati macro erano infatti assai meno entusiasmanti. I prezzi delle importazioni erano stati a luglio molto più alti del previsto (+0,3), che significa inflazione importata (non limitabile). E l’industria delle costruzioni si confermava in piena crisi: -1,5% le nuove case costruite a luglio, ma soprattutto -3,2 i permessi edilizi chiesti e concessi; della serie, andrà ancora peggio.
Sulla promozione di Fitch, evidentemente, i mercati debbono aver ragionato come Romano Prodi, ieri, in un’intervista: «sono come Qui, Quo, Qua, sono tutte emericane, si mettono d’accordo, istintivamente rispondono a stimoli politici».
Soltanto la decisione di Pechino di lasciar fluttuare maggiormente lo yuan ha restituito nel finale un po’ di sprint a Wall Street. La Peoples Bank of China ha fissato infatti il tasso di cambio dello yuan a 6,3925 contro il dollaro, segnando un nuovo record per il quinto giorno consecutivo. Non è un caso. «I tempi sono maturi» per allargare la fascia di oscillazione dello yuan nei confronti del biglietto verde, ha scritto in un commento in prima pagina il quotidiano China Securities Journal, considerato molto «vicino» alla Banca centrale cinese. In effetti, è una buona notizia per le esportazioni Usa, che potranno avvantaggiarsi di un cambio più favorevole verso la Cina. Ma è anche il segnale che Pechino, ormai, non ha più bisogno di tenere «agganciata» la propria moneta al declinante dollaro. Anzi…
«Solo l’invasione dei marziani può rilanciare l’economia Usa»
Francesco Paternò
Eliseo L’Europa carolingia scopre che, contro la crisi, è necessario un «governo economico europeo». Elogio a Italia e Spagna: «Prese decisioni importanti» VERTICE FRANCO-TEDESCO Sarkozy e Merkel: tasse sulla transazioni, no agli
Toh, ci vuole più governo
Dal loro appuntamento parigino, Sarkozy e Merkel hanno fatto sapere essenzialmente tre cose. 1) Per provare a rispondere alle turbolenze dei mercati ci sarà un «governo di natura economica» che si «riunirà una volta al mese», possibilmente guidato dal presidente dell’eurogruppo Herman Van Rompuy. 2) Da settembre, c’è l’idea di una «tassazione sulle transizioni finanziarie»; 3) tutti gli stati dell’Unione europea devono avere come obiettivo la riduzione del debito e del deficit e dunque si chiede che il vincolo del pareggio di bilancio sia una delle «regole d’oro che tutti quanti dobbiamo avere in Costituzione». Questo il menù à la carte. A prezzo fisso, Sarkozy e Merkel sottolineano la comune «volontà assoluta di difendere l’euro» e di «assumersi le responsabilità particolari in Europa che sono quelle della Francia e della Germania», temi sui quali c’è «un’identità di vedute completa». Già che c’erano, hanno pure fatto sapere che «non c’è nessun bisogno di aumentare l’entità del fondo di stabilità europeo». Se fallissero l’Italia o la Francia, i soldi non basterebbero comunque e ci sarebbe soltanto un si salvi chi può.
La proposta del «governo di natura economica» suona come il tentativo di dare una voce unica alla politica. Un messaggio per due: alla speculazione e anche alla Banca centrale europea, quella Bce che da novembre sarà guidata da Mario Draghi e che oggi sta intervenendo direttamente sui mercati, comprando titoli di stato tedeschi e spagnoli dopo averlo fatto con quelli greci e dopo aver dettato la linea al governo Berlusconi. Più governo significa lasciare meno spazio agli speculatori, che operano tranquilli quando la politica è debole. Il caso italiano, dove la pressione dei mercati ha trovato un’autostrada nello stallo politico del paese, è stato finora il più evidente, e non è un caso che di Spagna non si parli quasi più dopo che il premier Josè Zapatero ha annunciato elezioni anticipate per novembre. Per quanto riguarda la nuova tassazione, c’è l’idea di unificare un prelievo che oggi oscilla intorno al 20% (era il 12,5 in Italia fino a venerdì scorso), un modo per frenare la corsa della speculazione. Il terzo punto, mettere in costituzione la regola del limite al bilancio, non inciderà sui listini di borsa, ma rischia di creare una tale rigidità nel sistema che gli effetti potrebbero essere peggiori del male.
Come preannunciato da Berlino, Sarkozy e Merkel hanno bocciato l’introduzione degli eurobond, titoli a debito che nella sostanza significano condividere i guai di tutti facendo pagare di più chi sta meglio. «Gli eurobond si potranno immaginare un giorno, ma alla fine del processo di unificazione dell’Unione europea. Potranno eventualmente essere la fine del processo di unione totale ma non l’inizio perché si rischia di bloccare il processo di sviluppo economico di alcuni paesi», ha detto in conferenza stampa il presidente francese; «non hanno legittimità democratica» e «non sarebbero in grado di controllare il debito». Sarkozy sembrava il ventriloquo di Merkel: gli eurobond servirebbero «a garantire la tripla A al debito di tutti i Paesi della zona euro», ma creerebbero un meccanismo per cui «Francia e Germania garantiscano per il debito di tutti», senza poter «averne il controllo» e dunque annrebbero a «minare la credibilità dei nostri paesi». Non tutti la pensano così. L’idea degli eurobond è stata lanciata nel dicembre scorso dal ministro dell’economia Giulio Tremonti e dal premier lussemburghese, sposata dalla Spd tedesca e ieri mattina ritenuta «molto interessante» da una fonte della Commissione europea a Bruxelles. Tremonti l’ha rilanciata alla vigilia del vertice, con una mossa anche tattica: se ci fossero stati gli eurobond, ha detto, non avremmo avuto bisogno di fare la nuova manovra. Invisa (ma l’ha taciuto) a buona parte del suo stesso governo, oltre che all’opposizione.
Infine, proprio per i governi di Italia e Spagna, Sarkozy e Merkel hanno avuto parole pubbliche di elogio: «Hanno preso in questi giorni decisioni molti importanti per la credibilità della zona euro». Sottintendendo: hanno fatto quello che gli abbiamo chiesto, e non avevano scelta.
Mi chiamo Eurobond. Come funzionerebbero le euro obbligazioni
Merkel-Sarkozy: un governo per l’euro e tassa sulle transazioni
dal nostro corrispondente Marco Moussanet
PARIGI – Il messaggio politico, ancora una volta, c’è tutto. Sui contenuti, le misure concrete, i dettagli operativi restano dubbi e perplessità. In particolare per la rinnovata bocciatura delle obbligazioni europee, da molti ritenute lo strumento ideale per rispondere efficacemente alla sfiducia dei mercati.
L’attesissimo vertice tra il presidente francese Nicolas Sarkozy e la cancelliera tedesca Angela Merkel, andato in scena ieri pomeriggio all’Eliseo, ha insomma confermato le attese della vigilia, senza riservare particolari sorprese. Anche se la Merkel ha detto che nella difesa della moneta unica e nel rafforzamento della cultura della stabilità «siamo entrati in una fase nuova». Di «integrazione economica rafforzata» della zona euro, ha specificato Sarkozy.
Nella lettera che verrà inviata questa mattina al presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, i due leader fanno tre proposte concrete.
La prima riguarda la governance dell’eurozona, con la creazione di un Consiglio dei capi di Stato e di Governo dei 17 Paesi membri che si riunirà (almeno) due volte all’anno e che eleggerà un presidente stabile con un mandato di due anni e mezzo. Merkel e Sarkozy indicano per il primo mandato proprio Van Rompuy.
La seconda è finalizzata a far sì che entro l’estate del 2012 i 17 adottino la cosiddetta ‘regola d’oro’. Provvedano cioè a inserire delle loro carte costituzionali l’obbligo per i Governi di redigere leggi Finanziarie pluriennali, di legislatura, che abbiano l’obiettivo dell’equilibrio di bilancio. La Germania ha già una norma del genere che fissa, a partire dal 2016, un tetto al deficit strutturale federale pari allo 0,35% del Pil. E vieta ai Laender, a partire dal 2020, bilanci in disavanzo. In Francia la norma dovrebbe essere approvata entro fine anno ma per la maggioranza qualificata dei due terzi mancano ancora una quarantina di voti.
La terza proposta è sull’istituzione di una tassa europea sulle transizioni finanziarie. Entro settembre i ministri delle Finanze dei due Paesi dovranno mettere a punto i particolari: entità del prelievo, base imponibile, modalità di applicazione. Non si tratta certo di una novità. Francia e Germania sono da tempo schierate fianco a fianco su questo fronte e recentemente la stessa Commissione Ue ha immaginato di ‘fare’ il proprio bilancio anche grazie a una tassa dello 0,01% sugli scambi di derivati e dello 0,1% su quelli di titoli di debito sovrano. Ma c’è sempre stato il ‘no’ della Gran Bretagna, che difende la piazza finanziaria di Londra. Merkel e Sarkozy hanno comunque dichiarato che per loro si tratta di «una priorità assoluta».
Ci sono poi due iniziative strettamente franco-tedesche, ma che dovrebbero servire ad aprire una strada e a dimostrare ai mercati quanto sia serio l’impegno comune. All’inizio dell’anno prossimo i rispettivi ministri competenti dovranno formulare una serie di proposte concrete perché dal 2013 si proceda a una armonizzazione fiscale delle norme da una parte e dall’altra del Reno, a partire dalla tassazione sulle società. Sempre dal 2013, cinquantesimo anniversario del Trattato dell’Eliseo firmato da Konrad Adenauer e Charles de Gaulle, i due Paesi prepareranno insieme i loro budget, in modo da renderli sempre più omogenei.
Quanto agli eurobond, Merkel e Sarkozy hanno risposto all’unisono: non oggi. Anche se il presidente francese ha aggiunto «forse domani» e la cancelliera ha dato l’impressione di pensare «forse mai». «Siamo in democrazia – ha detto la Merkel al riguardo – e il dibattito è sempre importante e benvenuto. Ma ho l’impressione che a volte la gente cerchi la panacea contro la crisi e veda questa panacea nelle obbligazioni europee. Io non credo a questa soluzione unica, la questione è di cosa abbiamo bisogno oggi e penso che le nostre proposte siano le più adatte».
«Gli eurobond – ha commentato Sarkozy – servirebbero a garantire qualcosa, cioè la totalità del debito sovrano della zona euro, su cui non abbiamo controllo. Un giorno, forse. Ma alla fine del processo di integrazione economica, non all’inizio».
Il presidente e la cancelliera hanno infine ribadito che la dotazione del Fondo di stabilità (l’Efsf) «è sufficiente» e apprezzato lo sforzo dell’Italia. «Il nuovo programma va nella direzione indicata dal Patto di stabilità», ha detto la Merkel. «Si tratta – ha aggiunto Sarkozy – di decisioni estremamente utili per la stabilità dell’euro».
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Perché appoggio gli eurobond
di George Soros
La soluzione per la crisi dell’euro deve contemplare tre pilastri: riforma e ricapitalizzazione del sistema bancario, un sistema di eurobond e un meccanismo di uscita.
Sul primo punto va considerato che il Trattato di Maastricht, relativo all’Unione europea, è stato ideato per affrontare solamente gli squilibri nel settore pubblico; ma, come abbiamo visto, gli eccessi del settore bancario si sono rivelati di gran lunga superiori. L’introduzione dell’euro ha scatenato un boom del settore immobiliare in Paesi come Spagna e Irlanda. Le banche dell’Eurozona si sono indebitate fino al collo e sono state le più colpite dal collasso del 2008. Ora devono essere urgentemente protette dalla minaccia di insolvenza.
Il primo passo è stato quello di rivolgersi al Fondo europeo per la stabilizzazione finanziaria (European financial stability facility), che è stato chiamato in causa per salvare banche e Governi. Ora servono altri interventi. Bisogna aumentare in modo sostanzioso il capitale azionario delle banche. E se a garantire la solvibilità delle banche deve essere un’agenzia europea, questa deve altresì sorvegliare i medesimi istituti.
Un’agenzia bancaria europea interromperebbe la relazione incestuosa tra banche ed enti di vigilanza, all’origine degli eccessi che hanno alimentato l’attuale crisi.
E interferirebbe decisamente meno con la sovranità nazionale di quanto non facciano le politiche fiscali nei confronti dell’Ue o di un’autorità europea.
Il secondo elemento riguarda gli Eurobond (o euro-obbligazioni) di cui necessita l’Europa. L’introduzione dell’euro doveva rafforzare la convergenza, ma di fatto ha creato delle divergenze, che hanno scatenato ampi livelli di indebitamento e competitività pronti a separare gli Stati membri. Se i Paesi fortemente indebitati dovessero pagare pesanti premi di rischio, il loro debito diventerebbe insostenibile. Questo è esattamente ciò che sta accadendo.
La soluzione è ovvia: i Paesi in deficit devono poter rifinanziare la maggior parte del debito alle stesse condizioni dei Paesi in surplus. Il migliore modo per farlo sarebbe quello di autorizzare l’emissione di Eurobond, che sarebbero congiuntamente garantiti da tutti gli Stati membri.
Il principio è chiaro, ma i dettagli richiederanno molto lavoro. Quale agenzia sovranazionale sarà responsabile dell’emissione degli eurobond? Quali regole dovrà seguire l’agenzia per autorizzare l’emissione? In che modo farà rispettare le regole?
Presumibilmente, gli Eurobond saranno sotto il controllo dei ministri delle Finanze appartenenti all’Eurozona. Il board costituirà la controparte fiscale della Banca centrale europea, e la controparte europea del Fondo monetario internazionale.
Il dibattito ruoterà intorno ai diritti di voto. La Bce funziona in base al principio di un voto per Paese; il Fmi assegna i diritti di voto a seconda dei contributi di capitale da parte dei Paesi. Quale sistema dovrebbe prevalere? Il primo potrebbe dare carta bianca ai Paesi debitori che si sentirebbero autorizzati a incrementare i propri deficit; il secondo potrebbe accentuare lo scenario di un’Europa a due velocità. Un compromesso sarà necessario.
Dal momento che il destino dell’Europa dipende dalla Germania, e poiché l’emissione degli Eurobond metterà il credito della Germania a rischio, il compromesso dovrà chiaramente partire dalla Germania. La Germania ha però una strana idea di politica macroeconomica: vorrebbe che il resto d’Europa seguisse il suo esempio. Ma ciò che funziona per la Germania non funziona necessariamente per gli altri Paesi: nessun Paese può trovarsi in surplus commerciale cronico senza che altri Paesi incorrano in deficit. La Germania deve proporre regole che possano essere facilmente seguite dagli altri Paesi.
Tali regole devono consentire una graduale riduzione dell’indebitamento, oltre a permettere ai Paesi con un alto tasso di disoccupazione, come la Spagna, di continuare a perseguire il disavanzo di bilancio. Le regole che coinvolgono il raggiungimento dei target per l’aggiustamento ciclico dei deficit possono portare a termine gli obiettivi appena menzionati. Le regole devono altresì riconoscere i propri limiti, e devono quindi restare aperte ad eventuali modifiche e migliorie.
Bruegel, il think tank con sede a Bruxelles, ha proposto che gli Eurobond costituiscano il 60% del debito degli Stati membri verso l’estero. Considerati gli elevati premi di rischio attualmente predominanti in Europa, questa percentuale risulta troppo bassa per dare pari opportunità a tutti. A mio avviso bisognerebbe emettere Eurobond fino al limite che fisserà il board. Maggiore sarà il volume di euro-obbligazioni che un Paese cercherà di emettere, più severe saranno le condizioni imposte dal board. Il board non dovrebbe avere problemi a imporre la propria volontà, perché negare il diritto di emettere eurobond sarebbe un potente deterrente. Occorre aumentare la sorveglianza in modo tale da avvisare prontamente i Paesi in caso di violazione.
Tutto ciò ci porta dritti al terzo problema irrisolto: cosa succede se un Paese non è disposto o non è in grado di attenersi alle condizioni concordate? L’incapacità di emettere Eurobond potrebbe tradursi in un default disordinato o in una svalutazione, che in assenza di un meccanismo di uscita, avrebbe conseguenze catastrofiche. Un deterrente che risulta troppo pericoloso da intraprendere non è credibile. La Grecia ne è un chiaro esempio.
Dei tre problemi quest’ultimo è il più difficile da risolvere, e non pretendo di avere una soluzione a portata di mano. Molto dipenderà dal modo in cui si risolverà la crisi greca. Si potrebbe ideare una via di uscita ordinata per un piccolo Paese come la Grecia, senza tuttavia applicare tale soluzione a un Paese grande come l’Italia. In tal caso, il sistema degli Eurobond dovrebbe prevedere precise sanzioni che non comportino eventuali vie di fuga – un chiaro esempio potrebbe essere un ministero delle Finanze europeo che abbia legittimità politica e finanziaria e che emerga dall’intenso dibattito di questi ultimi tempi e da una presa di coscienza da parte di tutti (soprattutto dalla Germania).
Una cosa è certa: i tre problemi di cui abbiamo parlato devono essere risolti affinché l’euro possa sopravvivere. Ma i mercati finanziari potrebbero non offrire la tregua necessaria per mettere in atto nuovi accordi.
Sotto la costante pressione dei mercati, il Consiglio europeo potrebbe trovarsi nelle condizioni di dover trovare un accordo tappabuchi per evitare la calamità. Potrebbe autorizzare la Bce a concedere prestiti direttamente ai Governi che non possono contrarre prestiti dai mercati a condizioni ragionevoli fino a quando non sarà introdotto il sistema degli Eurobond.
George Soros è presidente del Soros Fund Management e dell’Open Society Institute.
Copyright: Project Syndicate, 2011.
Traduzione di Simona Polverino
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«La crisi durerà ancora due-tre anni»
di Mario Margiocco
Oggi tutti lo citano, perché offre la spiegazione migliore di dove ci troviamo e dove andremo, e in quanto tempo. Il libro di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, fondamentale per capire i guai in cui l’economia e la politica di Stati Uniti ed Europa si dibattono, ha avuto un’ascesa costante da quando è stato pubblicato a fine estate 2009. «This Time Is Different. Eight Centuries of Financial Folly» (Princeton, edizione italiana Il Saggiatore) è una raccolta ragionata di dati su crisi, debiti e default, privati e pubblici, particolarmente ricca per l’ultimo secolo, da cui gli autori traggono alcune conseguenze e confronti.
La tesi è che la crisi del 2007-2008 non è del tutto diversa da altre di uguale gravità – nell’ultimo secolo solo quella degli anni Trenta è paragonabile – e non avrà esiti diversi. Una sezione di 100 pagine dedicata alla Second Great Contraction, cioè la crisi attuale, è la parte più utile. Rogoff, già capo economista dell’Fmi (2001-2003), insegna a Harvard. Reinhart, suo vice al Fondo, è oggi al Peterson Institute for International Economics di Washington. La loro analisi preveggente fu anticipata in un paper del gennaio 2008 all’American economic association mentre un anno dopo nella stessa sede prevedevano tempi lunghi e l’esplosione del debito pubblico. «Ci restano ancora due, forse tre anni di crisi» dice Rogoff in questa intervista al Sole 24 Ore.
Sono stati necessari due anni perché la tesi di fondo, la lunga durata cioè di crisi finanziarie profonde come quella attuale, e i guai per il debito pubblico, diventasse verità evidente. Come mai?
Non credo sia dovuto a scarsa diffusione delle nostre tesi, da tempo ben note. Sì, è vero che alcuni concetti e dati dell’esperienza storico-economica hanno avuto bisogno di un po’ di tempo per essere valutati nel loro valore ineludibile. Non c’è stata nel mondo degli economisti e degli analisti mancanza di coscienza di quanto era successo. C’è stata tuttavia la diffusa convinzione, a Wall Street e anche alla Fed, che le misure aggressive con cui si è affrontata la crisi nell’autunno-inverno 2008-2009 potessero fare la differenza.
Ma non mancavano, accanto alla vostra, altre voci che si dichiaravano scettiche.
La politica, come è comprensibile, aveva scommesso molto sulle proprie capacità di fare la differenza, questa volta. In più di un’occasione il ministro del Tesoro degli Usa, Timothy Geithner, ha dichiarato che questa volta le misure prese sarebbero state in grado di battere il benchmark di Reinhart-Rogoff, che indica una durata della crisi tipo quella attuale, sulla base dell’esperienza storica, assai più vicina ai dieci che ai due anni. Questi ultimi sono i tempi ideali per la politica, che viaggia come noto sui cicli elettorali, biennali e quadriennali, negli Stati Uniti e più o meno anche altrove.
Anche Wall Street vedeva rosa, e l’ultima ondata di ‘siamo alla fine, si torna alla luce’ c’è stata con le previsioni di fine 2010, a maggioranza sicure di un 2011 positivo.
Il mondo degli economisti delle grandi banche e degli analisti finanziari si muove su una prospettiva che non risale quasi mai oltre la Seconda guerra mondiale. Questo mezzo secolo, e poco più, anche se può apparire a tratti accidentato, è stato invece notevolmente ordinato. Chi fa previsioni a Wall Street conosce bene i cicli economici, dalla recessione postbellica del 1948-49 a oggi, ma non basta. Se si va ben oltre, a ritroso, come abbiamo fatto noi, e si prendono nella dovuta considerazione gli anni Trenta, dopo il crollo di Wall Street del 1929, ci si accorge che la prospettiva cambia. A partire dal 2010 voci autorevoli della Washington ufficiale parlavano degli anni Trenta come unico confronto. Ma c’è voluto tempo perché il messaggio, piuttosto scoraggiante lo ammetto, passasse.
In un recente articolo lei ha parlato ancora di Second Great Contraction: come negli anni Trenta, l’economia gonfiata dal debito deve tornare a dimensioni più sane.
La Great Contraction è stata quella degli anni Trenta e nel nostro libro noi abbiamo coniato il termine Second Great Contraction proprio per contrastare la definizione subito in uso e sbagliata di Great Recession, una sorta di recessione più severa ma che avrebbe in fondo seguito l’iter normale delle recessioni, solo un po’ più lunga e penalizzante. I dati raccolti indicano che quando le crisi sono di rilevanti proporzioni c’è un generale e prolungato calo di produzione, occupazione, si contrae anche il debito e il credito. Credo che la riduzione del debito non debba essere fortissima, per poter riprendere il cammino, ma comunque sensibile, e siamo ancora in questa fase.
Quanti anni di crisi ci restano?
I dati raccolti indicano in 6-7 anni la durata storica di una crisi della portata di quella attuale. Poiché siamo al quarto anno, ancora due, forse tre.
Che cosa distingue le difficoltà americane da quelle europee, nonostante i numerosi punti in comune?
Il dato distintivo della vicenda americana è la crisi dell’edilizia abitativa e dei mutui, che hanno gonfiato la finanza e alla fine sono esplosi. In Europa il dato peculiare è la crisi del debito pubblico incominciata in tre piccoli Paesi, con cause diverse, e poi estesa anche ad altri, Spagna e Italia per primi. Ma anche gli Stati Uniti sono arrivati a un problema di debito pubblico.
Negli Usa è stato un errore non affrontare con più decisione la crisi dei mutui, agevolando la loro rinegoziazione e adeguamento a valori più bassi?
Questo è stato l’errore centrale fatto da Washington, che ha speso molto per tamponare le conseguenze andando in maniera insufficiente a sanare le cause, i mutui appunto. I Tea Party, che non so fino a che punto riusciranno a essere protagonisti, hanno dato un contributo a questo, dicendo che era ingiusto aiutare chi si era comperato con il mutuo facile una casa sproporzionata al reddito. Ma l’errore dell’amministrazione Obama è stato grave. La credibilità di Esecutivo e Congresso è stata poi pesantemente indebolita dal negoziato sul debito, che ha dato la sensazione che nessuno controlli gli eventi, a Washington. Al tutto si è aggiunta Standard & Poor’s.
È sempre dell’idea che alcuni anni di moderata inflazione, tra il 4 e il 6%, sarebbero utili?
Sì, e su questo mi sono preso notevoli reprimende. Ma comunque, questa storia finirà con un aumento dell’inflazione, perché sempre la storia del debito eccessivo è finita così. Allora, poiché le banche centrali hanno gli strumenti per controllarla, sarebbe meglio pianificarla. Io sono un falco sull’inflazione, la combatto, e so benissimo che quando sfugge di mano è perniciosa. Ma non si può non ricorrere anche a questo strumento, moderatamente, per riportare i debiti sotto controllo.
Sottoscrive il pessimismo di chi vede un declino dell’Occidente?
Solo in parte. Un certo declino, americano in particolare, ma anche europeo dove però l’esperienza non è nuova, è inevitabile. Gli altri crescono. Ma non sarà un galoppo senza fine. Non appena le economie sviluppate, le nostre più il Giappone, si saranno assestate, i capitali che ora vanno verso gli ex emergenti ormai emersi torneranno verso i Paesi di vecchia industrializzazione. E allora potremo forse avere Stati di crisi altrove.
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dal Corriere della sera
Lagarde (Fmi): «Non dimentichiamoci della crescita»
«Il contenimento del debito pubblico non deve essere né troppo lento, né troppo veloce»
MILANO – Contenimento del bilancio sì, ma non dimentichiamoci della crescita. E’ la formula di Christine Lagarde, fresco direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, che dice in un’intervista al Financial Times: «Non lasciamo che i vincoli di bilancio blocchino la ripresa mondiale». Sulla scorta delle teorie keynesiane del rilancio economico che passerebbe – anche – attraverso la leva dell’indebitamento pubblico e negli investimenti in infrastrutture per favorire l’occupazione. Il numero del Fmi tenta di attenuare l’attuale pensiero-dominante in Europa che – per smorzare il panico sui mercati – sta rilanciando una serie di misure di austerity per bloccare il debito.
IL MONITO – È un appello a non uccidere la crescita a causa della lotta contro il debito quello che Christine Lagarde, lancia agli Stati del mondo intero e in primo luogo alle «economie avanzate». Lagarde sottolinea che «il riequilibrio dei bilanci pubblici deve risolvere una questione delicata senza essere troppo rapido o troppo lento». L’attuale «effervescenza dei mercati ha scosso la fiducia nell’economia in tutto il mondo e ha indotto molti ad arrivare alla conclusione che sono state esaurite tutte le possibilità politiche», ma – continua Lagarde – «si tratta di una falsa impressione e potrebbe portare alla paralisi». La nuova numero uno dell’Fmi, che ha assunto l’incarico a luglio, continua dunque sulla scia del suo predecessore, Dominique Strauss-Kahn, sotto la cui guida l’Fmi da oltre un anno esortava i Paesi che avevano visto un forte aumento del debito pubblico a causa della crisi finanziaria del 2007, ad attuare strategie di risanamento dei conti pubblici che fossero favorevoli alla crescita.
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da Repubblica
L’ANALISI
Il patto dei “forti” per uscire dalla crisi
l’Italia paese-cavia del nuovo ordine
L’incontro da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy sulla governance della zona euro. Dopo una mattinata rabbuiata dai pessimi dati sulla crescita nel secondo trimestre, le proposte del vertice: regola d’oro in costituzione e un governo unico della zona euro di BERNARDO VALLI
Angela Merkel e Nicolas Sarkozy
NELLA CIVILTÀ delle immagini queste ultime contano spesso più delle parole. Questo non significa che il vertice franco-tedesco sia stato una semplice rappresentazione, sul genere teatrale. Né una banale opera di comunicazione. A conclusione dell’incontro, durante i lunghi interventi esplicativi di Angela Merkel e di Nicolas Sarkozy, si è avuta la netta impressione che la Francia avesse adottato una cadenza tedesca, e che il suo gagliardo presidente suggerisse quel passo al resto dell’Europa, sotto lo sguardo sorridente, rassicurante della Cancelliera.
Non contavano soltanto le immagini. Una delle proposte era l’adozione della “regola d’oro”, vale a dire l’equilibrio budgetario da applicare prima della prossima estate. Si tratta di un principio, già inserito (anche se non ancora entrato in vigore) nella magna charta tedesca, che per molti paesi dell’eurozona, abituati da sempre a cronici deficit di bilancio, equivale a una brutale cura di disintossicazione. Su questo terreno l’Italia è servita da cavia, poiché al nostro governo è già stata ordinata la cura. Ma questo è il prezzo da pagare per salvare l’euro, che per Angela Merkel “resta il nostro avvenire”.
Qualcosa di concreto è dunque uscito dal vertice franco-tedesco. Ed anche di controverso poiché le opposizioni non accetteranno tanto facilmente la riforma costituzionale della “regola d’oro”. È tuttavia significativo che quando Angela Merkel e Nicolas Sarkozy sono apparsi, a tratti sorridenti, lanciandosi protocollari occhiate cordiali, a tratti con il piglio che si addice agli uomini di governo nei momenti decisivi, le quotazioni dell’euro sono salite. Sono salite con uno scatto atletico rispetto a quelle del dollaro, cancellando le perdite della mattina.
Una mattina rabbuiata dai pessimi dati sulla crescita economica nel secondo trimestre, specie in Germania.
La scalata dell’euro ha avuto momenti miracolosi, mentre il Presidente francese leggeva quel che lui e la Cancelliera tedesca avevano appena concordato. Ma a conclusione della conferenza stampa, quando gli operatori hanno via via digerito i dettagli delle misure annunciate, l’euro, che si era ringalluzzito in quell’ora di gloria purtroppo effimera, è ricaduto a una quota inferiore a quella di lunedì sera. È come se un pallone troppo gonfiato si afflosciasse. Non troppo. Ma in modo significativo: da 1,4472 la nostra moneta unica è scesa a 1,4418. E là l’abbiamo lasciata.
La cadenza tedesca assunta da Nicolas Sarkozy va messa alla prova. Deve essere analizzata. La stessa “regola d’oro” viene affidata alla buona volontà dei paesi dell’eurozona. Meglio alla loro rispettabilità. Inserirla nella Costituzione non significa farne una regola assoluta. Non sono pochi i principi costituzionali violati o non applicati.
Oltre ad avere un valore morale, l’esortazione alla convergenza budgetaria tra Stati Europei può rappresentare comunque un importante passo avanti nel processo di integrazione. Ed è soltanto a conclusione di questo processo che potranno irrompere sulla ribalta finanziaria europea gli eurobond. I quali ieri sono rimasti tra le quinte, auspicati dagli uni e deprecati dagli altri.
Anche su questo terreno Nicolas Sarkozy ha dovuto allinearsi sulle posizioni tedesche. Gli eurobond erano i protagonisti assenti del vertice. Protagonisti perché al centro di animati dibattiti in Germania, e richiesti a gran voce in Francia; e tuttavia assenti dall’agenda perché se Angela Merkel avesse accettato di discuterne con Nicolas Sarkozy, avrebbe rischiato di non ritrovare il suo governo, al ritorno a Berlino. I liberali, membri della coalizione con i cristiano-democratici, minacciano da tempo le dimissioni nel caso venissero create quelle obbligazioni, destinate a condividere, del tutto o parzialmente, tra tutti gli Stati, il rischio sovrano.
L’argomento è tuttavia affiorato durante la conferenza stampa, e Angela Merkel si è affrettata a spiegare che gli eurobond non rappresentano un elisir miracoloso capace di eliminare tutti i pericoli. Nicolas Sarkozy si è accodato alla Cancelliera spiegando che prima di arrivare a un lancio degli eurobond bisogna creare gli strumenti necessari per disciplinarne gli effetti. I quali potrebbero essere seriamente sfavorevoli ai paesi virtuosi, che si vedrebbero accollati i debiti dei paesi meno virtuosi.
Però il tabù è crollato. Nelle ore precedenti al vertice parigino, il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, ha ribadito la sua opposizione agli eurobond, lasciando tuttavia intendere che essi saranno realizzabili quando le politiche fiscali saranno armonizzate.
Quindi il suo veto non è definitivo, come non lo è quello di Peter Altmater, capo del gruppo parlamentare cristiano democratico al Bundestag, che limita la sua opposizione al futuro scrutabile.
Mentre Sigmar Gabriel, presidente del partito socialdemocratico, giudica gli eurobond una “necessità urgente”. E sulla stessa posizione è gran parte del mondo industriale. In particolare quello che esporta i suoi prodotti. Gli umori d’oltre Reno pesavano nel palazzo dell’Eliseo. Erano ben presenti nelle parole di Nicolas Sarkozy, quando ha spiegato con insistenza la necessità di accelerare il processo di integrazione, a conclusione del quale potranno essere lanciati gli eurobond, rivelatori di una compiuta e disciplinata solidarietà.
Da qui la necessità di una governance europea credibile. La proposta di Francia e Germania di creare “un governo economico della zona euro “risponde a quella esigenza? Credo che la nostra moneta unica si sia afflosciata, sia pur leggermente, quando è stato chiarito in che cosa consisterebbe il “governo economico” suggerito con enfasi, quasi teatrale, da Angela Merkel e da Nicolas Sarkozy.
Esso sarebbe costituito da un consiglio di capi di Stato e di governo, dovrebbe riunirsi due volte all’anno, e avrebbe alla testa un presidente eletto per due anni e mezzo. Il nome di Herman Van Rompuy, attuale pallido presidente del Consiglio europeo, è stato fatto come primo responsabile della nuova istituzione. Nell’Unione europea i consigli si sovrappongono come i mattoni di un edificio mai ultimato.
La prima pietra dell’auspicata governance non suscita entusiasmo. Più concreta, anche se ancora imprecisa, è la proposta di una tassa sulle transazioni finanziarie, destinata a pesare con moderazione sui movimenti internazionali di capitali. Berlino e Parigi si propongono inoltre, entro il 2012, di creare un’imposta comune sulle società francesi e tedesche. Ci si aspettava un aumento del fondo di soccorso agli Stati in difficoltà, ma Angela Merkel ha ritenuto sufficiente quello esistente. E Nicolas Sarkozy si è adeguato.
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d La Stampa
Passi avanti arrivati in ritardo
STEFANO LEPRI
Forse i dati di ieri sull’economia tedesca che rallenta il passo hanno aiutato Berlino a capire che nell’area euro siamo tutti sulla stessa barca. Il vertice a Parigi fra Nicolas Sarkozy e Angela Merkel annuncia novità importanti che, come è ormai la regola in Europa, sarebbero state ottime un paio di mesi prima, quando avrebbero risparmiato molti guai e parecchi sacrifici. Speriamo che bastino, annunciate ora. Un governo economico per l’area euro è appunto quello che ci voleva già da tempo; se ci fosse stato, con regole e procedure precise, l’Italia avrebbe risparmiato l’umiliazione della settimana scorsa.
Ieri era una buona occasione per cominciare a correggere gli errori che il duo franco-tedesco ha commesso a partire dal disgraziato vertice di Deauville nell’ottobre dell’anno scorso; e anche di colmare le insufficienze e le ambiguità del vertice europeo del 21 luglio. Alcune delle conseguenze negative di quegli sbagli purtroppo non si possono più disfare; altre sì.
La nomina di un presidente politico dell’area euro è un mezzo passo rispetto a soluzioni più complete e meglio legittimate democraticamente, che ripugnano soprattutto ai Paesi più forti. Mostra il fallimento di quel «metodo intergovernativo» (Europa retta soprattutto da rapporti diretti tra i governi, non da istituzioni centrali) di cui anche Giulio Tremonti era stato un entusiasta.
Non si uscirà dalle attuali difficoltà dell’euro senza un meccanismo più efficace per impedire che gli Stati violino il Patto di stabilità. Le sanzioni «quasi automatiche» chieste a suo tempo dalla Banca centrale europea, e ieri di nuovo dal primo ministro olandese, sarebbero state la strada maestra per ridurre l’incertezza dei mercati finanziari. Alle sanzioni «quasi automatiche» Sarkozy convinse la Merkel a rinunciare, appunto a Deauville, perché le temeva per la Francia. L’Italia annuì, perché sperava di trarne vantaggio a sua volta.
E’ dubbio se possa ottenere lo stesso effetto l’insieme di un «mister euro» politico e di una regola costituzionale del pareggio in ogni Stato membro. Tendere entro pochi anni verso i bilanci in pareggio era la regola chiave del Patto di stabilità dell’euro prima versione; fu sospesa da Germania e Francia d’accordo nel 2003, auspice la presidenza di turno italiana. Se il nuovo meccanismo un po’ raffazzonato di governo economico comune funzionerà, si potrebbe aprire la strada ai titoli di debito comuni per l’area euro (gli eurobonds). Prima no, qui hanno ragione i tedeschi, perché ci sarebbe il rischio di incentivare comportamenti irresponsabili dei singoli Stati.
A sorpresa poi compare una tassa sulle transazioni finanziarie, simile a quella che un tempo era cara ai movimenti no-global e si chiamava Tobin tax. Sarebbe ottima se si riuscisse a farla funzionare; perché quanti più Paesi non vi aderiranno (e la Gran Bretagna non ne ha alcuna intenzione) tanto più saranno danneggiati, in perdita di affari, quelli che la adottano. Che Sarkozy e Merkel abbiano ritenuto di tirarla fuori rivela l’altro dei due colossali errori di Deauville e del 21 luglio scorso. Il «coinvolgimento del settore privato» nelle crisi debitorie, reclamato dalla Germania con l’obiettivo di far pagare alle banche una parte del conto, adottato per la sola Grecia, come prevedeva la Bce ha danneggiato i Paesi deboli senza togliere il sorriso ai banchieri.
Intanto anche in Germania la crescita rallenta: tra le «due velocità» a cui si temeva viaggiasse l’Europa si scopre che non c’è tanta differenza. Impressiona soprattutto la revisione all’indietro dei dati del Pil: nemmeno la Germania è ancora ritornata ai livelli di prima della crisi. Però è meglio mantenere la calma: l’economia tedesca resta solida pur se avverte il rallentamento in corso nel mondo; non è affatto escluso che a sostenerla nei prossimi mesi, invece dell’export, sia la domanda interna, come gli altri europei già si auguravano.
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