E che nella notte il premier venuto dal freddo, Mario Monti, ha promesso “grandi decisioni nei prossimi dieci giorni”.
Si può chiamare in causa la diversità degli interessi nazionali o continentali, certo. Ma l’impressione è che non si sappia bene cosa fare, ai piani alti del mondo. L’unica – moderata – “pensata” è la cosiddetta unione bancaria, tutta ancora da definire nei contorni e soprattutto nei meccanismi.
L’idea avanzata di Monti – che il Fondo salvastati possa acquistare i titoli dei paesi in difficoltà come Spagna e Grecia – appare originale e risolutiva come la pioggia in autunno.
Abbiamo selezionato soltanto questi tre articoli, nell’immensa panoramica di giornata sul G20, perché restituiscono bene sia lo sconcerto per lo “sconcerto tra i potenti”, sia l’astioso baluginare di un certo “nazionalismo” continentale (“la crisi è esplosa in America”). Come se davvero il modo di produzione capitalistico fosse (ancora) fatto di nazioni tra loro concorrenti. Vecchi pensieri duri a morire. Il capitale è già altrove…
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L’eurozona sotto l’assedio di Usa e Bric gioca la carta dell’unione bancaria
Al G20 di Los Cabos, i paesi europei promettono un progetto ‘federalista’ per dare solidità alle banche in crisi. Ma Bruxelles frena: proposte pronte non prima dell’autunno
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
NEW YORK – Assediata dal resto del mondo, criticata dalle potenze emergenti, l’eurozona promette al G20 che costruirà l’unione bancaria. Il summit di Los Cabos si chiude su un esercizio pericoloso: dare l’impressione ai mercati che si sta facendo qualcosa. Operazione ad alto rischio, perché questi bluff in passato hanno avuto effetti brevi.
Barack Obama è il primo a dubitare, in cuor suo. Il presidente Usa fa buon viso e proclama fiducia, ma assiste sgomento alla cacofonia degli europei che litigano tra loro anche in Messico. Unione bancaria europea, vaghe promesse di azioni a sostegno della crescita, è in queste due voci il magro bottino che emerge dal comunicato finale approvato al G20.
Il primo aspetto è importante per arginare l’ondata di paura che sta sommergendo la Spagna. I tassi d’interesse stabilmente al di sopra del 7% sui bond di Madrid confermano che è stato un autogol dell’eurozona, quel pasticciato piano di aiuti alle banche spagnole che peggiorerebbe il debito sovrano. E allora ecco emergere al G20 una bozza di progetto “federalista” per dare solidità ad un settore del credito in preda a una balcanizzazione. A Los Cabos gli europei parlano di costruire una vigilanza bancaria comune, una garanzia comune sui depositi dei risparmiatori, perfino un fondo comune per la ricapitalizzazione delle aziende di credito.
E’ il minimo che possano fare, sotto la pressione di Obama e quella ancora più aggressiva dei Brics. Accusati di essere il freno alla crescita mondiale, per uscire dall’accerchiamento gli europei aggiungono alle altre promesse anche il rafforzamento della Banca europea per gli investimenti e i project bond per le infrastrutture. Poi però la Francia precisa che il G20 non è la sede per entrare “nei dettagli”, e la Commissione di Bruxelles conferma che le sue proposte sull’unione bancaria non saranno pronte prima dell’autunno. Un po’ di speranza, gli esponenti della Commissione la regalano alla Grecia, lasciando intendere che un ri-negoziato della loro austerity ci sarà, sia pure solo per quanto riguarda i tempi di attuazione dei sacrifici richiesti.
Angela Merkel non cede su un punto nevralgico: il ruolo di locomotiva che la Germania potrebbe esercitare spendendo di più per sostenere consumi e occupazione. “Quelle nazioni che possono permetterselo” spenderanno di più, solo a condizione che “la situazione economica peggiori in modo sostanziale”. Chissà quale ulteriore avvitamento nella recessione, alla periferia dell’eurozona, potrebbe far scattare a Berlino “manovre di bilancio a sostegno della domanda”. In ogni caso: niente di immediato.
La Russia, che si fa portavoce dei cinque membri del club Brics (con Brasile, India, Cina e Sudafrica), “stigmatizza l’assenza di misure concrete”. Alla fine, tutti devono far finta che il vertice sia servito a qualcosa, che ci sia un accordo generale, che dal G20 sia uscita una strategia per la ripresa e la creazione di lavoro. In realtà questo organismo ebbe solo una breve stagione felice, circoscritta al 2009. Fu quando la paura di un crac sistemico della finanza mondiale portò a coordinare alcuni interventi d’emergenza sulle banche, nonché l’accoppiata di maxi-manovre Usa-Cina per il rilancio della domanda interna. Dopo di allora, ognuno per sé.
A Los Cabos, “ognuno per sé” sembrava anche la nota dominante nel comportamento degli europei. François Hollande ha cercato di dare una mano a Mario Monti e Mariano Rajoy, denunciando come ingiustificati gli spread sui titoli spagnoli e italiani, “a fronte degli sforzi di risanamento dispiegati da quei due paesi”. Poi però lo stesso Hollande ha dovuto ammettere che sulla Tobin Tax – sparita dall’agenda del G20 – ci si muove in ordine sparso.
La Francia ha anche ribadito che non se ne parla di trasferire sovranità nazionale alla Ue in campi come la spesa pubblica e il fisco, finché la Germania non cede sugli eurobond o su un piano da 120 miliardi di investimenti per la crescita.
Il capolavoro lo ha messo a segno David Cameron quando ha detto – “scherzando, ma solo a metà” – che Londra stenderà il tappeto rosso alle imprese che abbandoneranno la Francia a causa della pressione fiscale. Questo dispiegamento di solidarietà e compattezza è avvenuto sotto gli occhi di Obama. Il quale ormai deve rivolgere altrove le sue speranze per una ripresa e per la rielezione: verso la sua banca centrale. Da ieri è riunita la Federal Reserve per un meeting del suo organo dirigente.
I mercati, e la Casa Bianca, sperano che oggi la Fed annunci che riprenderà le esercitazioni con l’artiglieria pesante. Cioè i massicci acquisti di titoli pubblici, per abbassare ancor più il costo del denaro a lungo termine, e irrorare di liquidità l’economia americana. Non sono state operazioni miracolose in passato, ma meglio che niente.
da Repubblica
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Ma la crisi nasce dagli squilibri Usa
Mario Margiocco
È difficile attribuire più responsabilità agli Stati Uniti invece che all’Europa. Gli Stati Uniti hanno senz’altro la primogenitura di questa crisi. L’Europa potrebbe regalare al mondo la fase due, come accadde nel 1929-1931 quando la grande gelata della Borsa americana riattraversò l’Atlantico con il grande fallimento del Creditanstalt viennese dei Rothschild. E rischia di farlo perché se allora era troppo disunita, ancora oggi non è unita abbastanza.
Dalla nazione leader non arrivano per l’Europa solo buoni consigli e giuste pressioni. Ma un eccesso di pessimismo, a macchie ben visibili di schadenfreude, di compiaciuta scoperta di un altro peccatore. E un tentativo di scaricare sull’area euro una responsabilità che è assolutamente condivisa, e con il carico maggiore, diciamo 60 a 40, sulla coscienza americana. Il clima della corsa per la Casa Bianca non aiuta.
Le due crisi sono simili come genesi. La bolla immobiliare in America, la bolla del debito pubblico in Europa. Negli Stati Uniti furono abolite tutte le regole per le banche, tra il 1999 e il 2004, mantenendo però la garanzia federale al sistema, e il ruolo della finanza pubblica per alimentare il mercato dei mutui. Una festa, una manna, una follia. Nell’Europa dell’euro si pensò che la nuova stabilità monetaria e il crollo per vari Paesi del costo del debito aprissero, ugualmente, una nuova era. Chi faceva troppi debiti, o chi non rientrava (l’Italia) da quelli eccessivi pregressi, replicava su altri terreni l’errore dei subprime e di tutti i mutui facili.
L’Europa ha varie responsabilità, fra le prime quella di aver consentito alle banche di acquistare debito sovrano a go-go, considerandolo inaffondabile, così come inaffondabili sembravano i mutui americani. Le due crisi sono simili e si sommano. In più molte banche europee hanno creduto alla “nuova finanza” americana, e si sono ampiamente scottate con i suoi prodotti.
Ma è stata comunque l’Europa di Bruxelles, a inizio 2004, a lanciare un allarme su che cosa stavano facendo le banche d’affari di Wall Street, Goldman, Lehman, Bear Sterns, Merrill Lynch, Morgan Stanley, troppo facili ai debiti. La risposta americana, in una riunione tristemente famosa della Sec, l’autorità di Borsa, il 28 aprile 2004, fu quella di sostituire regole-colabrodo con l’obbligo ancor più colabrodo di comunicare le esposizioni alla Sec stessa, dove nessuno controllava, in omaggio alla teoria della razionalità dei mercati, che se facevano, sapevano quanto facevano.
L’Europa reagiva male anche quando la Fed di New York con Tim Geithner e il Tesoro con Henry Paulson lasciavano fallire Lehman. Perché, se poi hanno salvato tutti? Sono rimaste famose le telefonate di Christine Lagarde, allora al Tesoro francese, a Paulson.
L’Europa non ha apprezzato la politica americana di paper over, di far finta che tutto o molto sia risolto sul fronte bancario e finanziario. Non lo è, visto che le due megafinanziarie immobiliari Fannie e Freddie, al cuore della crisi, sono nel limbo, più di sei mila miliardi garantiti dal debito federale. E non apprezza, l’Europa, di essere sul banco degli accusati per un debito sovrano che nell’area euro non arriva al 90% del Pil mentre quello di Washington, aggiungendo Fannie, Freddie e altro dovuto ma ignorato dalla contabilità schizza dal 102% ufficiale e supera il 140 per cento.
Gli Stati Uniti, che hanno un solo Governo e non 17 premier e parlamenti e sono pur sempre gli Stati Uniti, si stanno indebitando nell’ordine dei 100 miliardi di dollari al mese in più, mese dopo mese, battendo con Obama, causa crisi, ogni record storico.
Non è semplice quindi ascoltare i consigli americani per una dozzina e mezza di nazioni in lenta marcia verso un’unione, e che si sono fatte cogliere in mezzo al guado dal grande guaio bancario, del debito e della moneta incompiuta. Consigli diventanti pressanti non solo con l’avanzare della crisi europea, ma anche della campagna elettorale americana, che nel settembre 2011 muoveva i primi passi. In quel momento i repubblicani cominciavano ad additare il «fallimentare modello europeo» accusando Obama di volerlo replicare. E in quel momento, un Obama preoccupato per l’Europa, ma ancor più per la sua candidatura, incominciava a parlare dei rischi di contagio. E ancor più lo ha fatto quando, con aprile, la ripresina americana ha virato verso la recessione. «Non credo che i problemi europei siano i soli problemi americani», ha varie volte ripetuto da allora il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble.
Quello che più dispiace agli europei, pur oberati da infiniti problemi, molte responsabilità, ma non ancora arresi, sono frasi del tipo «un collasso dell’Eurozona sarebbe un disastro economico che potrebbe definire i contorni della nostra era». Vero. Ma a scriverlo, ieri sul Washington Post, è l’ex ministro di Clinton ed ex consigliere-principe di Obama, Lawrence Summers, l’uomo che se avesse capito prima qualcosa e creduto meno alle illusioni finanziarie avrebbe contribuito a evitare a tutti molti guai. I contorni della nostra era, per ora, sono definiti in finanza e nel mondo bancario – i casi Mf Global e le perdite londinesi di JPMorgan insegnano – dalla latitanza di quella che è stata la grande leadership americana di tre generazioni e più.
da Il Sole 24 Ore
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Al G20 la proposta Monti per misure antispread
dal nostro inviato Gerardo Pelosi
LOS CABOS – Ha giocato la carta del grande mediatore il premier Mario Monti al suo primo G20 tra un presidente americano preoccupato dal contagio dell’Eurozona e una cancelliera tedesca ferma sulle sue posizioni a difesa del rigore nei conti. Alla fine ha portato a casa un risultato apprrezzabile: un inizio di riflessione su misure antispread che riguardano anche chi come il nostro Paese sta facendo riforme strutturali ma resta vittima dei mercati e l’utilizzo del Fondo salvastati per acquistare titoli nei Paesi a rischio come Grecia e Spagna.
Si rafforza l’azione del premier in vista dell’incontro di venerdì a Roma con Merkel, Hollande e Rajoy, un «utile passaggio» prima del Consiglio europeo di fine giugno. Sarà ora anche più facile per Monti convincere la Merkel sulla necessità di dare il suo assenso al meccanismo antispread e a favorire misure di crescita che non pregiudichino l’equilibrio dei conti.
Monti nella conferenza stampa di chiusura non è entrato nel merito della proposta anticipata dal Financial Times perchè il fondo salvastati Efsf da 440 miliardi possa acquistare bond di paesi “periferici” come Spagna e Grecia. Un problema, ha precisato Monti, che non si pon per l’Italia e per la Spagna limitatamente alle banche.
da Il Sole 24 Ore
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