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Il cupio dissolvi del governo: “liberarsi di Tremonti”

Dal nostro punto di vista, l’uomo è responsabile di manovra sanguinose e depressive, tali da renderlo per sempre uno dei peggiori nemici dei lavoratori (battuto forse solo dal suo collega Maurizio Sacconi).

Ma dal punto di vista “statuale”, nel rapporto con altri stati, banche centrali, e istituzioni sovranazionali, è stato l’unico volto “presentabile” in una compagine governativa infarcita di nani, ballerine, (sospetti) mafiosi, (sospetti) camorristi, dipendenti Mediaset e Fininvest. Per non parlare degli improbabili “ministri padani”…

Solo un governo che vuol tirare prima le cuoia può pensare di eliminare “il garante” – come immodestamente e stupidamente si è definito lui stesso – della serietà nella manutenzione dei conti pubblici dell’Itlia. L’intento sembra però abbastanza chiaro: comunque vada, c’è una campagna elettorale da fare (2012 o 2013, poco cambia), e quindi servono “cordoni della borsa larghi” per provare a recuperare almeno parte dei consensi perduti a valanga nell’ultimo anno e mezzo.

Non c’è bisogno di un premio Nobel per capire che una strategia del genere verrebbe presa d’infilata dalla reazione dei mercati e delle stesse istituzioni sovranazionali. Ma intorno a palazzo Grazioli gira gente che ha una sola preoccupazione: garantire se stessa, comunque vada. E lo dice pure!

Basta guardare l'”avvertimento Romano” – il ministro indagato per associazione mafiosa – lanciato in previsione del voto sulla mozione personale di sfiducia presentata dall’opposizione (mercoledì, alla Camera), per capire come un governo pronto a scaricare “il garante” ma pronto a salvare un inquisito per così poco “onorevole” reato, sia un governo peggio che pericoloso: criminale. E che il minisro dell’interno – il leghista Bobo Maroni – se ne sia uscito stamattina in questo modo (“Per quanto riguarda Romano, è una mozione di sfiducia presentata dall’opposizione nei confronti di un ministro della Repubblica. Ne sono state gia’ presentate in passato e sono state sempre respinte”. “Non vedo, francamente perché non si debba fare la stessa cosa”.) sembra proprio una conferma.

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dal Corriere dela sera

 

La cabina di regia anti-Tremonti

Letta media: se cade lui, cade il governo

Prima di partire per gli Stati Uniti, Tremonti ha tolto tutte le carte dalla scrivania del ministero. Berlusconi vorrebbe che svuotasse anche i cassetti e togliesse il disturbo dal governo. Il titolare dell’Economia è però convinto di restare, non solo perché non si dimetterà ma anche perché «non hanno strumenti per cacciarmi». In realtà, il Cavaliere aveva pensato addirittura a una mozione di sfiducia individuale pur di chiudere il rapporto, e c’è voluto del tempo prima che Gianni Letta lo riportasse alla ragione.

«Silvio, non hai capito che se cade Giulio, cade anche il governo?». «Gianni, non hai capito che quello vuol far precipitare tutto». «Ho capito, ma un conto è se fossi tu a provocare lo scontro, altra cosa è se lui si dimettesse». Così è nata l’idea del direttorio a Palazzo Chigi, una task force economica sotto l’egida di Letta da contrapporre al titolare di via XX settembre. Più che spacchettarlo – come voleva Maroni – si pensa almeno a impacchettare Tremonti, a svuotarne i poteri, costringendolo alla collegialità, alla mediazione su ogni provvedimento, fino a metterlo in minoranza nelle riunioni del Consiglio dei ministri. «E vedremo quanto a lungo resisterà».

L’operazione tuttavia non è facile, e in più è Berlusconi ad avere fretta, perché deve dare un segnale al Paese sul versante economico prima di muovere guerra alla magistratura sul fronte giudiziario. Perciò il premier era deciso a sostituire subito Tremonti con Grilli, riproponendo il copione di sei anni fa: anche allora infatti era stato un direttore generale del Tesoro (Siniscalco) a subentrare al «genio». L’idea del cambio in corsa resta, ma per il momento il Cavaliere ha dovuto ripiegare su una struttura, il direttorio, tutta da costruire e che evoca la famosa «cabina di regia» chiesta nel 2002 da Fini proprio per contenere lo strapotere del superministro: fu quello il primo passo verso il «dimissionamento» di Tremonti.

Rispetto ad allora però Tremonti non ci pensa nemmeno a fare un passo indietro, e per quanto indebolito politicamente, si dice pronto ad affidare a Berlusconi la regia: «Si assuma lui la responsabilità di stabilire i tagli ai ministeri, i tagli alle pensioni. Faccia lui, insieme a Letta». Più che un segno di disponibilità sembra una sfida, a difesa delle proprie idee che – a suo modo di vedere – erano vincenti. L’uomo del «rigore» respinge infatti la tesi di aver «sbagliato quattro manovre», come gli contestano i suoi accusatori nel governo e nella maggioranza: «La verità è che fino a quando ho gestito io la situazione, lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi era molto basso. Poi…».
E qui comincia l’arringa difensiva di Tremonti, una storia che parte dalla sconfitta alle Amministrative, «quando Berlusconi non accettò l’idea che il risultato fosse stato causato dal bunga-bunga e non dalla linea di politica economica». In quel periodo il Cavaliere provò a rilanciarsi parlando di riforma del Fisco e di un possibile taglio delle tasse, «e da quel momento i mercati iniziarono a punirci». Fino ai giorni drammatici di agosto, quando il governo si trovò costretto alla manovra d’emergenza e il premier – secondo Tremonti – «provò a fare di testa sua».

In effetti fu del Cavaliere l’idea di chiamare il presidente della Bce per avere idee alternative a quelle del superministro, «e se chiamò Trichet, lo fece perché con lui poteva parlare in francese», sottolinea con una punta d’agro: «Ma la famosa lettera l’hanno scritta a Roma, mica a Francoforte. Figurarsi se lì gli veniva in mente l’abolizione delle Province, per esempio…». È a Draghi che allude Tremonti, all’«agente tedesco che fa gli interessi di Berlino», come una volta ha definito il governatore uscente di Bankitalia: «E quando Berlusconi ricevette la lettera si mise ad urlare dalla rabbia, perché aveva capito di esser stato ingannato».

Insomma, l’imputato scarica ogni responsabilità sul suo accusatore: sarebbe stato il Cavaliere a «organizzarsi da solo la trappola in cui poi è caduto». Così Tremonti si discolpa, e aspetta di conoscere le mosse del nuovo direttorio, vuole capire quale sarà il piano per la crescita. Perché di soldi non ce ne sono, «a meno che non si intenda contravvenire al patto del pareggio di bilancio per il 2013», né si può procedere con le dismissioni: «Lo Stato non può svendere gioielli di famiglia come l’Eni o l’Enel ora che le azioni in Borsa sono così basse». Resta l’altra strada, quella di operare «a costo zero, procedendo con le liberalizzazioni. Ma il Pdl lo accetterebbe? Perché ogni volta che ci ho provato, gli interessi corporativi hanno trovato udienza da Berlusconi…». Se c’è una cosa che manda in bestia i dirigenti del Pdl è l’aura di infallibilità che si è creata attorno a Tremonti. «Non passa riunione in cui non dica di aver previsto tutto», si lamentava tempo fa Verdini durante una riunione di partito: «E quanto ce l’ha tirata con la storia del suo libro, in cui sosteneva di aver previsto la crisi mondiale. Io l’ho letto quel libro. C’è scritto che la crisi sarebbe partita dalla Cina. Invece è scoppiata negli Stati Uniti…». Ecco qual è il livello delle relazioni. E non c’è dubbio che la situazione sia davvero imbarazzante.

Berlusconi e Tremonti continuano a non parlarsi, ma se le mandano a dire, come fossero acerrimi avversari. «Mai però ho parlato male di lui all’estero», sottolinea il superministro: «Non fosse altro perché avrei indebolito la mia posizione negoziale». Così dicendo sembrerebbe aprirsi uno spiraglio, ma è solo un abbaglio: «Io non ho mai parlato male di Berlusconi. Altra cosa è che di lui parlino male all’estero…».

L’incompatibilità è caratteriale oltre che politica. A tenerli insieme è solo il reciproco (e contrapposto) interesse alla sopravvivenza. Eppoi c’è Bossi. È lui che può decidere le sorti della contesa. Il Senatur sta facendo molto per il Cavaliere, «andremo avanti insieme, Silvio, fino in fondo», ma resta amico di Tremonti, «a lui gli voglio bene». È l’ultimo rimasto però nella Lega, insieme a Calderoli: oltre Maroni, anche nel «cerchio magico» monta l’ostilità verso il superministro, convinto però che sia tutta tattica e che «Umberto tra qualche mese saluterà Berlusconi e porterà tutti al voto l’anno prossimo».

Francesco Verderami

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da La Stampa

 

Tremonti: non mi dimetterò mai

La tentazione del ministro sotto attacco è lasciare che il premier se la cavi da solo contro la crisi

UGO MAGRI

ROMA
La grande tentazione di Tremonti, in queste ore, è prendere sul serio Berlusconi. Cioè lasciare che in futuro il premier agisca di testa sua, senza mai più puntare i piedi, senza mettersi di traverso o minacciare le dimissioni come accadeva in passato, quando Silvio metteva becco nelle faccende economiche.

Il titolare dell’Economia si trova a Washington, immerso nel G20 sulla crisi. Apprende dalle rassegne stampa (gliele inoltra il nuovo portavoce Pippo Pepe) che Berlusconi lo metterebbe al muro tanto è arrabbiato con lui perché giovedì non era in aula a votare su Milanese. È rimasto senza parole, Tremonti, nel leggere che Berlusconi lo accusa di denigrarlo ogniqualvolta si reca all’estero. Mai accaduto, giura il ministro, «tra l’altro, se lo facessi indebolirei me stesso agli occhi degli interlocutori», specie quelli anglosassoni.

Ha letto pure di una telefonata tra lui e il premier («in realtà non ci siamo parlati, chi non ci crede controlli i registri delle chiamate»), nel corso della quale Berlusconi gli avrebbe ingiunto di partire per l’America dopo e non prima del voto alla Camera, prendendo l’Airbus governativo anziché il volo di linea. «Fantastico, così loro stessi mi avrebbero accusato di buttare 100 mila euro per salvare dal carcere il mio ex-collaboratore», è la replica privata del ministro. Il quale ha la certezza che si sarebbe trovato nel mirino comunque; se non fosse andato a Washington, per aver disertato il summit; se ci fosse andato dopo le votazioni, per avere sprecato cherosene di Stato; e avendo preso invece l’aereo di linea, per avere scaricato sugli altri onorevoli l’ingrato compito di difendere Milanese. Rispetto al quale Tremonti ammette una leggerezza: quella di avergli delegato tutte le seccature, cosicché Milanese col tempo è cresciuto secondo la nota legge di Peters fino al livello della propria incompetenza, esercitando un potere cui non era abituato, per esempio in materia di nomine negli enti che l’ex braccio destro «ormai trattava direttamente con Gianni Letta». Quanto ai famosi 4mila euro in nero per la casa in affitto, affiora nel ministro il dubbio di essere stato eccessivamente prodigo, sebbene i soldi non gli manchino e da tributarista ne avesse guadagnati un po’.

Berlusconi invece pagherebbe di tasca propria per licenziare Tremonti. A Vespa, ricevuto nel suo salotto, il premier ieri confidava che purtroppo non ha il potere di cacciare i ministri, la Costituzione andrebbe rifatta. E Giulio non ha la minima intenzione di spianargli la strada («Berlusconi non può dimissionarmi, io non mi dimetto»). I due sono destinati a convivere. Come sempre, senza volersi bene. L’unica vera novità è che adesso il Cavaliere vuole mettersi al volante. E che l’altro a sorpresa da Washington gli dice «prego, fai pure». Si sente troppo debole per resistere, o magari non ne ha più voglia, o infine (è una supposizione) pensa che tanto la legislatura durerà ancora pochi mesi, si voterà in primavera, tanto vale laissez-faire, laissez passer.

Il capo del governo vuole esercitare finalmente il suo ruolo? Pretende di coordinare le annunciate misure per la crescita? Vuole avvalersi di consulenti prestigiosi per non dipendere in tutto e per tutto dal suo ministro? Tremonti stavolta gli risponde: prego si accomodi, ci mancherebbe altro, ma… Ci sono alcuni «ma». Per «fare la crescita», come spiegano molto molto in alto al Tesoro, ci sono due soli modi. Il primo consiste nell’abbattere le tasse, investire denari, insomma spendere e spandere. Purtroppo questa strada «ci è drammaticamente preclusa» dalle condizioni di bilancio, con l’obbligo del pareggio nel 2013 «che Berlusconi, non Tremonti, ha sottoscritto davanti all’Europa». Tra l’altro c’è da tagliare subito 6 miliardi di euro ai ministeri, andrà fatto con un Dpcm (decreto del presidente del Consiglio), dunque il Cavaliere ci metterà la firma. «Se ne vuole occupare personalmente? Vorrà dire che toccherà a lui una volta tanto la parte del cattivo, non avrà nessuno su cui scaricare la colpa».

Berlusconi immagina un grande piano di dismissioni patrimoniali che permetta di abbassare il debito pubblico dal 120 per cento del Pil giù giù fino a quota 90. Però «sbolognare i gioielli di Stato (Eni, Enel) con corsi azionari così sfavorevoli, sarebbe un regalo alla speculazione, lo capirebbe un bambino». Griderebbe la Corte dei conti, piomberebbero i caramba con le manette. L’altro modo per fare sviluppo, aggiungono le stesse fonti del Tesoro, sta nelle liberalizzazioni. Nel dire basta privilegi, basta corporazioni, basta lacci e laccioli. Questo tipo di riforme «non costa e funziona. O meglio, funzionerebbe se qualcuno avesse il coraggio di procedere per davvero». Nel decreto anti-crisi c’era un articolo che cancellava gli ordini professionali; Tremonti l’aveva infilato prevedendo le reazioni. «È venuto giù il mondo». E il primo a opporsi indovina chi fu? «Proprio Berlusconi…».

 

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dal Corriere della sera

 

Lo sfogo del premier: Giulio problema serio E ne evoca le dimissioni

Palazzo Chigi: con lui impossibili colpi d’ala Ministri all’attacco Da Brunetta, Galan e Romani «quasi una sommossa» contro il superministro. E neanche Calderoli l’ha difeso L’accusa sull’Europa Il Cavaliere furente: «Va in giro in Europa a dire che la credibilità dell’Italia è peggiorata per colpa mia» Ruolo ridimensionato Il capo del governo vuol far sapere che la regia della politica economica è sua e Tremonti «non comanda più»

ROMA – «È un’indecenza, vi autorizzo io a dirlo ai giornalisti, ho controllato io stesso gli aerei, c’erano altri voli di linea e poteva anche prendere un volo di Stato, un volo che è autorizzato a fare un’altra rotta, gliel’ho detto io stesso, avrebbe anche risparmiato del tempo. Lui mi ha risposto che non poteva». Mentre Silvio Berlusconi parla, si sfoga, con i suoi deputati, Giulio Tremonti è già in volo per Washington, deve partecipare alle riunioni del Fondo monetario internazionale. Ma non è solo una distanza geografica quella che separa il premier dal suo ministro, la distanza è umana e politica ed è ad un livello mai raggiunto prima. Marco Milanese alla Camera è stato appena salvato dalla maggioranza, ma a Montecitorio, e soprattutto intorno al Cavaliere, non si parla d’altro: l’assenza di Tremonti. Non è andato al Consiglio dei ministri e nemmeno ha votato sulla richiesta di arresto del suo ex braccio destro. Berlusconi autorizza il Pdl a emettere una velina durissima: «Un atto immorale». Di solito Berlusconi parla ma poi smentisce; attacca Tremonti in privato, ma poi getta acqua sul fuoco. Questa volta la dinamica appare diversa: non c’è nulla di ufficiale, ma la cornice sembra quella di un’operazione cercata e voluta. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è un tomo fresco di tipografia che il Tesoro ha fatto recapitare a tutti i ministri, sul tavolo ovale nella sala del consiglio, di prima mattina. Sono i numeri del Def, il documento che aggiorna le cifre e le previsioni della nostra economia, ma il governo era all’oscuro di tutto ed è chiamato ad approvarlo senza alcuna illustrazione. Per Berlusconi il vaso è colmo. Prendono la parola prima Brunetta, poi Galan, poi Romani. In pochi istanti la riunione si trasforma in una sorta di processo collettivo ai danni del ministro dell’Economia. Per chi assiste alla scena «è quasi una sommossa». Persino Calderoli non difende Tremonti, ed è tutto dire. Ma la novità non sono i ministri contro quello che per anni è stato tollerato come il Superministro, la novità sono le parole durissime ed esplicite del capo del governo. «Esiste un problema serio, Tremonti va in giro in Europa a dire che la credibilità dell’Italia è peggiorata per colpa mia, per le modifiche che ho inserito alla manovra. È una cosa inaccettabile. Un ministro che non segue le indicazioni del suo partito, che non dà le dimissioni dopo tutto quello che è successo, crea una situazione imbarazzante. Io la manovra l’ho solo migliorata e se mi avesse dato ascolto sin dall’inizio sarebbe stato tutto diverso». Gianni Letta prova forse per un attimo a riportare la calma, ma ormai l’argine è rotto. La «piena» di una maggioranza che nelle ultime ore avrebbe arruolato anche umori leghisti contro il Tesoro è ormai inarrestabile: si trasferisce prima a Montecitorio per il voto su Milanese, poi a palazzo Grazioli per il vertice di maggioranza. I comunicati del vertice, le parole del premier, tutto converge verso quello che appare come un unico obiettivo: depotenziare al massimo grado, per l’imminente futuro, il ruolo di Giulio Tremonti. C’è anche chi sostiene, nel governo, che si tratta di un azzardo, che a Tremonti potrebbero saltare i nervi, ma forse è proprio questo il desiderio del Cavaliere: «Sapete che non ho il potere di fare dimettere nessuno, purtroppo», dice ancora ai suoi ministri e mentre aggiunge questa frase lascia capire che fosse per lui le dimissioni le avrebbe chieste chissà da quanto tempo, perché condivide le critiche degli altri colleghi: il metodo inaccettabile, il lavoro di questi giorni sul decreto per lo sviluppo, che a tanti sembra gestito dal Tesoro senza la dovuta convinzione. Per più di un ministro la distanza con il premier si è allargata sino a livelli incolmabili sulla nomina del prossimo governatore di Bankitalia: «Tremonti è sull’Aventino perché Berlusconi ha scelto Saccomanni e non Grilli». Ma è una spiegazione riduttiva. Nel pomeriggio a palazzo Grazioli il premier parla di vendita del patrimonio dello Stato, dice che questo governo deve portare «il Paese al riparo dalla crisi con provvedimenti eccezionali». Dietro ogni parola, ogni progetto, per quanto al momento vago, sembra esserci un imputato, ovvero Tremonti. Che non appare godere più della fiducia del suo presidente. E per di più Berlusconi ha appena rinsaldato il rapporto con Bossi; ha convinto la Lega a votare contro l’arresto di «un napoletano», come i leghisti chiamavano ieri, senza troppa eleganza, l’ex braccio destro di Tremonti; e invece «lui non viene nemmeno a votare, roba da pazzi», continua il presidente del Consiglio, prima di chiudere la riunione del governo. A fine giornata la cifra politica di tanta durezza nei confronti del ministro dell’Economia viene riassunta così nello staff del premier: «Non siamo in grado di dire, lo sa soltanto il presidente, se in questo momento possiamo fare a meno di Tremonti, ma di sicuro si sta rafforzando nel presidente una consapevolezza: con Tremonti, con questo grado di collaborazione, il governo non riuscirà a dare quel colpo d’ala che i mercati ci chiedono, ormai il ministro viene avvertito come il primo problema di questa coalizione». Sulle agenzie di stampa filtrano altre considerazioni attribuite al premier: la voglia di riportare la regia della politica economica a Palazzo Chigi, la voglia di comunicare a tutti che Tremonti «non comanda più». Marco Galluzzo


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dal Corriere della sera

 

Romano avverte il centrodestra

 

«Sono il leader di un partito di governo, se sarò sfiduciato cambia la maggioranza»

 

ROMA – Lo dice con grandissima cautela, «ragionando per ipotesi» e ricorrendo alle arti diplomatiche. Ma il senso è chiaro. «Io sono il leader di un partito politico che sostiene il governo – avverte Saverio Romano -. Con numeri diversi cambierebbe la maggioranza». I «numeri diversi» a cui il ministro dell’Agricoltura allude sono quelli di una eventuale sfiducia contro di lui. Un caso che nella storia italiana ha un solo precedente: Filippo Mancuso, l’ex Guardasigilli sfiduciato nel 1995 e morto nel maggio scorso a 88 anni.

 

Romano dunque non si dimette. E rilancia. Parla delle missioni che lo attendono tra la Cina e l’India e rivendica i risultati del suo primo semestre. Sulla sua testa pende come una spada la mozione di sfiducia ad personam eppure lui si dice «ottimista». La possibilità che la Camera voti le dimissioni non è «un evento nel novero delle cose possibili». L’ex centrista che un anno fa tagliò i ponti con Casini per entrare in maggioranza alla guida del Pid, quattro preziosi voti, è imputato per concorso in associazione mafiosa e rischia di essere rinviato a processo. E così convoca i giornalisti e chiede di essere giudicato per le sue azioni politiche.

 

La sfiducia presentata dal Pd e appoggiata da terzo polo e Idv sarà messa ai voti il 28 settembre. Romano non ha paura, nella manica sente di avere tre assi. Il primo è Berlusconi, che gli ha rinnovato «stima e fiducia». Il secondo è Bossi, il quale non lo ama però lo ha rassicurato sulla lealtà della Lega per bocca di Marco Reguzzoni: «Bocceremo la sfiducia». E il terzo asso è il regolamento della Camera. Il «verdetto» infatti non avverrà a scrutinio segreto, bensì a voto palese e per appello nominale, come per la fiducia al governo. È questa la differenza sostanziale con Marco Milanese, che ha scampato l’arresto per sei voti. Nel caso di Romano i deputati dovranno metterci la faccia, il che neutralizza i franchi tiratori.

 

Eppure il tema di un passo indietro «di responsabilità» non è tabù. Nei giorni scorsi tra i deputati di Pdl, Lega e «responsabili» la questione rimbalzava in questi termini: se lasciasse il posto, il governo avrebbe un (grosso) problema in meno. Non solo. La sua poltrona fa gola a tanti, la Lega ci ha rinunciato malvolentieri e certo non disdegnerebbe di ricollocarci uno dei suoi. Romano lo sa e, come è nel suo stile, ci scherza su: «Posso escludere che un ministero così ambito non possa essere accarezzato nei sogni di qualche parlamentare? Sta nelle cose. Ma la sfiducia è una cosa che non si realizzerà». Perché non lascia? «Mai nessuno mi ha chiesto di dimettermi, ho ricevuto solo incoraggiamenti».

 

Il libro intervista La mafia addosso , in cui spiega che i sospetti sui rapporti con Cosa nostra sono per lui «come una maglietta fradicia di sudore», è fresco di stampa. E adesso Romano, nei panni dell’avvocato di se stesso, prova a rafforzare la sua posizione con una dettagliata «relazione programmatica» sull’attività dell’Agricoltura dal 23 marzo al 23 settembre. Da quando è diventato ministro col disappunto del Quirinale (era già indagato), si è dato da fare per la terra ai giovani e l’etichettatura dei prodotti alimentari, il contrasto alle frodi e la pesca marittima, gli ogm e il tabacco italiano, il vino e i fondi comunitari… E ora, a colpi di dati e tabelle, conta di suffragare la sua tesi di fondo: «La sfiducia è una vicenda paradossale. Devo rispondere non per fatti inerenti a una attività politica, ma alla mia qualità di persona. E parliamo di vicende che risalgono a otto anni fa e che non possono inficiare l’attività svolta». Tra i fedelissimi di Romano c’è chi guarda con sospetto a Forza del Sud, ma lui smentisce: «Con Micciché ho un ottimo rapporto». La partita si giocherà sulle assenze. Alcuni leghisti potrebbero lasciare vuoti i loro scranni e così qualche esponente del Pdl, che già dovrà scontare la mancanza di Alfonso Papa (in carcere) e di Pietro Franzoso, gravemente infortunato. L’opposizione non ha i numeri, ma in giorni di tensioni fortissime nulla è scontato. Antonio Buonfiglio, uscito da Fli per entrare nel gruppo misto, ammette: «Non ho deciso». E Mimmo Scilipoti, che milita nel gruppo dei «responsabili» fondato proprio da Romano, prende tempo: «Giudicherò secondo coscienza, dopo aver letto il libro e le carte giudiziarie».

Monica Guerzoni

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