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Pressing Ue: “riforme” e manovra aggiuntiva

Vuole una risposta entro venerdì, tanto per far capire subito che le tattiche berlusconiane buone per tirare avanti in Parlamento, in Europa non hanno spazio.

Nessuna novità, per quanto riguarda l’indirizzo generale delle “riforme” che si pretendono, ma colpisce l’attenzione per ogni singolo dettaglio. Non si tratta insomma di una pressione finalizzata a ottenere “tagli all’ingrosso”. Si pretende di ristrutturare l’economia, le relazioni industriali, il modello sociale italiano in modo da “incastarlo” al meglio in un disegno europeo peraltro zoppicante.

Un modo di procedere “ultimativo” che sembra nascondere, e nemmeno tanto bene, interessi di singoli paesi forti, a partire dalle banche.

 

Ma soprattutto la Ue chiede all’Italia chiede una manovra aggiuntiva (sarebbe la sesta dell’anno) per garantire la tenuta dei conti pubblici dopo quella da 50 miliardi rocambolescamente varata ad agosto. Il tergiversare del Cavaliere e i conseguenti attacchi dei mercati ne hanno in parte già annullato i benefici.

Una panoramica dai giornali di oggi aiuta ad individuare i punti salienti di questa manovra che pretende di passare per “oggettivamente necessaria”.

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pngMassimo_Mucchetti_-_Le_banche_italiane_sotto_pressione_europea.png102.83 KB09/11/2011, 09:33

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da “il manifesto”

Ultimatum Ue: servono altre manovre
Galapagos

Inviata il 4 novembre, è articolata in 39 punti. Lo spread con i Bund tedeschi sale a quasi 500 punti Bruxelles chiede risposte precise sulle misure promesse dal governo. Oggi arrivano gli ispettori della Bce
Il segnale peggiore è arrivato dal differenziale tra i Btp e i Bund tedeschi: in serata ha sfiorato i 500 punti base, superando quota 496. Ovvero il 4,96% in più del rendimento dei Bund decennali. Ormai il rendimento dei Btp a dieci ani si appresta a superare il 7%. Oggi ci sarà un’asta di 24 miliardi di titoli del debito pubblico. «Con uno spread così, non possiamo andare avanti», ha commentato Emma Marcegaglia con riferimento al costo di finanziamento per le imprese. Ma così non possono andare avanti neppure i conti pubblici: la maggiore spesa per gli interessi (su oltre 1900 miliardi di debito) quantificata dalla Marcegaglia in circa 9 miliardi nel 2012, rischia di far esplodere il deficit rendendo inutili le manovre (e i sacrifici ai cittadini) fin qui varate.
La conferma è arrivata da una lettera inviata al governo italiano dalla Ue il 4 novembre. Nella lettera sono formulate puntigliose richieste in 39 punti, ma soprattutto si chiede un nuova manovra perché quelle varate a luglio e agosto non sono sufficienti a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013.
La lettera, resa pubblica ieri sera da Repubblica (giudicata solo un documento di lavoro dal portavoce del commissario Olli Rehn che è il mittente) rafforza il comissariamento dell’Italia da parte della Ue. Nel testo si danno 8 giorni di tempo a Tremonti e Berlusconi per rispondere a una serie di obiezioni. Ma c’è un punto su tutti che desta inquietudine. È scritto: «Non riteniamo che il contesto economico assicuri il raggiungimento del pareggio di bilancio entro 2013, servono pertanto misure addizionali per raggiungere gli obiettivi sui conti pubblici nel 2012 e 2013. Sono già state pianificate nuove misure e se sì, quali? Ci saranno ulteriori tagli alla spesa pubblica?». Poi seguono altri punti ognuno dei quali contiene diverse domande estremamente approfondite su tutte le politiche promesse dal governo sotto dettatura dell’Europa. Si chiedono, tra l’altro, informazioni sulla «creazione di condizioni strutturali per favorire la crescita», ma anche informazioni sullo sviluppo del «capitale umano», sulle riforme del «mercato del lavoro» sui provvedimenti per favorire la «competizione», sulla «semplificazione amministrativa», sulle «politiche infrastrutturali», sulla «giustizia» e sulle «riforme costituzionali».
Dopo la giornata di passione di lunedì, le borse europee ieri hanno chiuso tutte in positivo, ma c’è molto timore per la situazione italiana e in particolare per l’inarrestabile ascesa dello spread a un livello definito drammatico da Olli Rehn.
Lettera a parte, ieri il commissario europeo agli affari economici e monetari della Ue ha ribadito che «la Commissione è molto preoccupata per la situazione italiana». Da sottolineare che il differenziale tra i titoli di Stato italiani e gli equivalenti tedeschi ha toccato nuovi massimi e i Buoni poliennali del Tesoro pagano interessi vicini al 6,8% annuo.
Intanto è atteso per oggi l’arrivo degli ispettori dell’Unione europea e della Banca centrale europea che dovranno monitorare i progressi dell’Italia sulla strada delle «riforme». Entro novembre, invece, arriveranno i «mastini» del Fondo monetario.
Come già accaduto lunedì, anche ieri la politica ha condizionato i trend di borsa. Il punto centrale della giornata è stato la votazione alla camera del bilancio consuntivo. Gli indici Ftse Mib e Ftse It All Share (l’indice generale) dopo una mattinata con rialzi sopra il 2%, hanno ridotto rapidamente i guadagni per chiudere con modesto rialzo dello 0,74 e 0,49% rispettivamente. Ancora una volta è stata l’incertezza a frenare le quotazioni. Il totale dei voti a favore (308, rispetto ai 316 ottenuti nella precedente «fiducia») indicano che il governo Berlusconi sta perdendo consensi e non ha più la maggioranza assoluta alla camera e quindi può andare sotto in qualsiasi momento. Soprattutto quando ci sarà da approvare i pesantissimi impegni presi con Bce, Fmi e Unione europea. Tuttavia gli stessi voti sembrano sufficienti a Berlusconi per non dimettersi. Insomma, una situazione di stallo. E l’incertezza non è assolutamente amata dai mercati.

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da Il Sole 24 Ore

 

Rehn: preoccupati per l’Italia

Beda Romano

 

BRUXELLES – La Commissione europea si è detta ieri «molto preoccupata» dalla situazione italiana. La presa di posizione, dietro alla quale si nasconde l’ennesimo appello a riformare l’economia dell’Italia, è giunta in un momento cruciale, mentre i mercati finanziari continuano a mettere sotto pressione il paese e si profila a Roma la drammatica fine del Governo Berlusconi.

«La situazione economica e finanziaria» dell’Italia è «molto preoccupante», ha detto il commissario agli Affari economici Olli Rehn, parlando ieri pomeriggio dopo una riunione dell’Ecofin a Bruxelles. «Seguiamo la situazione da molto vicino», tenuto conto che «il Paese sta facendo i conti in questo momento con una pressione molto significativa dei mercati».
«Per quanto concerne gli spread delle obbligazioni italiane – ha aggiunto Rehn – certamente siamo preoccupati per la situazione che stiamo seguendo molto da vicino, ma non voglio fare commenti o sostenere che un particolare livello è drammatico». Ieri il rendimento del titolo decennale è salito al 6,76%, ai massimi storici. Tutti gli osservatori convengono nel dire che un livello del 7% è insostenibile.
Da settimane ormai la Commissione europea sta lottando su due fronti: la Grecia, sempre sull’orlo della bancarotta e alla ricerca disperata di un nuovo governo dopo le dimissioni del premier George Papandreu; e l’Italia drammaticamente in bilico, e alle prese con una crisi politica senza precedenti che a questo punto dovrebbe portare alla prossima uscita di scena di Silvio Berlusconi.

Sul fronte greco le autorità comunitarie hanno più volte esortato la classe politica a creare un Governo di unità nazionale perché le riforme siano condivise da tutti i principali partiti. Ieri Rehn non ha voluto seguire la stessa strada parlando dell’Italia, ma ha detto di sperare «in un ritorno della stabilità politica» e ha ricordato che avere «un consenso sociale il più ampio possibile aiuta nell’affrontare sfide» come quelle italiane.
Nella sua conferenza stampa di ieri, il commissario ha confermato che una missione dell’Esecutivo comunitario sarà oggi in Italia. Guidato dal vice direttore per gli affari economici Servaas Deroose, il gruppo di economisti avrà il compito di monitorare l’adozione delle misure economiche promesse dal Governo Berlusconi, chiarire alcuni aspetti rimasti in ombra e tenere sotto pressione l’establishment politico italiano.

Il momento è delicatissimo. L’Europa teme che se il contagio della crisi debitoria dovesse attecchire anche in Italia l’intera zona euro sarebbe sull’orlo del collasso. In questo senso, non passa giorno senza che i partner europei facciano pressione sulla classe politica italiana – indipendentemente dal Governo in carica – perché rimetta ordine nelle sue finanze pubbliche e liberalizzi la sua economia. 

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L’agenda italiana tra impegni e ritardi

articoli di Marco Rogari, Davide Colombo e Beda Romano

Il completamento della riforma del sistema previdenziale, dopo la scelta fatta negli anni Novanta con il passaggio al contributivo, la riforma del mercato del lavoro, ponte finale delle riforma varate ai tempi del «pacchetto Treu» e della legge Biagi. E ancora: liberalizzazioni, formazione e fondi per lo sviluppo. Sono attese da anni le misure strutturali che ci chiede l’Europa, perennemente presenti nell’agenda del governo e mai portate a termine.

 

1) Riforma delle pensioni(di Marco Rogari)
Gli impegni del Governo
Innalzare progressivamente l’età pensionabile di tutti i lavoratori, uomini e donne, per arrivare a quota 67 anni nel 2026. Resta questo, per il momento, l’unico impegno preso dal governo italiano sulla previdenza. Un impegno che è stato messo nero su bianco nella lettera di intenti inviata a Bruxelles certificando gli interventi già adottati negli ultimi anni. Eppure dalla Ue non sono mancate le sollecitazioni, non ultima quella contenuta nel questionario trasmesso a Palazzo Chigi, a rendere più rapido il percorso per alzare la soglia pensionabile e soprattutto a porre freno ai trattamenti di anzianità. E ora occorrerà vedere se l’Esecutivo avrà la forza di inserire nel maxiemendamento alla legge di stabilità nuove misure che rispondano a queste richieste.

Nell’ultimo biennio l’esecutivo ha anzitutto adottato due interventi per far salire di fatto di due anni il requisito di vecchiaia oggi fissato per gli uomini a 65 anni: un meccanismo per agganciare il momento dell’effettivo pensionamento all’aspettativa di vita; la finestra mobile lasciando un solo varco annuale per le uscite. Il Governo ha poi equiparato, sulla spinta di una pronuncia della Corte di giustizia Ue, la soglia di vecchiaia delle lavoratrici statali a quella degli uomini. Un obiettivo ora fissato per le lavoratrici private con un percorso che scatta nel 2014 e si conclude nel 2026.

I ritardi accumulati
Dall’inizio degli anni Novanta il nostro Paese ha adottato una serie di interventi per evitare il crack del sistema previdenziale e garantirne la sostenibilità nel lungo periodo. Alcuni nodi però sono rimasti irrisolti, a cominciare dalla mancanza di un vero stop al ricorso ai trattamenti di anzianità, dal ritardato e troppo lento percorso per alzare l’età pensionabile delle donne e dalla fase troppo lunga per mandare a regime le misure finalizzare a rendere stabile l’impalcatura previdenziale. Un’altra anomalia è la scelta, operata nel 1995 con la legge Dini, di adottare il metodo contributivo, nella forma pro rata, solo per i neo-assunti e chi alla fine di quell’anno aveva maturato meno di 18 anni di contributi. Senza considerare che negli interventi che si sono susseguiti non sono mancate le contraddizioni. Prima fra tutte quella relativa alla scelta adottata dal governo Prodi con la legge Damiano del 2007 di far di fatto scendere, anziché salire, l’età media di pensionamento per effetto dell’introduzione del meccanismo delle quote (somma di età anagrafica e contributiva) per continuare a garantire gli assegni di anzianità che erano stati di fatto depotenziati nel 2004 con il cosiddetto ‘scalone’ introdotto dalla legge Maroni.

2) Pacchetto lavoro(di Davide Colombo)
Gli impegni del Governo
Negli impegni presi dal Governo (e già trascritti nel maxi-emendamento alla legge di stabilità) non c’è una riforma del diritto del lavoro capace di aprire la strada ai licenziamenti individuali o collettivi per ragioni economiche. Non c’è perché, su questo tema, prima è stato chiesto il pronunciamento delle parti sociali. Una richiesta che risale al progetto dello Statuto dei lavori presentato dal ministro Maurizio Sacconi (dove pure non si parla però di superamento dell’articolo 18 della legge 300 del 1970). Nel maxi-emendamento, che ora verrà rafforzato, ci sono altre cose: in particolare forme di incentivazione per l’occupazione dei giovani e della donne e un aumento dell’aliquota contributiva per i contratti di collaborazione a progetto.

I ritardi accumulati
In questa legislatura il Governo avrebbe potuto mettere mano da tempo a una riforma del diritto del lavoro ampia e capace di superare gli attuali assetti che garantiscono tutele asimmetriche per milioni di lavoratori dipendenti. Una delega era prevista nel «collegato lavoro», provvedimento che prevedeva una delega anche per la riforma degli ammortizzatori sociali, mai fatta a causa (è stato sempre motivato) della mancanza di risorse aggiuntive rispetto agli ammortizzatori sociali in deroga finanziati per far fronte alla recessione. La riforma che chiede l’Europa del nostro mercato del lavoro, se si legge fino in fondo la lettera del commissario Olli Rehn, sembra in realtà richiamare a un completamento delle riforme lanciate diversi anni fa (e mai completate) prima con il «pacchetto Treu» e poi con la legge Biagi. Prima che si aprisse la crisi, il presidente del Consiglio aveva indicato la possibilità di fare quel passo ulteriore indicando, come punto di partenza, i due disegni di legge presentati all’inizio della legislatura dal senatore Pietro Ichino, che prevedono una razionalizzazione vigente, comprese le norme sui licenziamenti.

3) Conti pubblici (di D. Pes.)
Gli impegni del Governo
Nella lettera d’intenti inviata a Bruxelles, il governo si dice convinto di aver «creato le condizioni» per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, con un anno di anticipo rispetto al precedente impegno. È l’effetto cumulato delle due manovre estive, che a regime operano una correzione di 59,6 miliardi. Dal 2012 ‐ si sostiene nella lettera ‐ grazie all’avanzo primario, il debito pubblico scenderà. E dunque sarà possibile ridurre l’ingente stock del nostro passivo dal 120,6% del Pil previsto quest’anno, al 112,6% nel 2014. La certezza sulla quale si muove la convinzione del governo è che dal 2008 il nostro debito pubblico, in rapporto al Pil, è cresciuto «meno di quello di importanti paesi europei». La scommessa è riuscire a ridurre stabilmente il debito pur in presenza di tassi di crescita molto esigui: 0,7% nel 2011, 0,6% il prossimo anno, 0,9% nel 2013. Stime che gran parte delle istituzioni internazionali hanno già abbondantemente rivisto al ribasso.

I ritardi accumulati
Nei cosiddetti «good times» il percorso di risanamento dovrebbe essere accelerato in direzione del pareggio di bilancio. Questa raccomandazione, rivolta in più riprese dalla Commissione europea ai governi, è stata sostanzialmente disattesa. Poi la grande crisi esplosa nel 2008 ha provocato l’impennata dell’indebitamento pubblico. Tra il 2000 e il 2001, quando l’economia italiana crebbe a tassi che ora paiono una chimera (attorno al 3%), certamente sarebbe stato più opportuno utilizzare anche in parte le risorse che si resero disponibili per abbattere il deficit. Da allora in poi non si è invece operato con coraggio e determinazione sulla riduzione della spesa corrente.

4) Fondi europei (di C.Fo.)
Gli impegni del Governo
Per l’esecutivo un utilizzo più efficiente dei fondi europei è condizione, si legge nella lettera di impegni presentata a Bruxelles, «per aggredire con decisione il dualismo Nord-Sud». A questo scopo l’Italia si è impegnata a una revisione globale dei programmi finanziati dai fondi comunitari. L’Italia aveva promesso un intervento sul tema entro il 15 novembre. Ieri è arrivata l’intesa tra il ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, e il commissario Ue per la Politica regionale, Johannes Hahn, per rivedere il tasso di cofinanziamento nazionale dei programmi comunitari abbassandolo dal 50 al 25%. In pratica, in base alla deroga concordata, governo ed enti locali potranno spendere 8 miliardi in meno del previsto di risorse nazionali mentre potranno continuare a spendere tutti i soldi europei. Le risorse così liberate saranno sganciate dai singoli programmi e orientate dall’Italia su priorità nazionali a partire dalle infrastrutture.

I ritardi accumulati
L’Italia sconta anni di programmazione estremamente frammentata nell’utilizzo dei fondi europei e del relativo cofinanziamento nazionale. E livelli di spesa che, come certifica periodicamente la Ragioneria dello Stato, ci pongono lontani dai target prefissati. Prima l’esperienza di Agenda 2000 (programmazione 2000-2006) poi il Quadro strategico nazionale (2007-2013) hanno mostrato limiti dovuti soprattutto all’eterogeneità di centinaia di piccoli progetti. Oltretutto, per evitare il disimpegno automatico dei fondi europei, con ritorno di risorse a Bruxelles, l’Italia si è contraddistinta per la pratica di certificazioni di spesa concentrate in tutta fretta negli ultimi mesi delle annualità.

5) Liberalizzazioni (di Eu. B.)
Gli impegni del Governo
Sul fronte scuola il Governo insisterà sulle sperimentazioni. Da un lato estenderà il quiz Invalsi dalle medie alle superiori: i risultati serviranno a individuare le aree del Paese più disagiate su cui avviare la «ristrutturazione», intesa come azioni di supporto e miglioramento. Dall’altro si cercherà di misurare i risultati delle singole scuole con un percorso di sperimentazione che valuterà, dopo alunni e insegnanti, anche i presidi. L’idea finale è di dare più fondi alle scuole meritevoli così da premiare i risultati degli insegnanti. Quanto all’università l’intenzione di aumentare i margini di manovra sulle rette degli studenti non dovrebbe avere seguito visto che il ministro Mariastella Gelmini non vuole intervenire sull’importo delle tasse d’iscrizione. Per l’attuazione della riforma degli atenei mancano ancora una ventina di step: dei 47 provvedimenti richiesti solo 13 hanno tagliato il traguardo e altri 15 sono in arrivo.

I ritardi accumulati
Il ritardo italiano sia nella scuola che nell’università è un fenomeno vecchio di almeno un ventennio. Tutti i tentativi intervenuti nel frattempo non hanno finora prodotto i risultati attesi. Molte speranze erano affidate alle riforme Berlinguer sull’autonomia scolastica e universitaria, varate nel ’97 e nel ’99. Ma la loro implementazione non è mai arrivata fino in fondo. E anche le modifiche volute dai ministri che si sono succeduti a viale Trastevere (da Letizia Moratti a Beppe Fioroni) non hanno ottenuto i risultati sperati. Quanto alle riforme Gelmini degli ultimi tre anni, necessitano di tempo per essere valutate: finora si è visto solo l’impatto dei tagli; per quello sulla promozione del merito bisogna attendere che decolli almeno il nuovo sistema di valutazione.

6) Scuola e università (di L. Ca.)
Gli impegni del Governo
Sulle libere professioni il Governo si è impegnato, con l’Europa, a «misure per rafforzare l’apertura degli Ordini professionali». Dopo la riforma soft della manovra d’estate, condivisa con gli Ordini stessi – formazione continua, assicurazione e ripristino dei parametri tariffari – il maxiemendamento contiene due misure: su tariffe e società. Vieta ogni riferimento ai tariffari con piena libertà di accordo tra le parti. Inoltre delinea società ad hoc tra professionisti, anche con socio non professionale e di capitali. Sui servizi pubblici locali, le prove di liberalizzazione vanno avanti dal 2008. In particolare, il Governo ha puntato sulla limitazione delle possibilità di affidare direttamente servizi pubblici a società in house, e sull’obbligo per i Comuni (in particolare quelli sotto i 50mila abitanti) di dismettere le quote di partecipazione nelle società.

I ritardi accumulati
Una riforma del settore è attesa da almeno venti anni. Tra strappi, tentativi dei diversi ministri della Giustizia e di disegni di legge, anche bipartisan, rimasti in Parlamento. Il primo sì alla possibilità di associarsi, per i professionisti, risale solo al 1997 (abolendo le restrizioni della legge 1815 del 1939). La vera ‘picconata’ arriva con il primo Dl 248 ‘Bersani’ del 2006: sancisce l’abrogazione di tariffe fisse o minime, l’apertura dei professionisti a società multidisciplinari e abolisce il divieto a farsi pubblicità. Una parte importante dei ritardi nell’applicazione della normativa, oltre alla lunga fase di costruzione delle norme, è dovuta ai referendum di giugno, che oltre a bocciare le regole sul servizio idrico hanno cancellato l’intera riforma del 2008-2009. Nelle manovre estive i capisaldi della riforma sono stati riproposti.

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1 Commento


  • Mic

    È il classico “piano di aggiustamento strutturale” del FMI, utilizzato fin dagli anni ’80 per mettere l’economia dei paesi poveri nelle mani di quelli ricchi: privatizzazioni, liberalizzazioni, licenziamenti, tagli alla spesa sociale e dittatura del bilancio. Risultato ovvio: aumento della diseguaglianza, ricchi più ricchi e poveri più poveri. Finora il FMI e la Banca Mondiale applicavano queste chicche neoliberiste ai paesi del terzo mondo: stavolta invece tocca a noi.

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