L’unica cosa che non si può fare è restare a guardare. La scorciatoia dell'”adesione subordinata” – fatta da alcuni settori di movimento in Sicilia, o suggerita da lontano di chi in Sicilia non ci ha messo piede se non per qualche vacanza – non appare davvero lungimirante, né efficace.
I “forconi” e similari sono con tutta evidenza frutto della “spremitura” che il governo Monti sta operando ANCHE sulla piccola borghesia italiana: tassisti, farmacisti, avvocati, autotrasportatori, ecc, si accorgono solo ora di non avere più degli “amici degli amici” al governo. Questo esecutivo, come abbiamo scritto su queste pagine ancor prima che nascesse, è stato voluto e selezionato dal capitale multinazionale, dalle grandi imprese, dalla finanza e dalle istituzioni sovranazionali. Dire “un governo di classe” è dunque insufficiente. Bisogna andare pù a fondo e vedere il miscuglio di settori sociali che viene impastato dalle “riforme strutturali” del governo Monti. Infiilarsi in qualsiasi protesta senza guardare quali interessi ci sono in campo, quali progetti vi cercano l’egemonia e quali ce l’hanno di fatto, è un gesto che può essere molto sconsiderato. Certamente inutile, potenzialmente dannoso. Anche se fatto con generosa spontaneità. Il rischio di portare acqua al mulino della destra “sociale”, quindi fascista e militaresca, è proprio in questi momenti fortissimo.
Ma soprattutto non si può stare fermi.
Sta soffrendo la classe operaia e tutto il lavoro dipendente, pubblico e privato, con contratto “stabile” (per quanto?) o precario, i giovani come i quasi pensionati. Dar vita a un movimento dei lavoratori è possibile, non facile, ma possibile e necessario. Abbiamo davanti diverse occasioni, che vanno rese grandi momenti di scelta ed egemonia sociale. La prima anche temporalmente è lo sciopero generale del 27 gennaio, indetto dal sindacalismo di base, a partire da Usb, con una manifestazione nazionale cui parteciperà anche il movimento No Debito, il Forum dell’acqua e altre forme organizzate della resistenza civile.
C’è una campagna referendaria che permette di andare fra la gente a spiegare quel che furbetti come Sel o supporti del governo come il Pd non spiegheranno mai. E che la destra “piazzaiola” occulta per calcolo. Bisogna avere parole d’ordine e obiettivi chiari, non genericamente “di protesta”. Bisogna avere un’agenda e un progetto indipendente, per non farsi usare da strategie altrui. Bisogna mobilitare e ri-organizzare la “nostra classe” perché abbia un futuro da soggetto e non da merce liquida.
Vediamo che anche la Fiom ha preso atto che aspettare ancora sarebbe suicida. Vediamo che sta scoprendo ora la durezza del fare sindacato senza più l’agibilità e i diritti, la durezza di una “semi-clandestinità” che i sindacati di base sono stati costretti a vivere per 20 anni. E’ bene che abbia indetto a sua volta una grande manifestazione nazionale il prossimo 11 febbraio, che proclami scioperi tra i metalmeccanici. E’ bene che si crei una dialettica tra questi settori di classe.
Non abbiamo mai nascosto le nostre perplessità – diciamo così – sulle illusioni strategiche del gruppo dirigente Fiom (il suolo possibile della “sinistra” come Sel, la possibilità di mutare i rapporti di forza interni alla Cgil). Ma riconosciamo nel percorso dela Fiom di questi ultimi anni molta vicinanza quotidiana, nelle pratiche e nel conflitto. Ci auguriamo possa svilupparsi positivamente. Alcuni segnali ci sono. Il conflitto deve unire le forze di classe e identficare con chiarezza avversari e compagni di strada.
Il vero antidoto ai “forconi” parte da qui. Da queste mobilitazioni, da questo arco di forze sociali che “fanno lavoro di classe”. Il resto sono chiacchiere, tifoseria che resta sugli spalti, parodie dell'”intellettuale di sinistra”. Che, sia detto come principio filosofico oltre che politico, o è “collettivo” oppure non è.
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Cause a raffica e referendum anti-Marchionne. L’11 febbraio il corteo che unirà democratici e sinistra contro le derive innescate dalla crisi
La prima emergenza del paese è la sospensione della democrazia. L’allarme lanciato a suo tempo dalla Fiom è stato raccolto ancora in modo parziale, frammentato; persino in una «sinistra» che dice di appoggiare i meccanici contro i diktat di Marchionne, ma poi si allinea soddisfatta dietro quel Mario Monti che «ci ha liberati di Berlusconi».
Il coordinamento dei delegati Fiom eletti a suo tempo in Fiat si è riunito ieri a Roma. È noto che la Fiom, non avendo firmato il «modello Pomigliano» – il «caso unico e irripetibile» che è diventato il contratto dell’auto nel giro di 18 mesi – non ha agibilità sindacale negli stabilimenti del gruppo. Paradossalmente può essere presente solo a Pomigliano, perché un giudice ha riconosciuto come «antisindacale» il comportamento dell’azienda. Che però, intanto, ha licenziato tutti i dipendenti campani e sta riassumendo solo chi non era iscritto alla Fiom.
Ma non si tratta più di un problema «aziendale» seppur enorme. Albeto Bombassei, ormai certo futuro presidente di Confindustria, ha come programma i «contratti specifici» – azienda per azienda, stabilimento per stabilimento – per tutte le aziende italiane. Che cosa accada dentro i reparti da cui ufficialmente è escluso il sindacato più rappresentativo viene fuori dalle testimonianze dei delegati. Chiuse le «salette sindacali», impedita qualsiasi attività che «interrompa il ciclo produttivo», la relazione tra lavoratori e «delegati» vive negli spazi della mensa, negli spogliatoi, nei passaggi alle linee. E fuori dai cancelli, dove la Fiom mantiene la presenza costante con tende, ecc.
Giorgio Airaudo, segretario nazionale con delega proprio al settore auto, parla della «necessità di reinventare il modo di fare sindacato» anche in questi spazi ristretti, senza «distacchi» e permessi, senza che l’azienda, da marzo in poi, ritiri più le quote degli iscritti per girarle al sindacato. Le similitudini con la «semi-clandestinità» degli anni ’50 ci sono tutte.
Anche in queste condizioni, infatti, è stato possibile raccogliere oltre 19 mila firme per chiedere di tenere un referendum abrogativo del «contratto auto», siglato da Fim-Cisl, Uilm e Fismic e mai validato da un voto. La richiesta è prevista proprio da quel «regolamento Rsu» riesumato all’improvviso per evitare che gli accordi fossero sottoposti alla verifica del voto dei lavoratori: se si raccoglie il 20% delle firme, si deve fare.
L’argomento è forte, perché Marchionne – contro il parere dei sindacati «complici» – aveva voluto il referendum sia a Pomigliano che a Mirafiori. Come può, ora, dopo aver esteso quel modello a 86 mila persone, rifiutare un referendum? Ci proverà, è sicuro. Perché lo stesso ricatto esercitabile in un singolo stabilimento («o dire sì o me ne vado») non ha la stessa credibilità se esteso a tutto il territorio nazionale. Ci sono produzioni non trasferibili, che vanno benissimo; e un problema politico tra azienda e governo. «È ai 20 mila firmatari e non a noi che gli altri sindacati debbono una risposta sull’organizzazione della consultazione – aggiunge il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini – Se i nostri iscritti infatti sono 11 mila, allora vuol dire che non l’hanno firmato solo loro».
Che per ora fa finta di non sapere e rinvia l’annunciato «incontro» con Marchionne. La Fiom moltiplicherà le cause contro l’azienda per «attività antisindacale», con buone possibilità di vincere in molte sedi. Ma promuove anche la mobilitazione, autocriticandosi per non essere stata abbastanza decisa il 16 dicembre, a ridosso dell’»infelice sciopero» di 3 sole ore, voluto da Cgil, Cisl e Uil come protesta puramente formale davanti al blitz del governo sulle pensioni. Proclama dunque lo sciopero e convoca una grande manifestazione nazionale per l’11 febbraio a Roma, «aperta ai movimenti» come quella del 16 ottobre dei 2010.
«Il governo deve farsi carico del nodo delle libertà sindacali», dice Landini. Una giornata dell’opposizione sociale, democratica e di sinistra. Chi si metterà di traverso candida i «forconi» a rappresentare tutto il malessere sociale. Sarebbe un atto criminale.
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