Stanno privatizzando il diritto del lavoroL’articolo 8 della manovra anti-crisi di ferragosto (legge 148/2011) spiana la strada alla disseminazione di una quantità imprecisabile di particolarismi regolativi incistati nelle periferie aziendali e/o territoriali del sistema paese. Il che lascia prevedere l’incontrollata disgregazione di un corpus normativo come il diritto del lavoro che, sia pure con fatica, aveva acquistato ed era riuscito a conservare una propria organicità e una propria identità. Per questo tutti i commentatori concordano che l’articolo 8, anche se la mentalità perversa del suo autore gli attribuisce una valenza liberatoria, ha materializzato un incubo da Apocalisse.
Finora, però, non è stato notato che in greco questa parola non significa soltanto distruzione. Significa anche rivelazione di cose nascoste.
In effetti, è come se l’art. 8 sollevasse un velo, rendendo palese quel che celava una prassi circondata da vasti consensi. La norma cioè estremizza la logica privatistica sulla quale si è venuto costruendo con dogmatica durezza, nel dopo-Costituzione, l’impianto politico-culturale di un settore cruciale dell’esperienza giuridica. Pur non essendone a rigore la conseguenza necessitata e inevitabile, non segna nemmeno una netta cesura. Tutt’al contrario, si colloca lungo una linea di continuità col processo di de-costituzionalizzazione che ha fatto defluire ed ha allontanato il lavoro, le sue regole e il sindacato, dalla sfera dell’interesse pubblico rappresentato dallo Stato e presidiato dalle leggi. Essendone l’approdo finale, la norma ne svela l’interna coerenza di svolgimento fino a celebrarne l’apologia. Peraltro, l’autore dell’art. 8 si propone di andare oltre la dissoluzione in ambito privatistico del diritto del lavoro. Si propone di esorcizzare programmi di politica del diritto che, come lo Statuto dei lavoratori, sono uno sviluppo deduttivo del seguente principio: senza la libertà dei privati il lavoro non può spostare in avanti l’equilibrio dei rapporti di forza col capitale, ma la libertà dei privati da sola non basta a metterlo in sicurezza. Ecco, allora, il messaggio trasmesso dall’art. 8: lo Stato con le sue leggi e i suoi apparati coercitivi o di controllo deve rimpicciolire il suo ruolo, ritrarsi e poi sparire dall’orizzonte del diritto sindacale e del lavoro – irrilevante essendo che lo Stato abbia la forma di «una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Fondata sul lavoro legale, la cui accessibilità essa medesima si obbliga a promuovere (art. 4), retribuito con un salario «sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36), protetto da un welfare idoneo a fornire mezzi adeguati per fronteggiare situazioni di bisogno (art. 38), munito del diritto di auto-organizzarsi, sia per negoziare i trattamenti minimi inderogabili (art. 39), che per gestire la lotta sindacale (art. 40).
La descritta chiave di lettura dell’art. 8 offre la ghiotta opportunità di verificare come e quanto i fideismi possano alla fine risultare deleteri, malgrado la bontà delle motivazioni originarie. Con ciò intendo dire che non ha senso demonizzare l’opzione di politica del diritto, risalente agli anni Cinquanta, secondo la quale la privatizzazione del diritto sindacale e del lavoro è sinonimo di libertà intesa come potere dei privati di gestire i propri interessi senza le stampelle del potere pubblico e dunque senza doverne pagare il prezzo. Sarebbe saggio, invece, contestualizzarla.
La ripresa degli studi giuridici decollò sull’onda di un’indignazione per l’orgia pubblicistica dell’età fascista che faceva apparire prioritaria l’esigenza di evitare ogni contaminazione con un regime che aveva vampirizzato il diritto sindacale, trasformandolo in altro-da-sé, e aveva penalizzato il diritto del contratto di lavoro, riducendone drasticamente lo spazio di autonomia creativa che soltanto il conflitto sociale può procurargli. Viceversa, il rischio di contaminazioni era nelle cose, dal momento che si era concordemente deciso di demandare la responsabilità politica di defascistizzare l’ordinamento (ereditato con beneficio d’inventario stante la pessima fama del de cuius) alle future maggioranze parlamentari e, nel frattempo, al ceto professionale politicamente meno responsabile e culturalmente più legato al passato: ossia, ai giudici ordinari, al giudice delle leggi (che si sarebbe insediato soltanto nella seconda metà degli anni Cinquanta) e in genere agli operatori giuridici. Come dire che la giovane democrazia ha dovuto imparare a vivere senza Costituzione – e non solo in materia sindacale e del lavoro – perché occorreva tempo per bonificare il terreno nel quale era germogliata la normativa fascista. E ciò soprattutto perché il giudizio di disvalore che si era guadagnato la legificazione cingolata emanata in età fascista non era affatto generalizzato; anzi, erano in molti a ritenere che fosse possibile democratizzarla previo un intelligente maquillage. In un clima culturale così ambiguo, la soluzione della disputa sull’attuazione dell’art. 39 (che portava con sé, per una sorta di automatismo, l’attuazione dell’art. 40 secondo il quale lo sciopero è «un diritto che si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano») venne facilitata dalla larga condivisione del pregiudizio favorevole di cui godeva il diritto privato codificato nel 1942.
Un pregiudizio avvalorato da un’accomodante storiografia, secondo la quale l’elaborazione del codice era riuscita a sottrarsi a pesanti compromissioni col regime. Pertanto, l’ancoraggio privatistico del diritto sindacale e del lavoro venne enfatizzato perché consentiva di dare una giustificazione politico-culturale ad un’inadempienza costituzionale. L’essenziale era che a un movimento sindacale come il nostro, con enormi ritardi da colmare quanto a esperienza di libertà, non fosse negata la chance di costruirsi la sua al di fuori di schemi regolativi prefabbricati con materiali avariati.
Insomma, la delegittimazione della costituzione del 1948 in materia sindacale e del lavoro è iniziata in nome della democrazia.
Buttato lì con una franchezza che rasenta la ruvidità, l’assunto fa una certa impressione. Eppure, è ovvio che la Cgil non si fidasse di un Parlamento che nell’età dei governi centristi detestava tutto ciò che aveva odore di sinistra di classe e che, da parte sua, la neo-nata Cisl premesse sulla Dc per dissuaderla dall’approvare una legge che, trasferendo il principio di maggioranza nella dinamica delle relazioni collettive di lavoro formulato dall’art. 39, rischiava di strozzarla nella culla. Casomai, bisognerebbe chiedersi quale significato abbia finito per acquistare la disattivazione costituzionale che i sindacati hanno continuato a reclamare anche dopo che la Cisl, raggiunte le dimensioni di un’organizzazione di massa, non aveva più bisogno di protezioni; dopo che il Muro di Berlino è crollato e la conventio ad excludendum su cui si reggeva la Repubblica dei partiti non è un esangue anacronismo soltanto per Silvio Berlusconi – anche perché non si sa che fine abbia fatto la sinistra: desaparecida come un soldato spedito al fronte i cui cari attendono con apprensione il ritorno a casa, c’è chi dice che sia morta, chi dice che sia prigioniera del nemico, chi dice che abbia disertato.
Il tasso di ascolto della reiterata denuncia del pericolo mortale che correrebbe il lavoro a gravitare nell’orbita del diritto dello Stato per il quale si è combattuta una guerra civile è troppo elevato per non insospettire. Il fatto è che fa comodo crederci, allo Stato e ai partiti, perché li de-responsabilizza in ordine all’attuazione di mezza Costituzione; che viene così appaltata a soggetti privati il cui coinvolgimento istituzionale si sviluppa in una cornice di bassa politica.
Per questo, domina la tendenza a premiare la fatalistica credenza dell’immutabilità di ciò che, dovendo essere, è stato – irrilevante essendo l’entità dello sbrego subito dal tessuto della democrazia costituzionale.
Infatti, a furia di rivendicare all’auto-determinazione delle parti sociali la regolazione del lavoro e del sindacato, un poco alla volta esse hanno finito col maturarne una concezione proprietaria finalizzata alla crescita del loro potere di rappresentanza ed al consolidamento organizzativo del loro ruolo. Ne costituisce un sicuro indizio la postilla dell’accordo del 28 giugno 2011 dalla quale si desume che le confederazioni giudicano l’art. 8 non tanto come un indebolimento della tutela del lavoro quanto piuttosto come un fattore di disturbo della propria primazia.
È un sintomo che pesca nel profondo. Per questo, bisognerebbe analizzarlo. Sia pure dicendo, con Massimo Troisi, «scusate il ritardo».
da “il manifesto”
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