Ma sbaglia clamorosamente e fa autogol, permettendo di acchiappare in modo plastico la “tecnica” (questa sì) manipolatoria di questo governo. E dei media che lo sostengono. Non ci sembra necessario aggiungere molto all’articolo che qui riportiamo. Anche perché persino il sicuramente “non ultrasinistro” Luca Telese, su Il Fatto, giunge a conclusioni decisamente simili.
Passato il mese «buonista», in cui sono state esibite tutte le movenze di un «confronto», si è scoperto che il governo era fermo sulle posizioni di partenza. Anzi, che le aveva addirittura peggiorate in corso d’opera (tipo la «riforma degli ammortizzatori sociali» anticipata al 2015 anziché al 2017, eliminando anche la cigs per «cessazione di attività»).Così, dopo aver riscontrato disagio o contrarietà nei sindacati confederali di fronte all’indecenza di certe proposte, la ministra Elsa Fornero è tornata a un più naturale decisionismo sabaudo. Dalle promesse alle minacce.Difficile interpretare diversamente la sequela delle sue dichiarazioni nella giornata di ieri. «È chiaro che se uno comincia con il dire no perché dovremmo mettere lì una paccata di miliardi e poi dire: voi diteci di sì?» ci sembra la più forte, anche se la meno elegante. In pratica, secondo la ministra, il «confronto» va bene se la controparte dice «sì» a un concetto, disegnato tutto sulla carta; poi, eventualmente, il governo spiega dove troverà le risorse per realizzarlo. Non si fa fatica a indovinare da chi la prof. questa volta ha copiato il metodo: Sergio Marchionne, che fin da Pomigliano prima pretende che tutti accettino le sue condizioni e poi, garantisce, realizzerà gli investimenti. 20 miliardi, quelli promessi; uno quello davvero investito. E dire che ha potuto fare proprio come gli pare, con l’aiuto di quasi tutti.Il secondo punto chiave è così detto: «Dare effettiva parità di accesso al mercato del lavoro significa smantellare le protezioni che si sono costituite che spesso sono state motivate da buoni principi ma che hanno implicazioni di conservatorismo molto forte fino alla difesa dei privilegi». Quelli che in lingua italiana si chiamano diritti collettivi (termine positivo), conquistati in un secolo di battaglie sindacali e politiche, vengono rovesciati in «privilegi», intrinsecamente negativi. Ma quando si applica con tanta orwelliana attenzione la «cura del linguaggio» per nascondere la realtà è lecito attendersi il contrario di quel che si promette («non siamo così ingenui da pensare che la riforma del mercato del lavoro farà ripartire immediatamente la crescita e l’occupazione ma è un prerequisito fondamentale», perché «in un mercato del lavoro dinamico c’è maggiore facilità di entrata e un po’ più di facilità di uscita»).Da dei tecnici di prima qualità, invece, ci si attenderebbe qualche numero (in posti di lavoro e anni di attesa) per poter quantificare gli «effetti benefici» delle proposte fatte. A fare affermazioni, son buoni tutti.Il resto è ripetizione di una cantilena che passa ogni giorno su ogni media: «È molto difficile creare posti di lavoro e non si costituiscono con i soldi pubblici: quella è una via negata; il nostro spread schizzerebbe ed è inutile provarci». Al confronto, sembra molto moderata la reazione di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil: «Siamo di nuovo di fronte a una riforma che non rappresenta una tutela per tutti, ma anzi una riduzione della tutela esistente».
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