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Repubblica. Viva Monti, anche a dispetto della verità

Il primo comandamento del giornalismo recita “verifica, verifica, verifica”. A volte, lo sappiamo, è difficile. Ma in questo caso era piuttosto semplice. Esce un lancio di agenzia che riporta un paio di frasi di un poco noto parlamentare tedesco, rilasciate nel corso di un’intervista. Prima di sparare un editoriale era sufficiente leggersi l’intervista completa, e a Repubblica non manca certo chi sia in grado di tradurre dal tedesco.
Invece no. Quella battuta germanica era troppo ghiotta per chi ha bisogno di fare di Monti l’esempio della lungimiranza finanziaria e politica. E quindi giù righe di fuoco contro i nemici dell’euro, ovviamente annidati a destra come a sinistra. Ideologia allo stato puro, insomma, spacciata per giornalismo. Addirittura “autorevole”.

 
 
I nemici di comodo della stampa italiana filo-Monti

Jacopo Rosatelli

Viviamo tempi in cui l’intervista di un deputato tedesco di seconda fila (il socialdemocratico Karsten Schneider) concessa ad un giornale locale (la Berliner Zeitung , letta quasi solo nella fu Berlino est) può servire da cartina di tornasole della crisi profonda in cui versa l’Europa. Una crisi che si caratterizza per enormi deficit di comprensione, alimentati anche da quanti dovrebbero aiutare a capire la realtà e, invece, sembrano dedicarsi ad una sorta di disinformacjia di stampo neoliberale. Ne troviamo, purtroppo, esempio talvolta anche sulla nostra più autorevole stampa «progressista» che, pure, afferma di voler contribuire a creare un’opinione pubblica matura. L’esempio delle dichiarazioni di Schneider calza a pennello. Sui giornali e siti italiani ha trovato spazio nei giorni scorsi una notizia inquietante: anche la Spd, per bocca del citato Schneider, sposa una linea «non più solo rigorista, ma al dunque anche potenzialmente anti-europeista». Lo scrive il 17 agosto il vicedirettore di Repubblica , Massimo Giannini, in un editoriale dai toni allarmati, nel quale si produce in un’apologia del montismo da fare invidia agli specula umanistici sulle virtù del Principe. La linea è chiara: non solo la destra (gli euroscettici di lunga data), ma anche la sinistra (vedi il deputato Spd) è ormai sulla china del populismo antieuropeo, da cui possiamo salvarci soltanto affidandoci ora e sempre alla sapienza tecnica e alla saggezza politica di Mario Monti, in accordo con la prudente centrista Angela Merkel, vittima in patria di un «assedio bipartisan». Peccato che questo ragionamento si fondi su un presupposto inesistente: che la Spd stia assumendo una linea «non più solo rigorista, ma al dunque anche potenzialmente anti-europeista». Chi sa il tedesco può godere del privilegio di scoprirlo da sé. In alternativa, dovrebbero essere gli organi di informazione ad aprire le porte sulla realtà, senza che l’ansia di interpretarla per «dare la linea» la trasfiguri fino a tal punto. Se ci si prende la briga di leggere per intero l’intervista concessa da Schneider (il 14/8) si scopre che di quel populismo neo-nazionalista non c’è traccia. I socialdemocratici tedeschi, come i socialisti francesi e spagnoli, sono certamente piuttosto moderati, ma hanno una caratteristica che non garba ai fan nostrani del governo «tecnico»: rifiutano l’idea che all’Europa di oggi serva una specie di union sacrée attorno al dogma dell’austerità. E hanno una lettura della crisi ben diversa da quella neoliberista. Lo stesso Schneider ricorda che i tagli decisi in Grecia e in Spagna «portano necessariamente alla recessione» e che «i costi della crisi sono stati distribuiti sinora in modo ingiusto». Che «i mercati finanziari sono irrazionali» e gli interessi sul debito spagnolo sono ingiustificati. Che i tedeschi traggono vantaggio in grande misura della crisi – letteralmente: « Wir sind die Profiteure der Krise ». Che si deve combattere il dumping fiscale interno all’Unione, e servono tasse sulle transazioni finanziarie e sulle grandi ricchezze e – addirittura – che «in Europa la libertà di circolazione dei capitali non può essere un tabù». Su cosa si fonda, allora, la «notizia» diffusa e interpretata dai nostri media? Su un passaggio nel quale il politico socialdemocratico ripete quanto da settimane afferma ufficialmente la Spd (vedere il sito): che una forma di garanzia tedesca del debito dei Paesi in crisi esiste già, mentre la Cancelliera Merkel sostiene il contrario. E che ciò avviene attraverso l’azione della Bce: la quale, libera da ogni controllo democratico, compra (se vuole) i titoli degli stati periferici, magari dopo che questi ultimi hanno obbedito alle sue raccomandazioni. Il principale partito d’opposizione tedesco pensa, invece, che la garanzia comune dei debiti debba avvenire in modo trasparente e che risponda ad una volontà politica democraticamente determinata. Come si vede, siamo lontani anni luce dal populismo euroscettico della destra che critica Merkel. Il punto, però, non è difendere l’onore della socialdemocrazia tedesca insidiato dai tecnofili italiani. Qui interessa innanzitutto restituire un’immagine veritiera del dibattito politico in corso in Germania, e in particolare nella sinistra. Perché non sfugga che, pur con ritardi e incertezze, nella Repubblica federale c’è chi lavora ad un’alternativa alla politica democristiano-liberale oggi al governo a Berlino. E lo fa partendo dalla denuncia (non senza accenti autocritici) del fallimento del neoliberismo e da una diagnosi sull’origine della crisi che nulla ha a che vedere con i luoghi comuni sui «Paesi spendaccioni». Non riconoscere anche questi termini della dialettica politica tedesca, e farne una caricatura popolata da «populisti di destra e di sinistra» contro Merkel, è innanzitutto un errore. Ma l’impressione è che sia soprattutto un mascheramento interessato di una realtà che non si vuole vedere, perché non risponde a quell’immagine del mondo che cerca la salvezza nella politica affidata a quei «pochi che sanno» e che per il nostro «superiore Bene» amministrano, con la dura saggezza dei sacerdoti, i sacri misteri dell’austerità.

da “il manifesto”

Per completezza, ecco anche la citata summa ideologica di Massimo Giannini.

LA DOPPIA LINEA D’OMBRA

LA “linea d’ombra” tedesca, come la chiamava Tommaso Padoa-Schioppa, torna a offuscare l’orizzonte d’Europa. È già successo, nella parabola a tratti tragica del Novecento. Succederà ancora, in quella pacifica del Terzo Millennio. L’identità fragile di una moneta rischia di alimentare un’alterità irriducibile tra i popoli.

Quello che colpisce di più, nella nuova ondata revanchista partita dalla Germania, è la trasversalità del fronte politico schierato contro i vituperati Paesi del Club Med. Paesi che prosperano irresponsabilia spese delle finanze tedesche, contro la Bce dell'”italiano” Mario Draghi che gli regge il gioco, e alla fine contro l’euro che finisce per mettere in comune i vizi dei “latini” e le virtù dei “teutoni”.

Il voto del prossimo anno non pesa solo a Roma. C’è un elettore anche a Berlino. Ma finora, almeno da quelle parti, non si era mai visto un fuoco incrociato che vede convergere i partiti della maggioranza, la Cdu e l’Fdp, e quelli dell’opposizione, la Spd, su una stessa linea non più solo rigorista, ma al dunque anche potenzialmente anti-europeista. Una linea populista e difensiva, quella emersa a sinistra con Schneider, che dà voce al contribuente tedesco stanco di pagare il costo dell’integrazione europea e del salvataggio dei Paesi periferici dell’eurozona: non i 310 miliardi di cui parla la Merkel, ma quasi 1.000 se si sommano gli aiuti, i crediti e le garanzie prestate finora dalla Bundesrepublik.

Una linea sciovinista e quasi eversiva, quella rilanciata a destra da Willsch e Schaeffler, che dà corda all’ortodossia monetarista della Bundesbank stanca di soccombere nel board di una Bce ormai trasformata in una “bad Bank” finanziatrice di Stati-canaglia: dunque, si cambi “la regolamentazione del peso dei voti nelle sedi decisionali” dell’Eurotower.

Poco importa se la prima tesi sia falsa: la Germania, in rapporto al Pil, contribuisce al fondo salva-Stati meno di molti altri Paesi (compresi quelli del Sud). E poco importa se la seconda ipotesi sia assurda: introdurre nel Sistema delle Banche Centrali un criterio che fu caro a Enrico Cuccia, in base al quale «i voti non si contano, ma si pesano», oltre a implicare una revisione dello Statuto e quindi del Trattato, comporterebbe una violazione del principio democratico. “Una testa, un voto”, è una regola che vale e deve valere ovunque, in Occidente. Nel Bundestag come nel board della Bce. Ma il problema della “linea d’ombra” tedesca, a questo punto, è un altro.

L’insofferenza contro i vincoli di questa Europa ineguale e irrisolta non è più solo questione di “falchi”, come finora ci siamo comodamente abituati a pensare. Questa sorta di sindrome di Weimar, che ritorna sotto altre spoglie e attanaglia a Berlino l’intero arco costituzionale, riflette con tutta evidenza un malessere sempre più radicato e diffuso nell’opinione pubblica tedesca. Questa evidenza ha due implicazioni. La prima implicazione riguarda il destino stesso della moneta unica, e in questo ambito il ruolo della Banca Centrale Europea. Com’è chiaro a tutti, la partita inaugurata nel Vertice Ue il 28-29 giugno e poi nel Consiglio direttivo dell’Eurotower, il 2 agosto, non è affatto conclusa, ma semmai è appena cominciata. E Draghi non l’ha certo vinta, quella partita, ma deve ancora giocarla, riempiendo di fatti concreti gli annunci formulati in conferenza stampa. Una missione delicatissima, vista la risoluta e ostinata opposizione tedesca all’acquisto diretto di bond dei Paesia rischio spread, come la Spagna e l’Italia. Se il programma di rifinanziamento non parte a settembre, qualunque sia la formula scelta (un nuovo Ltro o una riattivazione dell’Smp), la tregua agostana concessa dai mercati finirà, e per la moneta unica suonerà forse la campana dell’ultimo giro.

La seconda implicazione riguarda proprio l’Italia. L’irredentismo tedesco va confutato e arginato. Ma va innanzitutto capito. Il “superiority complex” della Germania non nasce solo dalla spocchiosa arroganza, inaccettabile in un Popolo che non finirà mai di farsi perdonare abbastanza per le carneficine novecentesche che ha generato. Origina anche dalla consapevolezza di un Sistema-Paese fondamentalmente sano, e di una società sufficientemente evoluta. Dove le riforme strutturali sono state compiute e dove la crescita non è solo il risultato di un’economia “sociale”, ma anche un derivato della filosofia morale: il giusto premio, cioè, alla scelte eticopolitiche condivise dalla nazione.

In un’Europa che si vuole federale e solidale, la pretesa che anche gli altri contraenti del patto comunitario facciano altrettanto non solo non è irricevibile, ma va raccolta perché è profondamente giusta. Questo, in Italia, sembra averlo capito solo Monti. E solo Monti sembra aver capito che, in un momento così difficile, per paradosso il nostro alleato più prezioso è proprio la Cancelliera di Ferro. Non è un caso se proprio la Merkel, in Europa, continua a difendere Draghi.

E non è un caso se proprio la Merkel, in Germania, subisce per la prima volta un assedio bipartisan. Oggi noi abbiamo bisogno della Zarina di Berlino. E dunque fa bene il presidente del Consiglio a coltivare con lei un rapporto politico e personale che finora, a parte qualche momento critico, non ha conosciuto appannamenti.

Ma la Zarina di Berlino ha anche bisogno di noi. Per evitare che in casa sua si punti inevitabilmente il dito contro quelle che tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre qualcuno chiama «le solite cavallette italiane», l’Italia non deve cedere un millimetro sul fronte della tenuta dei conti pubblici e sul rispetto dell’impegno al pareggio di bilancio strutturale. Come ricordano da giorni il premier e il ministro del Tesoro Grilli, «l’emergenza è tutt’altro che finita». Al di là delle formule, questo significa che la nostra, purtroppo, resta e deve restare ancora a lungo una politica economica «emergenziale». Margini per tornare a spendere, o per allargare in altro modo i cordoni della borsa, non ce ne sono ancora. E questo vale per il governo in carica, ma anche per i governi che verranno. Cedimenti propagandistici, su questo fronte, producono solo danni: illusioni tradite all’interno, ritorsioni adirate all’estero. Qui si apre un drammatico deficit di consapevolezza, nei partiti che si preparano a una campagna elettorale lunga ed estenuante. È la “linea d’ombra” italiana. E non è meno pericolosa di quella tedesca.
m. giannini@repubblica. it

MASSIMO GIANNINI

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