E’ difficile improvvisare un necrologio su un personaggio del genere senza dover ripercorrere la storia dell’Italia repubblicana. E per le coincidenze anche simboliche che costellano la nostra storia, se ne va proprio quando la Repubblica sta per cambiare definitivamente forma.
E’ difficile anche fare un paragone con la classe politica attuale, composta per lo più di mezze figure non all’altezza della sua leggendaria gobba. Uno statista, dall’altra parte della barricata, e nemmeno il migliore del suo schieramento. Molto più considerati di lui erano infatti i due “cavalli di razza”, Amintore Fanfani e Aldo Moro. Dietro di lui una schiera di terze linee, come Francesco Cossiga, Ciriaco De Mita, Antonio Segni, Mariano Rumor, ecc.
Era certamente un nemico feroce del movimento operaio e dei comunisti in genere (e non faceva certo distinzioni tra “socialismo reale” e le varie eresie degli anni ’60-’70. Ma nemmeno lui fece cadere la “discriminante antifascista” fissata dalla Costituzione, anche se ci andò molto vicino in alcuni passaggi parlamentari piuottosto “arditi” per quei tempi. Oggi sembrerebbero normalità, in un parlamento che vede nella stessa maggioranza ex-fascisti ed ex-comunisti (non guardateci male; la tessera del Pci in tasca i D’Alema e i Bersani l’hanno avuta…), sotto la regia dei tecnocrati della Troika e sotto il ricatto quotidiano di un ex-piduista ora loro trainante alleato.
Era certamente il capo della corrente democristiana cui faceva riferimento la Dc siciliana, e quindi la mafia, senza se e senza ma. E quindi era anche la faccia dello Stato che manteneva nel suo cerchio magico anche la criminalità organizzata, in un rapporto sempre conflittuale, ossia “contrattato”. E furono i suoi uomini in Sicilia – i Riina e i Salvo – a pagare il prezzo della incapacità, persino di Andreotti, di mantenere i patti fin lì stipulati con Cosa Nostra. Lì avvenne il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, lì crollarono i partiti storici, lì il referente “politico” divenne Silvio Berlusconi. Che proprio su quel passaggio – la nota ancorché segreta “trattativa tra lo Stato e la mafia” – si sia giocato uno scontro durissimo tra presidenza della Repubblica, parlamento uscente e magistratura, è indicativo dell’importanza del tessuto di rapporti che Andreotti per 40 anni aveva gestito con cinismo assoluto e indubbia efficacia. In chiave anticomunista, ovviamente.
Su tutta questa materia, più che la pletora di libri giù pubblicati dai suoi detrattori o difensori, sarà decisivo leggere i suoi diari. Se un Napolitano o altri non vi imporrà sopra il “segreto di Stato”.
E proprio qui si rintraccia forse la sua caratteristica peculiare: Andreotti non è mai stato uomo politico di grade visione o di alti ideali, ma un gestore occhiuto e oculato del potere. Nella sua idea della politica il realismo è probabilmente stato il baricentro. Realismo cinico, ripetiamo, per cui “bisogna prender atto di quel che c’è” e giocare con le carte che si hanno in mano. Con trucchi, sgambetti, manovre, e persino qualche omicidio mai a lui in prima persona riconducibile.
Un Mefistofele della politica come “arte del possibile”, un calcolatore capace però di passare all’azione. Ma sempre con un’idea chiarissima di chi fossero i nemici. Noialtri, i comunisti. E si capisce perché anche a Washington non abbiano mai smesso di sostenerlo, rappresentando sempre l’alleato migliore, ancorché da trattare con le pinze.
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MICHEL
Per la gioia dei politicanti bipartisan e non solo,la Perugina commemorerà la morte di Giulio Andreotti con uno speciale “BACIO RIINA”.