Di interessante c’è – oltre l’asprezza di un confronto tra donne di personalità molto diversa, ma niente affatto arrendevole – l’annodarsi intorno al concetto di “verità”. Concetto chiaro, in epistemologia (è vera quella teoria che spiega un fenomeno e ne individua le leggi, fin quando non ne viene elaborata una migliore, che spiega anche i fenomeni inspiegabili con quella precedente). molto meno nei rapporti tra gli umani e loro cose. Qui il terreno del “vero” diventa quello del “terreno comune”, che implica un mutuo riconoscimento tra parti diverse e contrapposte; quel terreno che esiste indipendentemente dai due o più contendenti e che, rispettando alcune regole (insomma, quel terreno che con berlusconiani e fascisti in genere non si riesce mai a stabilire).
Uno scontro vero, politico. Che rigorosamente solo Rangeri nega e che per questo, senza volerlo, viene ammesso. Così come viene indirettamente ammessa la propria falsità.
Il terreno dello scontro è infatti il “cambiamento” della realtà, le sue caratteristiche fondamentali. Che per Rossanda è un cambiamento nelle forme storiche, non nella struttura dei rapporti sociali e quindi delle leggi che muovono la società capitalistica.
Per Rangeri, con tutta evidenza, è l’esatto opposto: poiché le forme sono cambiate, allora nulla è più interpretabile con le categorie “comuniste” (impagabile, come confessione, quell’incipit “chi ha creduto di battersi per la rivoluzione, per tutta la vita, dovrebbe sempre dire la verità”; manca un “che illusi”, ma sul manifesto sarebbe stato eccessivo). Meglio, molto meglio, quelle che passa direttamente l’estrablishment…
Il resto è la solita storia delle scissioni non esplicitate: “voi ci avete cacciato”, “no, siete voi che ve ne siete andati mentre la barca affondava”. E anche su questo punto, sia Rossanda che Dominijanni “stracciano” senza sforzo l’autistico nostromo che guida una barca ormai irriconoscibile…
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Incontro con Rossana Rossanda.
“Io, eterna madre della sinistra uccisa dai figli”
L’allontanamento dal “Manifesto”. Il conflitto fra generazioni. Le nuove disuguaglianze. Colloquio con la “ragazza del Novecento”
di SIMONETTA FIORI
BRISSAGO – “No, non ci capiamo più. Li ho ascoltati per tanti anni, un lungo miagolio sulle mie spalle. Venivano dalla madre a raccontare le delusioni esistenziali. Gli amori, le speranze, le difficoltà. Ma ora davvero non ci capiamo più”. Lo sguardo è severo e insieme sorridente, l’incarnato candido come le camelie che fioriscono nel giardino qui intorno. Da qualche mese Rossana Rossanda vive a Brissago, un angolo del Canton Ticino dove si fermerà fino alla fine di agosto. “Sì, è un bel posto. Dall’ospedale di Parigi vedevo solo la periferia, qui c’è il lago per fortuna increspato dal vento. Per chi non la conosce, la Svizzera può essere incantevole. Ma pare che chi ci vive la trovi insopportabile”.
Azzurro ovunque, le vele bianche, anche i monti innevati, una bellezza quasi sfacciata e intollerabile allo sguardo ferito di chi abita nella grande casa di vetro affacciata sul lago Maggiore. “La prego”, si rivolge con famigliarità all’infermiere, “può dare un po’ d’aria alle rose?”. La stanza è luminosa, sul comodino la bottiglia di colonia e la biografia di Furet, un po’ più in là l’ultimo libro di Asor Rosa, I racconti dell’errore. “È un bellissimo libro sulla vecchiaia e sulla morte. Ma noi vogliamo parlare d’altro, vero? I necrologi lasciamoli da parte”.
Per i più vecchi, nella famiglia del Manifesto, è stata l’eterna sorella maggiore, la quercia sotto cui ripararsi nella tregenda. Per i “giovani” – così li chiama, anche se giovani non sono più da tempo – è la madre temuta e ingombrante. “Sì, una madre castratrice. Mi hanno sempre visto così, anche se io non mi sono mai sentita tale. Ho sempre cercato di capire, di dar loro spazio, ma forse è una legge generazionale. I figli per crescere hanno bisogno di uccidere i padri e le madri. E ora è toccato anche a me”.
Nel settembre scorso ha lasciato il giornale da lei fondato con un articolo molto polemico: è mancata una riflessione su chi siamo, su cos’è diventato il quotidiano, sul rapporto con le origini e con il presente. Su cos’è oggi la sinistra. Insieme a Rossanda, se ne sono andati anche Valentino Parlato e diverse altre firme. “Non siamo noi ad essercene andati. È il Manifesto ad averci cacciato. L’abbiamo perso. Non voleva più saperne di noi, e noi ci siamo ritirati. Anche stupidamente, perché dovevamo essere noi a far tacere i più giovani. C’è stata una grandissima cesura, tra la nostra generazione e quella successiva. Mossi da una sorta di risentimento, non fanno che dirci: soltanto un mucchio di macerie, ecco quello che ci avete lasciato. Voi, con le vostre certezze e le vostre idee granitiche. È la frase più stupida che abbia mai sentito”.
Macerie, certezze, noi e loro. Nessun errore, nessun ripensamento? “Il mio errore è stato non tenere unito il gruppo. E anche non capire che, se per la nostra generazione è stata dura, per quelli nati negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso lo è ancor di più. Ma non dovevamo farci portare via il giornale. Come in un refrain, ci ripetono: è cambiato tutto, niente è più uguale a prima. Ma cosa vogliono dire? Cos’è questo tutto che è cambiato?”.
Il mondo le appare più ingiusto che mai, tra privilegio e povertà, sfruttatori e sfruttati, management superpagato e lavoratori affamati. “Non c’è mai stata tanta ineguaglianza nella storia. Però si passa sopra tutto questo, non importa. È stato assorbito anche dai giovani il bisogno di abolire il conflitto, come se lo scontro sociale fosse una roba del secolo scorso. Anche il Manifesto ci ha rinunciato da tempo, mescolando confusamente beni comuni ed ecologismo. Sì, certo, di queste cose non me ne importa niente anche per miei limiti. Ma sento il bisogno di chiedere un ritorno al conflitto di classe. E non penso a un estremista assetato di sangue, ma alle analisi di Luciano Gallino, che io ricordo all’epoca di Adriano Olivetti”.
Le fa orrore una società pacificata, “l’assurda intesa benedetta da Napolitano tra Berlusconi e quel po’ di sinistra che resta”. E non ha grande fiducia nei movimenti, generosi e vitali ma impotenti. “Prevale ovunque l’antipartito, che mi sembra profondamente sbagliato. I partiti hanno avuto molti difetti, ma ciascuno da solo non combina niente. L’alternativa rischia di essere Grillo, il quale è riuscito a condensare i peggiori vizi dei partiti – l’autorità del Capo – senza esercitarne la funzione più nobile, ossia tenere insieme le persone, impegnarle in un progetto comune. Poi lo stile: quello che ha fatto con Rodotà è al di sotto di ogni decenza”.
No, ora non le interessa più tornare al Manifesto, confondersi “in quel chiacchiericcio insensato”. Preferisce scrivere “su un sito di economisti intelligenti come Sbilanciamoci”. Ma non è una rottura personale, solo politica. Lo ripete più volte, come se ci volesse credere. “Almeno per me è così. Non mi pesa aver litigato con qualcuno, umanamente faccio la pace subito. Io non faccio pace con le idee, che è cosa molto diversa. Ma i giovani ragionano in altro modo. E forse io voglio più bene a loro di quanto loro ne vogliano a me”.
Ora che è finita, quella storia può essere raccontata, cominciando dall’inizio. Là dove chiude Una ragazza del secolo scorso, con la nascita del Manifesto e il tentativo di far da ponte tra il Sessantotto e la vecchia sinistra. “Non funzionò e vorrei tentare di capire cosa è successo. Il libro l’ho già in testa, si tratta di scriverlo. Più che l’attuale divisione da Norma Rangeri, mi pulsano gli antichi contrasti con Pintor, Magri e Natoli”. Bisogna capire tante altre cose, anche perché il paese s’è ridotto in questo stato. “Lucio è stato quello che dal fallimento politico ha tratto le conclusioni più pesanti, scegliendo di morire. La perdita della moglie amata ha coinciso con una perdita di senso più generale. E ha preferito andarsene”. Perché volle accompagnarlo nell’ultimo viaggio? “Era il minimo che potessi fare. Nel nostro gruppo, ero la persona che l’aveva più ferito. All’epoca del Pdup, gli portai via il giornale, sottraendogli la carta più forte nella discussione con Berlinguer. Naturalmente lo rifarei da capo, ma è sicuro che gli feci male. E avendogli voluto molto bene, mi è parso il minimo stargli vicino nel momento della fine. Stava male da anni, non era una malinconia passeggera. Abbiamo fatto di tutto per dissuaderlo, ma non ci siamo riusciti. Allora gli ho chiesto: “Lucio, vuoi che ti accompagni?”. Speravo mi dicesse no. Invece lui mi ha detto sì. E io l’ho fatto”.
Aveva immaginato una morte serena, “come accadeva nell’antichità”. E invece no, non è andata così. “Un’esperienza terribile. Però è una scelta che rispetto, e capisco. Vivere per vivere non ha molto senso. Se non ci fosse Karol (ndr il marito malato che l’aspetta a Parigi) non avrei alcun interesse a vivere”. Accompagnare qualcuno verso la morte – disse una volta in un dialogo con Manuela Fraire – vuol dire addomesticare il pensiero della propria fine. “Il dolore ti fa capire molte cose, ossia il dolore stesso. Noi rifuggiamo dall’esperienza negativa, dall’annullamento, mentre il dolore ti sbatte sul muso questa roba, e allora lo capisci. Non credo invece che tu possa uscirne migliorato, perché è un’esperienza pesante, che può schiacciarti. Così come non penso che il lutto si possa elaborare, ma rimane parte di te, incancellabile”.
Tutte le persone perdute se le trascina dietro, anche qui, davanti allo strano lago che assomiglia al mare. Il lago nero della sua gioventù partigiana, quello dove i tedeschi buttarono i corpi martoriati. “Oggi vivo nel presente, ma non è più il mio, essendone venuti a mancare gli elementi costitutivi. Un presente che si restringe nel tempo e nella frequentabilità. Prima potevo dire domani vado a Berlino o salgo in montagna. Ora non lo posso dire più”. Prevede l’obiezione, gli occhi s’accendono d’ironia. “No, non mi piace invecchiare. Sono entrata nel novantesimo anno, ma non ne faccio motivo di vanto. Norberto Bobbio ci scrisse sopra uno splendido libro, De Senectute. Ma io non appartengo a questa categoria. Sono rimasta esterrefatta quando mi sono trovata un ictus addosso, e vorrei liberarmene. Cosa che non avverrà. Noi del corpo non sappiamo nulla. Le mie amiche femministe dicono che le donne siano più vicine all’organismo, ma non è vero. Ora provo cosa vuol dire avere mezzo corpo, ed è terribile. Il corpo o è integro, o non è. Non si è un po’ paralizzati, un po’ malati. Lo si è completamente”.
Ma la mente è lucida e affilata come prima dell’imboscata. “Un’aggravante. Non ti puoi distrarre da quel che sei. Non mi sono accorta di niente, quando mi è venuto l’ictus. Non ho provato dolore, non sono caduta. Guardavo la tv, nella mia casa di Parigi. E all’improvviso sono diventata una medusa, una creatura gelatinosa e impotente. Ha presente un grosso medusone?”. Ti guarda e scoppia a ridere, come se l’improbabile mostro marino appena evocato potesse portarsi via le paure. “Davvero, è così. Allora bisogna avere un carattere energico, e dirsi: io vado avanti. Ma non ho questo temperamento eroico”.
Doriana, l’amica che non l’ha mai lasciata, le porta il tablet per leggere. Rossanda è divertita e perplessa, “chissà se mi ci abituo”. Eterna sorella maggiore, quella che ne sa sempre di più, e s’addolora se gli altri non la seguono, forse è lei oggi a desiderare una sorella più grande. “No, sono prepotente. E non potrei sopportarla”. Le “ragazze del secolo scorso” sono fatte un po’ così. “Sì, certo appartengo al Novecento. Anche al giornale mi hanno guardato come una donna di un tempo lontano. Ma è stato un grande secolo, cosa che l’attuale non ha l’aria di essere. Abbiamo vissuto una storia terribile, ma una grande storia. Ora siamo nelle storielle”.
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LA VERITÀ È RIVOLUZIONARIA
EDITORIALE – Norma Rangeri
La verità è rivoluzionaria. E chi ha creduto di battersi per la rivoluzione, per tutta la vita, dovrebbe sempre dire la verità. Ma i principi e i valori vengono messi da parte quando si pensa di avere ragione.
Si può dire che i nostri lettori ogni giorno leggono «un chiacchiericcio insensato». Si può essere distanti politicamente e culturalmente affermando che «beni comuni e ecologismo, si certo di queste cose non me ne importa niente», perché invece per il manifesto rappresentano una teoria e una pratica in cui ci sentiamo coinvolti e protagonisti. Chi è poi, oggi, che, culturalmente, propone un’alternativa di sinistra ai beni comuni? La riflessione di molti, tra questi Stefano Rodotà, è una ricchezza, una via da percorrere, un terreno da coltivare. Di più, un ancoraggio di questo giornale fin dalla straordinaria campagna sui referendum del 2011. Quando un voto largo, popolare, vincente, di cambiamento scombussolò le certezze della vecchia guardia.
Si possono anche dare giudizi sprezzanti o tentare di fare la lezione su quanto è diventato brutto e cattivo il mondo. Ma ricordiamo che facciamo un giornale quotidiano per combattere con i nostri piccoli mezzi contro ingiustizie e diseguaglianze sociali molto più complesse e articolate rispetto a trenta anni fa. E non solo con belle interviste di Luciano Gallino al manifesto, con gli interventi quotidiani dei compagni di Sbilanciamoci, o con gli articoli, i commenti, le firme di un folto gruppo di collaboratori, per noi un intellettuale collettivo che parla a tutta la sinistra. Raccontando, criticando gli ingranaggi e contrastando le “verità ” di un neoliberismo feroce. Bellissimo l’ultimo libro di Alberto Asor Rosa (citato da Rossana), come preziosi per noi sono i contributi di riflessione che Asor da alcuni anni non fa mancare al manifesto.
La ragione per replicare alle affermazioni rese da Rossana Rossanda a Repubblica sta nel doveroso obbligo di smentire la falsificazione della realtà. Sostenere che lei e gli altri compagni e compagne che hanno lasciato il giornale sono stati «cacciati» è una falsità. Una grave falsità. Che peraltro tutti possono verificare: basta andarsi a rileggere i numerosi commenti pubblicati durante e dopo la nostra discussione, quando invitavamo Rossanda, Valentino Parlato e gli altri, a ritornare al giornale, perché non c’era ragione per una rottura così violenta, unilaterale, forzata. Questi nostri ripetuti inviti sono rimasti inascoltati, caduti nel vuoto. Del resto era già successo. Più volte in passato Rossana ha deciso di tagliare i ponti con il giornale, comunicandolo lei stessa ai lettori in prima pagina.
Sarebbe giusto adesso, e molto più onesto intellettualmente, riconoscere che tra noi c’è stata una forte divisione politica.
Sarebbe ora di ammettere che in una condizione di fallimento dell’impresa (la liquidazione della vecchia cooperativa), e dunque nel momento più drammatico e di maggiore fragilità per tutti, Rossana e gli altri hanno abbandonato la “nave”, pensando soltanto a se stessi, senza alcun interesse per la sorte del manifesto , quello stesso giornale che avevano contribuito a fondare. Solidarietà, collettivo, gruppo, obiettivi comuni, sono stati bruciati sull’altare di un dissenso politico ritenuto insanabile. Noi comunque non siamo morti. Anzi, siamo riusciti nell’impresa di formare una nuova cooperativa. Avere oggi in campo un giornale come il manifesto , in una crisi dell’editoria quotidiana che negli ultimi cinque anni ha inghiottito un milione di copie, in una crisi politica di sistema che mette a rischio la Costituzione repubblicana e ciò che resta della sinistra, non è il risultato di un “chiacchiericcio”. Lo strumento di un giornale quotidiano di lotta politica è oggi imprescindibile. Soprattutto nell’asfittico panorama politico-editoriale italiano. Forse è questo che brucia? Così ci era sembrato di vedere nella lettera di Rossana, privata ma generosamente recapitata qualche settimana fa alla rubrica “Riservato” dell’ Espresso (già: Espresso e Repubblica sembrano molto interessati alle nostre vicende…). Una lettera alla quale abbiamo evitato di rispondere per non adeguarci al, questo sì, «chiacchiericcio insensato». In quella brutta lettera non solo offendeva noi ma se la prendeva con chi aveva lasciato il giornale, fustigandolo per non aver saputo combattere, accusandolo di aver deposto le armi, spronandolo a darsi da fare. Comunque non avremmo replicato neppure questa volta, nonostante le bugie e i toni sprezzanti. Ma qui è in gioco un collettivo che lavora ogni giorno con le armi delle idee, dell’intelligenza, della volontà, della militanza. Per fare, con fatica ma con la testa e il cuore, un giornale legato alla comunità delle lettrici e dei lettori. Comunità con la qualche vorremo condividere anche altri momenti, oltre la lettura del manifesto , sperando di riuscire a farlo quando potremo alzare la testa per progettare un piano editoriale. A Rossana un ultimo messaggio. Le giornaliste, i giornalisti, i tecnici che oggi lavorano a via Bargoni non li conosce, ma sono di sinistra, di un’altra, diversa, sinistra. Sono, politicamente parlando, i suoi “nipoti”, le ragazze e i ragazzi di questo secolo. Per tutti noi è una fortuna, perché il futuro sarà nelle loro mani. Noi lo speriamo e lavoriamo, da quarant’anni, proprio per questo: per assicurare una ancora lunga vita al manifesto .
8 giugno 2013
Le verità del “manifesto”
Posted on 11 giugno 2013 di idomini
Nella migliore tradizione del peggior comunismo l’attuale direttora del manifesto, che non tralascia occasione di autocelebrarsi come la più modernista, la più laica e pluralista e la più innovativa fra noi (ma si dovrebbe aggiungere, dato che la storia ha un senso: la meno anti-craxiana e la più filo-occhettiana), gestisce il giornale come la Pravda. Alla faccia del pluralismo con cui gratifica la vetrina dei collaboratori esterni, non appena uno o una di noi – preferibilmente Rossanda (la Repubblica 7/6/2013), con la quale si ostina a ingaggiare un perdente corpo-a-corpo – osa dire qualcosa di una storia che gli/le appartiene, si mette al computer e ristabilisce ”la” Verità istituzionale del manifesto, come se appartenesse solo a lei (”La verità è rivoluzionaria”, il manifesto 8/6/2013).
La verità però non è solo un effetto del potere, ma anche, e di più, dell’autorità: e per essere autorevoli, e quindi credibili, non bastano le mostrine da direttore, né la firma in prima pagina. La verità inoltre, salvo che per i fondamentalisti, non è mai una, né tantomeno è istituzionale: nei limiti in cui può essere oggettiva è consegnata all’archivio del giornale, per il resto è inevitabilmente soggettiva, e ci vorranno parecchi racconti soggettivi per restituire una storia plausibile e veritiera del manifesto. La verità infine, questo lo dico soprattutto ai lettori e alle lettrici del giornale che non smettono di chiederci conto di com’è andata, non è sempre eroica: a tutti piacerebbe poter dare o poter ascoltare il racconto eroico di uno scontro politico epico che ha diviso il manifesto, ma purtroppo non è andata così. La fine, del resto, è spesso insensata, e viceversa: se avessero sempre senso, le cose non finirebbero mai. Se al manifesto ci fosse stato un epico scontro politico, il manifesto non si sarebbe spaccato: ne sarebbe stato rivitalizzato, come tante volte in passato.
Al passato, un passato ormai lontano, primi anni ’80, appartiene anche lo scontro fra fautori di un giornale-partito e fautori di un giornale-giornale, la rappresentazione ridicola che l’attuale direttora si è data e ha pubblicamente dato del nostro esodo, pescandola dai suoi evidentemente pochi ricordi disponibili della vita di redazione. Questa rappresentazione ridicola, cui la direttora di nuovo allude nel suo ultimo editoriale, serve solo a coprire la tenace pratica di spoliticizzazione e normalizzazione del manifesto portata avanti dalla sua attuale governance. Altro che scontro politico: è stata la delegittimazione del terreno stesso del confronto politico e culturale, nonché la distruzione della pratica di relazione che teneva in vita il collettivo, a decretare la diaspora del manifesto. Di questo, nell’andarcene, abbiamo già scritto, in gruppo e individualmente (cfr. gli interventi miei, di Mariuccia Ciotta e Gabriele Polo, di Angela Pascucci, Loris Campetti, Maurizio Matteuzzi e altri sul manifesto del 31/10, 1/11 e 3/11 2012, e il testo collettivo Così vicini, così lontani del 22/12/12); e mi stupisce non poco che tanti lettori e lettrici continuino a dire che ”non capiscono”. Dovevamo essere più chiari? Lo saremo, a tempo debito. Nell’elaborazione dei lutti si tace, a volte, per tutelare l’oggetto perduto.
L’attuale direttora invece non tace e non tutela niente, e anzi continua a brandire come un machete la sua versione dei fatti. Che adesso è diventata, papale papale, la seguente: ce ne siamo andati abbandonando la nave mentre affondava. Qui siamo, veramente, oltre il limite della diffamazione, e dentro la più vieta retorica del piccolo potere che si autovittimizza per far fare agli altri la parte del carnefice. Come dovremmo rispondere a questa infamia? Con l’elenco delle battaglie cadute nell’indifferenza, delle proposte mai prese in considerazione, delle riunioni di redazioni ridotte a liturgia esecutiva e delle assemblea ridotte a farsa senza procedure? Oppure con l’elenco dei prepensionamenti accettati senza che nessuno ci chiedesse di continuare a collaborare e anzi nella generale soddisfazione di chi restava padrone del campo, con le cause per sottoutilizzazione non fatte per pietà, con un plauso ai comitati di redazione solerti nel tutelare solo chi restava e non chi accettava di farsi da parte (a proposito, dove sono i nostri Tfr?)? O con l’ancor meno edificante mappatura affettiva, o meglio anaffettiva, degli ultimi anni di vita in Via Bargoni?
Noi preferiamo tacere, per tutelare l’oggetto perduto dalla distruttività che chi dice di averlo salvato non riesce evidentemente a contenere. Ma non sopporteremo a lungo che la storia del manifesto resti consegnata alla favola melensa di un romanzo familiare che ne fanno i giornali mainstream o alla retorica ipocrita, nientedimeno che ”rivoluzionaria”, di chi ha usato e usa ogni mezzo per autolegittimarsi come unico erede di quello stesso romanzo. La convinzione, l’intelligenza, le energie, la passione e le professionalità spese da tanti di noi – Rossana per prima e non solo Rossana – per la vita del giornale domandano perentoriamente riconoscimento, riconoscenza e rispetto.
Non è chiaro peraltro quale sia il guadagno politico, o culturale, di questa interminabile e persecutoria contesa autocentrata e autoreferenziale. Se è vero, ed è vero, che il manifesto è sempre stato un pezzo, un’avanguardia, un riflesso o anche solo un sintomo della sinistra di questo paese, più utile sarebbe porsi ruvidamente qualche domanda. La prima: l’ultima crisi e l’ultima separazione del manifesto si sono consumate nel sostanziale silenzio e nel disinteresse di una comunità politica e culturale che per decenni ha nutrito e si è nutrita del giornale: come fosse un talk show da ascoltare distrattamente più che la vicenda di un ”noi” collettivo cui partecipare direttamente ed effettivamente. La contabilità dei collaboratori che continuano, legittimamente e meritoriamente, a postare i loro contributi o dei lettori che continuano, altrettanto legittimamente e meritoriamente, a leggere il ”loro” giornale, non può fare velo alla constatazione e all’analisi di questo cambiamento, che è evidente a chiunque abbia fatto non soltanto ”l’ultima”, ma le molte e continue battaglie per la sopravvivenza del manifesto nel corso di quarant’anni. E che non era l’ultima delle ragioni che richiedevano di portare avanti, con il risanamento dell’azienda, quel rilancio politico-culturale della testata ritenuto superfluo dalla ”newcoop”.
Seconda domanda. Il tracollo della sinistra italiana cui abbiamo assistito nei due mesi successivi alle elezioni politiche si è manifestato con una costellazione sintomatica assai simile a quella che abbiamo vissuto nella crisi e separazione del manifesto: un misto di confusione culturale, guerriglia generazionale, incapacità di sedimentazione genealogica, ”rottamazione” ovvero godimento nell’eliminazione ad personam delle tracce della propria storia. Dice qualcosa questa singolare similitudine? L’attuale direttora sostiene, e in questo ha ragione, che chi lavora oggi a Via Bargoni è una sinistra, anche se diversa e lontana da quella novecentesca. Si spera che della (migliore) sinistra erediti un po’ di spirito critico e autocritico e la capacità di guardare dentro le proprie contraddizioni, questa ad esempio: che può accadere, è accaduto in Via Bargoni, che si predichi la causa dei beni comuni praticando al contempo una guerra selvaggia per la proprietà e l’appropriazione di un bene comune, quale il manifesto è stato e avrebbe dovuto restare. Senza guardarsi nello specchio di questa contraddizione quella di Via Bargoni sarà sì una sinistra, erede però di quella scissione fra enunciati e pratiche che da sempre, della sinistra, è la peggior malattia.
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