Amato è un uomo di Stato, anzi molto di più, membro riconosciuto dei circoli internazionali che contano, la sua biografia è lunga e importante: innanzitutto uomo di cultura, professore di diritto costituzionale, negli anni 70 è tra i protagonisti del «duello a sinistra» condotto dalle pagine di Mondoperaio contro l’ossificata egemonia culturale di un Pci impregnato di cattocomunismo. I temi agitati furono diversi, dalla critica dei totalitarismi sulla scia del pensiero arendtiano, all’uso di alcuni concetti della teoria della giustizia di Rawls, alla riscoperta un po’ folcloristica della figura mediocre di Proudhon contro Marx, ad orizzonti un po’ più solidi come la sociologia di Niklas Luhmann. Dopo una iniziale esperienza nel Psiup, Amato entra nel Psi, diventa deputato nei primi anni 80 cooptato da Craxi di cui fu prima consigliere economico e politico poi sottosegretario alla Presidenza del consiglio nei due governi, il Craxi I e il Craxi II, che il leader socialista diresse tra il 1983 e il 1987. Successivamente è ministro del Tesoro (1987-1989) nei governi Goria e De Mita.
Figura decisiva, Amato entra nelle leve del governo in posti chiave per oltre un decennio, ininterrottamente fino al 1989. Poi nel 1992 consuma il grande tradimento con il suo padrino politico, condannato dalla magistratura e sulla via dell’esilio, ed accetta di diventare primo ministro su mandato del presidente della Repubblica Scalfaro.
Con il crollo della prima repubblica Amato assume ruoli più defilati, ma è sempre lì, dal 1994 al 1997 è presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per poi ritornare al governo dopo l’avvicinamento ai Ds, nel 1998, come ministro delle Riforme dell’esecutivo D’Alema, nel 1999 come ministro del Tesoro e del Bilancio, quindi ancora una volta come capo del governo nel 2000 e infine ministro dell’Interno, nel 2006, con Prodi. Partecipa per conto dell’Italia al gruppo dei saggi che stilano la bozza della costituzione europea ed è consulente della Deutsche bank. Insomma una personalità di rilievo internazionale. Per questo motivo le parole di Amato sulle torture sono qualcosa di più della semplice testimonianza di quello che una figura di potere di così alto spessore ha potuto sapere, sentire, leggere o conoscere nei posti chiave che ha occupato. Se un uomo così parla, dopo alcuni decenni dai fatti, è perché vuole sancire qualcosa. E al di là del consueto linguaggio felpato, delle cautele espressive, il dottor Sottile dice delle cose molto chiare:
a) si è ricorso a strumenti d’eccezione ed extralegali;
b) si è fatto uso della tortura, malgrado le smentite;
c) seppure in numero limitato alcuni magistrati erano al corrente dell’impiego della tortura. In un Paese dove vige l’azione penale obligatoria sapere e non intervenire significa una cosa sola: coprire. Ergo un pezzo di magistratura, non importa la quantità ma la qualità, ovvero le procure che gestivano le inchieste più importanti sulla lotta armata, hanno coperto e difeso l’impiego strategico della tortura.
Soprattutto trovano una sonora smentita le frasi del presidente della Repubblica Sandro Pertini, che fu compagno di partito di Amato, il quale aveva detto che in Italia il terrorismo era stato sconfitto nelle aule di giustizia e non negli stadi; e ancora di più le incaute dichiarazioni del generale Dalla Chiesa che rispondendo ad un giornale argentino affermò: “L’Italia è un Paese democratico che poteva permettersi il lusso di perdere Moro non di introdurre la tortura”.
Non è poco!
Giuliano Amato, Andrea Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia il Mulino 2013 pp. 152-153
[…] Ma furono la difficile vittoria contro il terrorismo e la lotta contro la criminalità organizzata, l’impegno e la passione civile, nonché i sacrifici – anche in termini di vite umane – che essi richiesero, a far acquistare alla magistratura un prestigio crescente e il sostegno e la gratitudine di vasti settori dell’opinione pubblica, specie nei ceti colti e amanti della legalità. Essa le diede tuttavia anche un senso esaltato della propria potenza e dei propri compiti e una sicurezza nuova nei rapporti con la classe politica, tanto più che quest’ultima aveva fornito senza troppo discutere gli strumenti necessari al successo e aveva coperto il ricorso a metodi e strumenti ai margini della legalità (anche se non della norma in situazioni eccezionali), quando non extralegali, di fatto ammettendo una sorta di sua subordinazione all’iniziativa di inquirenti e polizie.
Accanto alle inchieste coraggiose e ai sacrifici vi fu infatti il ricorso a forme di pressione fisica e psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti, che nel caso dei primi sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura. A parlarne sono stati gli stessi funzionari che ne furono i protagonisti. Essi hanno per esempio accennato all’uso del water boarding (allora chiamato «algerina» perché usato dai francesi in Algeria) da parte di un gruppo speciale che – probabilmente ispirandosi a uno «spaghetti western» di successo – si era ribattezzato «I cinque dell’Ave Maria» (16). Le applicazioni controllate furono in tutto poche decine, e di esse si discusse alla Camera per tre volte dal marzo al luglio 1982, quando Rognoni negò ripetutamente la cosa, ma ve ne furono anche di selvagge, come ammise Scalfaro all’epoca ministro dell’Interno (17).
[…]
Se pochissimi magistrati seppero del water boarding e pochi dei pestaggi degli arrestati – che in qualche caso cercarono di contrastare con sentenze coraggiose – diverso è il caso dei trattamenti speciali dei detenuti e della possibilità di usare il carcere come strumento di pressione nei confronti di categorie di persone ritenute particolarmente indegne, che divennero pratiche abbastanza diffuse negli anni Ottanta.
Note
16. N. Rao, Colpo al cuore, Milano, Spelling & Kupfer, 2011. Questo gruppo sarebbe stato capeggiato dal funzionario Nicola Ciocia, noto come i professor «De Tormentis», divenuto dopo il pensionamento un dirigente della Fiamma tricolore. Sembra che una versione primitiva del water boarding (Toca) fosse già usata dall’Inquisizione e nelle colonie. In Italia pare fosse impiegato nei primi anni del XX secolo in Sicilia e Sardegna contro mafiosi e banditi, e poi usato sporadicamente dalle squadre mobili di Napoli e della Sicilia. I francesi in Algeria lo usarono invece sistematicamente. Cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Waterboarding//Historical_uses e H. Alleg, La question, Paris, Editions de minuti, 1958, con una prefazione di Sartre. A lungo vietato in Francia il libro uscì da Einaudi con il titolo La tortura. Insieme a La battaglia di Algeri di Pontecorvo. Dove sono mostrate scene di tortura con fiamma ossidrica, elettroshock e annegamento parziale, potrebbe essere stato tra le fonti di Ciocia. Un dirigente della polizia, Salvatore Genova, ne ha raccontato la storia su «Il Secolo XIX» del 24 giugno 2007. Ciocia l’avrebbe poi, ma ambiguamente, smentito sul «Corriere del Mezzogiorno» dell’11 febbraio 2012.
17. A Sofri, Le torture della polizia negli anni di piombo, in «la Repubblica», 16 febbraio 2012.
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